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mater (# 3)

di Giacomo Sartori

 

come foglie di novembre

 

non mi dicevi ch’era morto

l’amico d’una vita

o l’ultraconfidente

crollato un altro bastione

dissertavi e divagavi

murata nella logorrea

(stizziti guizzi del mento)

 

le persone sparivano

dalle tue frasi troppo tese

come foglie di novembre

da tralci traumatizzati

 

qualche spettro riafforava

anni o decenni dopo

fossile ben conservato

carezzato con discrezione

da un’altra era

 

 

eri molto bella

 

scavata e senza rossetto

(l’odiato rossetto

d’eccentrica borghesaccia

d’acculturata baldracca)

i capelli fini e candidi

sovrimpressa ormai a tua madre

eri più grave

eri molto bella

 


 cosa ci faccio

 

cosa ci faccio

io già quasi anziano

da questa officiante

le sue introspezioni sagaci

dalla scia svolazzante

(vezzo o accento?)

intenderebbero riattarmi

i suoi affondi liturgici

svellerti dalla mia psiche

così s’accanisce un meccanico

su un catorcio d’annata

 

non sarebbe meglio

lo sfasciacarrozze?

 

 

anche se guarisco

 

anche se guarisco

cosa faccio

sono così vecchia

 

 

c’è stata un’era

 

c’è stata un’era

in cui il tuo mondo

era il mio mondo

la rampolla milionaria

la mia compagnetta

i tuoi romanzi i miei romanzi

la tua rivista progressista

l’arma per farmi grande

 

ti seguivo nelle tue tappe

mondane e furibonde

(più scorno che invidia)

come un valletto allegro

(un caschetto platinato

di cantante pop)

come un pretendente

tutto sembrava quadrare

 

seguitando su quei tappeti

(basta aie acide d’urina

di cani smagriti alla catena

basta stalle con vacche smerdate)

avrei un foulard al collo

officerei a cene di potenti

(spettro forse di suicida?)

 

 

ho detto ch’ero caduto

 

spazzavi il lastricato

energica e aggrondata

(tormenti certo di quattrini)

e io ti roteavo attorno:

eccitate giravolte

(la bici nuova di pacca!)

in esubero di vitalità

e d’attaccamento

un’esultanza insomma di cane

(in attesa d’altri umori)

 

brandendo la scopa

m’hai scaricato addosso

la tua ira di rossa

m’hai fracassato il metacarpo

 

all’ospedale vedevo

un terrore di roditore

nei tuoi occhi di vetro

temevi spifferassi tutto

 

ho detto ch’ero caduto

 

 

nel tuo arrenderti

 

nel tuo arrenderti

non avevi messaggi

da rimetterci

questioni da chiudere

o insomma riordinare

nessuna rivelazione

nessun mistero

perfino le tue malinconie

(battute da brezzette

più sanremesi che letterarie)

s’erano dissipate

restava la vergogna

d’un corpo ammutinato

l’ansia di ore fuori controllo

in balia di infermieri discinti

che ti davano del tu

(a te!)

il terrore del dolore

lo smacco di non poter officiare

lieve e dispotica

gaia e nevrastenica

come sempre

 

negli occhi di un bue al macello

c’è forse più metafisica

 

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2 COMMENTS

  1. Mi piacciono molto queste poesie sulla “madre”. E mi piace molto questa serie pensata, sentita e trascritta direttamente dal centro dell’anima. Questa è la dimostrazione, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che la poesia vive (e sopravvive) al netto di tutte le possibili e impossibili stronzate. Complimenti.

  2. un’altra cosa che mi piace molto è l’asimmetria tra il narratore adulto, che racconta con passo cadenzato e precisione aggettivale, e la prospettiva del bambino (che smania, emula, assilla, adora, è un bambino), che fa il paio col contrasto tra la fierezza giovanile e la fragilità della madre anziana – questo non sapere far portare i conti è molto commovente

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