Diario parigino 5. La democrazia bloccata, la crisi del Partito Socialista e i movimenti di contestazione in Francia

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di Andrea Inglese

Proviamo a guardare la sequenza più ampia. In Francia, paese del presidenzialismo, per 17 anni abbiamo un presidente della Repubblica che viene dai ranghi della destra. Chirac è rieletto per due mandati consecutivi dal 1995 al 2007, e Sarkozy, che gli succede, lascia la carica, nel maggio del 2012, a Hollande, nuovo presidente socialista. Prima di lui, bisogna risalire alla lunga parentesi rappresentata dal doppio mandato di Mitterand (1981-1995), per trovare un altro presidente socialista. Non azzardo un bilancio politico dell’ultima presidenza di destra, quella di Sarkozy, ma alcune cose risultano evidenti. Sarkozy ha fatto quanto poteva per aiutare i grandi patrimoni e le grandi imprese, e nello stesso tempo si è impegnato a fondo per criminalizzare i poveri, cominciando dagli immigrati. I margini di manovra per realizzare delle massicce riforme che spingessero la Francia verso scenari di radicale liberalizzazione sul modello Thatcher o Regan, in Francia non c’erano. Sarkozy si è trovato, quindi, in una situazione simile a quella di Berlusconi in Italia. Non potendo demolire le garanzie universali dello Stato sociale, senza provocare violente reazioni nella popolazione, entrambi hanno agito soprattutto sul versante fiscale e su quello repressivo. In qualche modo, hanno dovuto compensare sul piano della retorica neo-liberista l’impossibilità di realizzare, nei fatti, il progetto di uno smantellamento radicale dello Stato sociale. Da qui la continua e virulenta stigmatizzazione degli immigrati, dei disoccupati delle periferie, degli assistiti, dei funzionari statali, per non parlare dei “comunisti” (Berlusconi) e dei “sessantottini” (Sarkozy). Tutta questa violenza verbale ha funzionato come una sorta di esorcismo nei confronti della loro incapacità di servire il grande capitale fino in fondo. Gli effetti di questa retorica, almeno in Francia, sono stati estremamente nocivi, e hanno aperto uno spazio di manovra all’immaginario e al discorso ancora più aggressivo dell’estrema destra razzista del Fronte Nazionale.

Hollande vince le elezioni contro Sarkozy, tenendo un discorso esplicitamente di sinistra che suscita grandi speranze negli elettori più ingenui e qualche speranza negli elettori più scettici. Due chiari obiettivi della campagna di Hollande sono: limitare il potere delle banche e delle grandi fortune, e limitare la politica europea di austerità. Vale la pena, però, di fare un passo indietro e chiedersi chi sono, nel 2012, i socialisti. Per capirlo, basta pensare a colui che, al posto di Hollande, doveva essere il candidato vincente delle primarie socialiste, Dominique Strauss-Kahn. L’uomo di punta per le elezioni presidenziali del partito socialista doveva essere l’ex direttore del Fondo Monetario Internazionale, ossia una delle istituzioni economiche internazionali più permeata dall’ideologia liberista. Ma al giorno d’oggi non solo esiste una destra, come dicono in Francia, décomplexée (senza complessi), ma anche la sinistra (socialista) è molto décomplexée. Quindi presidenza del Fondo Monetario e (eventuale) presidenza della Repubblica con governo socialista, non erano per nulla considerate come esperienze disparate o contraddittorie. Strauss-Kahn, però, si è dimostrato “senza complessi” anche sul versante “morale”. Lo scandalo suscitato dalla (presunta) aggressione sessuale nei confronti di una cameriera del Sofitel di New York farà emergere pubblicamente la sua predilezione per rapporti sessuali violenti e umilianti con prostitute, che in genere venivano pagate dai suoi amici o clienti. Ricordo questi fatti, perché è doveroso comprendere che la crisi del Partito socialista francese non è solo una crisi d’orientamento politico, di un partito che “non fa più una politica di sinistra”. È anche una crisi d’orientamento morale. A riprova di questo, si pensi al caso di Jérôme Cahuzac, ministro del Bilancio nel primo governo a maggioranza socialista costituito sotto la presidenza Hollande. Due informazioni soltanto sul personaggio: dirige una clinica di chirurgia estetica di sua proprietà e si è fatto montagne di soldi come consulente delle industrie farmaceutiche. Non rimarrà nel governo neppure un anno, perché – grazie a informazioni diffuse dal sito indipendente Mediapart – è accusato di frode fiscale, e dovrà dare le dimissioni.

Volendo ora fare un bilancio rapido della presidenza Hollande, essa si caratterizza per “un tradimento” del mandato elettorale. Quello che il presidente ha promesso, non ha fatto. E tanto il suo discorso elettorale era spostato a sinistra, tanto il suo attuale governo è spostato a destra. Il primo ministro attuale, Valls, alle primarie socialiste aveva ottenuto solo il 5% dei voti. (Secondo un giornalista, Hollande avrebbe fatto questa battuta durante le primarie: “Fortunatamente vi partecipa anche Valls, così c’è almeno qualcuno che si colloca più a destra di me”.) La situazione che si è venuta a creare intorno all’azione di governo è quindi doppiamente tesa. All’interno del partito socialista, dove Valls rappresenta una corrente minoritaria di orientamento “socio-liberale” – se una tale formula ha un qualche significato –, una fetta importante di deputati socialisti (i cosiddetti “frondisti”) non si riconoscono nella sua azione di governo. La medesima tensione si è fatto ancora più esplicita tra l’esecutivo e una grossa parte dell’elettorato di sinistra, come la massiccia mobilizzazione contro la “legge sul lavoro” rende evidente.

Ci troviamo, qui, di fronte a un doppio impedimento al normale funzionamento della democrazia rappresentativa. L’impedimento derivante dalle politiche economiche europee, che limitano in maniera illegittima la sovranità politica degli Stati, e l’impedimento derivante da un diretto tradimento di mandato, da parte di chi è stato eletto in virtù di certi valori riconosciuti, e di certi orientamenti politici.

In questo contesto di forte disillusione dell’elettorato di sinistra, si sono verificati in Francia, nell’arco di soli dieci mesi, degli attentati terroristici estremamente violenti per il numero di vittime e feriti realizzati, e per le modalità attraverso cui sono stati condotti. L’intero paese ha vissuto per alcuni mesi sotto una cappa di piombo, soprattutto a partire dal 13 novembre con l’adozione del governo dello “stato d’emergenza” e l’osceno dibattito, promosso dallo stesso Hollande, sulla “revoca della cittadinanza” per i terroristi francesi condannati, che abbiano la doppia cittadinanza (francese e algerina, ad esempio).

Apro una breve parentesi. All’epoca delle grandi mobilitazioni in risposta agli attentati contro la redazione di Charlie Hebdo e dei clienti dell’Hyper Cacher, diversi interventi nati nell’ambito della sinistra radicale denunciarono, con riferimento soprattutto alla grande manifestazione parigina dell’11 gennaio, una reazione islamofobica, una mobilitazione acefala e manipolata dai media, una discesa in piazza massiccia dei “bobo”, ossia del ceto medio-alto della capitale. Io diedi una lettura diversa di quella imponente mobilitazione, che non mi sembrava per nulla confermare lo “spostamento” sempre più a destra della società francese. (Questo spostamento c’era e c’è, ma non riguardava quel popolo in piazza.) La mia valutazione di quell’evento era globalmente positiva, e mi sembrava dimostrasse la capacità di una fetta importante della società francese di reagire in modo solidale e democratico, senza farsi trascinare in una deriva razzista e paranoica. Toni Negri, che non è mai stato un mio autore culto, si spinse persino a vedere in quella mobilitazione i germi di una nuova generazione in grado di uscire dal fatalismo e capace di sviluppare atteggiamenti critici nei confronti della società attuale. In questo caso, mi pare che l’ottimismo di allora sia confermato dai fatti di oggi. In particolar modo, la ripresa della mobilitazione studentesca e la nascita di forme di cittadinanza critica e autogestita come “Nuit debout”, mostrano che delle premesse già esistevano, e in qualche modo gli attentati terroristici invece di sancire un definitivo ripiegamento della società sui temi della sicurezza e del controllo, hanno funzionato sul medio periodo come elementi scatenanti, in grado di far emergere una forte reazione sociale.

La mobilitazione ampia e trasversale nei confronti della “legge sul lavoro” mostra che l’elettorato di sinistra non si accontenta di subire astenico e rassegnato lo spettacolo di una democrazia bloccata, in cui i rappresentanti della visione del mondo democratica ed egualitaria possano tradire il loro mandato senza conseguenze.

Uno dei temi che ha caratterizzato un movimento come “Nuit débout” è stato quello del passaggio dalla contestazione di una legge specifica alla contestazione di un intero sistema (sociale, economico e politico). In un contesto caratterizzato da un’azione estremamente orizzontale e apartitica come quello rivendicato dai militanti di “Nuit débout”, una tale radicalizzazione produce, in realtà, vantaggi e svantaggi. Il primo svantaggio è che quando si passa dalla lotta per il ritiro di una legge specifica all’assemblea permanente cittadina per riscrivere la costituzione, il rischio di ritrovarsi con la vecchia costituzione, aggravata dalla nuova legge, è molto alto. Questo è un problema tipico della militanza anticapitalista, che oscilla tra lotte locali circoscritte, efficaci e con chiari obiettivi, e lotte permanenti che guardano a obiettivi astratti, come la fuoriuscita dall’economia capitalistica e la dissoluzione dello Stato. Ma questo tipo di radicalizzazione ha anche un enorme vantaggio. Costituisce una palestra di pensiero e formazione per nuove generazione di militanti che non si trovano semplicemente instradati nelle azioni e nei discorsi dei partiti dell’estrema sinistra o delle organizzazioni sindacali più attive. Più che una convergenza di lotte, c’è stata una convergenza di soggetti diversi, tutti accomunati da un’insofferenza nei confronti di una democrazia bloccata, in cui l’iniziativa è presa costantemente dal grande capitale e dalle grandi imprese. Il fatto che la radicalità libertaria e orizzontale di “Nuit débout” si sia trovata alleata all’irruenza dei movimenti studenteschi e soprattutto all’azione potentemente organizzata dei sindacati francesi, che combattono sempre con un obiettivo chiaro e quindi con la possibilità concreta di verificare il grado di efficacia di un lunga lotta, tutto ciò ha grandemente contribuito a rendere questo movimento di contestazione forte e anche originale.

Vi sono due altre questioni che m’interessa affrontare. Ma lo farò in un pezzo ulteriore. Alludo al rapporto tra la violenza dei “casseurs” e la brutalità poliziesca, da un lato, e la difficoltà di integrare nei movimenti di contestazione di sinistra le fasce popolari spesso proveniente dai quartieri più poveri e degradati.

12 COMMENTS

  1. Mi piace soprattutto questo: “Ma questo tipo di radicalizzazione ha anche un enorme vantaggio. Costituisce una palestra di pensiero e formazione per nuove generazione di militanti che non si trovano semplicemente instradati nelle azioni e nei discorsi dei partiti dell’estrema sinistra o delle organizzazioni sindacali più attive. Più che una convergenza di lotte, c’è stata una convergenza di soggetti diversi, tutti accomunati da un’insofferenza nei confronti di una democrazia bloccata, in cui l’iniziativa è presa costantemente dal grande capitale e dalle grandi imprese. Il fatto che la radicalità libertaria e orizzontale di “Nuit débout” si sia trovata alleata all’irruenza dei movimenti studenteschi e soprattutto all’azione potentemente organizzata dei sindacati francesi, che combattono sempre con un obiettivo chiaro e quindi con la possibilità concreta di verificare il grado di efficacia di un lunga lotta, tutto ciò ha grandemente contribuito a rendere questo movimento di contestazione forte e anche originale.”

  2. Un attraversamento della città Parigi davvero intenso nei suoi molti aspetti, lo leggerei volentieri

  3. Articolo interessante. Ma vedere una continuità tra la manifestazione istituzionale post Charlie Hebdo e il movimento contro la Loi Travail mi sembra un po’ troppo semplicistico e fideistico. L’unica cosa in comune è il luogo fisico: Place de La Republique. Mi sembra che siano due mondi differenti. Sarebbe troppo lungo un’analisi particolareggiata tra testimonianze personali, frequentazioni e quant’altro. Rimando a una breve riflessione di qualche tempo fa, per chi ha il piacere della discussione: http://effimera.org/autonomia-istituzioni-cosa-ci-dice-la-francia-grateful-dead/. La prima Place de la Republique vuole protezione passiva, mediazione istituzionale e accetta l’Etat d’Emergence senza battere ciglio, la seconda autonomia, autodeterminazione e democrazia diretta. E se Nuit Debout a Marzo ha avuto quella diffusione virale e crescente è stata forse per scacciare i fantasmi di Charlie Hebdo, del Bataclan e di quell'”altra” Place de La Republique, non per continuarla….

  4. Bell’articolo, interessante. Non si può fare a meno di mettere a confronto quello che viene qui descritto con la situazione in Italia, notandone le similitudini (molte) e le differenze (significative).

    C’è però un punto che mi ha lasciato molto perplesso:

    L’impedimento derivante dalle politiche economiche europee, che limitano in maniera illegittima la sovranità politica degli Stati […]

    Le istituzioni europee sono espressione della volontà popolare né più né meno delle istituzioni degli stati membri. Il parlamento europeo viene eletto a suffragio universale e la commissione viene nominata dagli esecutivi nazionali e riceve la fiducia del parlamento europeo.

    Non vi è nulla di illegittimo nel modo di operare di queste istituzioni. Voler deligittimare le istituzioni perché non si è d’accordo con le politiche che portano avanti è un’operazione rischiosa, che porta a posizionarsi in modo contiguo alle destra nazionaliste.

    Allo stesso tempo, volersi trincerare all’interno di quei feticci borghesi che sono gli stati nazione solo perché il capitale è stato sinora più abile dell’internazionalismo dei lavoratori nello sfruttare lo superamento dei confini nazionali non può che portare alla sconfitta: è sul piano delle istituzioni transnazionali che bisogna portare la lotta, non ritirandosi da esse.

    • Beh, l’Eurogruppo opera in modo illegittimo, essendo un organo informale privo di statuto, regole, persino privo delle minute delle riunioni, che definisce e realizza politiche estremamente concrete.

      Più in generale, l’opposizione ai vincoli di austerity imposti dall’UE difficilmente può esser fatta da un singolo stato membro, ma deve avvenire di concerto a livello europeo. E’ il programma di DiEM25 (Yanis Varoufakis et al):
      https://diem25.org/

      • Beh, l’Eurogruppo opera in modo illegittimo, essendo un organo informale privo di statuto, regole, persino privo delle minute delle riunioni, che definisce e realizza politiche estremamente concrete.

        Assolutamente no. Il modo di operare dell’Eurogruppo è perfettamente legittimo, in accordo con il “Protocollo sull’Eurogruppo” introdotto dall’articolo 115B del Trattato di Lisbona.

        Lo so, Jan, che la tentazione di definire illegittimo un organismo che non ci piace è forte, ma il criterio per definire ciò che è illegittimo o no, non è quello.

  5. In risposta ad Andrea Fumagalli. Sono d’accordo con l’analisi del concetto di “autonomia” in relazione al movimento Nuit débout. Una precisazione sulla questione delle due piazze, quella dell’11 gennaio e quella di fine marzo. Lordon aveva accusato la manifestazione dell’11 (2015) di non reagire come ha poi reagito la piazza a marzo (2016), inventandosi la Nuit ébout. Qui l’analisi politica scavalca la comprensione antropologica. Chiedere alla popolazione parigina un passaggio simultaneo dalla calma piatta politica del prima degli attentati, alla mobilitazione anticapitalistica del dopo gli attentati (di novembre), era secondo me un ragionare secondo la logica del desiderio. Io in piazza l’11 c’ero, e considero quella una manifestazione ambigua, che si trincera dietro le istituzioni repubblicane, ma che nello stesso tempo chiede che queste istituzioni repubblicane siano portatrici di democrazia. In sintesi, in quella piazza c’erano molte persone di sinistra di varie generazioni, persone che si erano come risvegliate da un torpore e avevano bisogno di uscire dalla pura passività dello stare in casa a guardare i dibattiti televisivi sulla sicurezza. Nelle mobilitazioni spontanee nate dopo gli attentati (nei giorni precedenti all’11) non avevano potuto ancora elaborare una risposta che fosse diversa dalla pura testimonianza emotiva. Ma per me è chiaro che una parte di quella piazza (o di quelle piazze) del dopo attentati (qui mi riferisco a quelli di novembre) si è ritrovata quattro mesi dopo nella mobilitazione studentesca di Nuit débout. Non a caso le accuse di “bobo”, sono state dirette anche ai militanti di “Nuit débout”. In sintesi, una certa (parziale) continuità per me esiste tra le due piazze, ed è una continuità di soggetti, ma i soggetti cambiano e mutano, e in tre mesi, dopo gli attentati di novembre, c’è stato una metamorfosi di soggettività, legata anche alla palese inadeguatezza delle istituzioni di dare una risposta che fosse all’altezza degli ideali repubblicani, inadeguatezza che un anno di governo e presidenza socialista hanno palesemente mostrato. E noi possiamo sorridere finché si vuole sugli “ideali repubblicani”, ma – come le foto dell’articolo di Fumagalli mostrano – la gente scrive nella piazza durante le assemblee generali di Nuit débout “la democrazia è qui”. Il che significa che l’ideale democratico è qualcosa che conta, non semplicemente un paravento del capitale da gettare alle ortiche.

  6. Aggiungo una valutazione sul confronto Italia e Francia. La capacità di mobilitazione vasta e radicale che la Francia continua a mostrare, nonostante i lunghi periodi di calma piatta, sono inerenti a un certo “idealismo” della cultura francese, e del carattere nazionale francese. Questo idealismo fa si che quando un governo di sinistra disattende in modo scandaloso i principi a cui si richiama, i francesi, diversamente dagli “scettici e oltremodo realisti italiani”, non reagiscono semplicemente con un’alzata di spalle, dicendo “Bè, ma che t’aspettavi da uno come Renzi, era prevedibile”. Il movimento Nuit débout va spontaneamente verso forme di autogestione e di critica al capitalismo, perché “crede” per davvero negli ideali democratici e reagisce allo scempio che essi subiscono nella loro incarnazione parlamentare odierna. Gli italiani, forse, a questi ideali non hanno mai veramente creduto. Non si sa se perché hanno preso alla lettera la critica marxista alla democrazia formale, o perché semplicemente si sentono ancora dei sudditi piuttosto che dei cittadini.

    Nicola Esposito grazie della sua obbiezione. Appena ho un po’ di calma, vorrei risponderle.

  7. @ Nicola Esposito.

    Molto è stato scritto sul condizionamento antidemocratico che il Patto di stabilità e di crescita impone alle politiche economiche dei singoli stati europei. In Francia, la questione è stata trattata in modo approfondito dai firmatari del manifesto degli “économistes atterrés” (http://www.atterres.org/), che continuano a promuovere una critica delle politiche di bilancio della Commissione Europea.
    Qui inserisco un passaggio di un articolo in italiano dedicato al nesso patto di stabilità e democrazia (https://cambiailmondo.org/2012/02/08/il-nuovo-patto-fiscale-europeo-fine-della-democrazia/).

    “Il secondo fatto, che colpisce al cuore i principi democratici, è l’obbligo di inserire in Costituzione il ‘pareggio di bilancio’, ciò che impone una nuova ‘costituzione economica’ comportando la cancellazione della possibilità da parte delle istituzioni pubbliche di intervenire nella gestione dell’economia con provvedimenti anticiclici, che hanno caratterizzato i paesi capitalistici del Secondo dopoguerra dove si è accettato il ‘compromesso keynesiano’ con la gestione della domanda pubblica e la costruzione del Welfare State. Si afferma all’art. 3, comma 2, che le regole del pareggio di bilancio: «devono avere effetto nelle leggi nazionali delle Parti contraenti al massimo entro un anno dall’entrata in vigore del Trattato attraverso previsioni con forza vincolante e di carattere permanente, preferibilmente costituzionale». Con un Trattato di carattere internazionale si interviene per modificare le Costituzioni così da legittimare nella legge fondamentale, la prima nella gerarchia delle fonti, il liberismo con le sue politiche dell’offerta tese all’espansione del mercato e dell’impresa privata. Il Parlamento italiano ha già votato, in prima lettura, la modifica dell’articolo 81 per imporre una camicia di forza alle politiche di bilancio. Sarà la Corte di Giustizia dell’UE a verificare l’avvenuto inserimento e a comminare eventuali sanzioni (art. 8): la Costituzione è resa vassalla delle esigenze di bilancio dettate dai mercati finanziari.”

    In sintesi. Un mandato parlamentare come una decisione parlamentare in regime democratico è contestabile e revocabile attraverso diversi procedimenti, il principale dei quali è il referendum. Il caso della Grecia mostra che non esiste un meccanismo che permetta di rendere contestabile e revocabile le norme del patto di stabilità da parte dei cittadini europei, ossia dei singoli stati sovrani. In questo senso, vi è una limitazione “non legittima” delle sovranità popolari dei singoli stati.

  8. Ho dato una scorsa rapida agli économistes atterrés, ma non sono riuscito a trovare articoli specifici sulla questione dell’illegittimità. Inglese, ha per caso un riferimento più preciso?

    Per quanto riguarda l’articolo di Russo, vi si trova molta confusione di idee. Due punti in particolare risaltano agli occhi:

    1. Per definizione, i trattati internazionali pongono dei vincoli alle politiche dei firmatari. Se uno stato firma il trattato di non-proliferazione nucleare, rinuncia alla facoltà di sviluppare un proprio programma di armamenti nucleari. Voler successivamente caratterizzare il fatto di non poter avere la propria bomba atomica come un’ingerenza anti-democratica o illegittima risulta alquanto bizzarro.

    2. Se c’è una lezione che è emersa dalla crisi finanziaria, è che l’impresa privata è ben contenta quando lo stato interviene a salvare la baracca con i soldi dei contribuenti, manovra anticiclica per eccellenza. Il “Fiscal Compact” non nasce per i desideri dei mercati finanziari o per soddisfare gli imperativi liberisti. Tutt’altro. Il “Fiscal Compact” nasce per ridurre il rischio di trasferimento fiscale da un paese all’altro (leggi: per evitare che siano i contribuenti italiani a salvare la baracca greca, o in un futuro ipotetico, per evitare che siano i contribuenti tedeschi a salvare la baracca italiana).

    Il Fiscal Compact va combattuto e ripudiato perché economicamente insensato e perché mina quei valori di solidarietà che sono alla base degli ideali europei. Pensare di poterlo combattere perché è anti-democratico o sotteso all’ideologia liberista significa mancare il bersaglio, ed è destinato al fallimento.

    In sintesi. Un mandato parlamentare come una decisione parlamentare in regime democratico è contestabile e revocabile attraverso diversi procedimenti, il principale dei quali è il referendum. Il caso della Grecia mostra che non esiste un meccanismo che permetta di rendere contestabile e revocabile le norme del patto di stabilità da parte dei cittadini europei, ossia dei singoli stati sovrani. In questo senso, vi è una limitazione “non legittima” delle sovranità popolari dei singoli stati.

    Prendiamo l’esempio da un paese a noi confinante. In Svizzera vi sono tre livelli decisionali: comunale, cantonale (quello che noi potremmo chiamare regionale) e federale (quello che noi chiameremmo nazionale). In questo ordinamento, decisioni comunali possono ripudiate attravero referendum comnuali, decisioni cantonali con referendum cantonali, e decisioni federali con referendum federali. Se noi avessimo lo stesso ordinamento in Italia noi avremmo la possibilità di ripudiare una delibera del comune di Milano con un referendum cittadino, una regolamentazione della regione Lombardia con un referendum regionale, una legge della Repubblica con un referendum su tutto il territorio nazionale.

    Supponiamo ora che i leghisti in Lombardia non siano d’accordo con una legge varata dal Parlamento, e decidano di indire un referendum in Lombardia su questa legge. Quale valore potrebbe avere questo referendum? Può servire a sapere come la pensano i lombardi? Sì senza dubbio. Può servire a cancellare questa legge a livello nazionale? Ovviamente no. Può servire a stabilire che questa legge vale nel resto d’Italia ma non in Lombardia? Nemmeno.

    Ora, questa situazione rappresenta una limitazione illegittima alla volontà popolare?

    P.S. Ho realizzato che ondeggio abbastanza tra il tu ed il lei nei miei commenti su NI. Me ne scuso, qualora qualcuno se ne adombrasse.

  9. E’ un po’ off-topic, ma devo dire che ho trovato l’idea di Franco Russo, che il Fiscal Compact sia stato dettato dai mercati finanziari particolarmente comica.

    Per vedere quello che gli attori nel mercato finanziaro pensano del Fiscal Compact basta andare a vedere sul Financial Times: https://next.ft.com/content/372931b8-91cf-11e4-bfe8-00144feabdc0 (Attenzione al limite di visualizzazioni gratis)

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.