I passeggeri invisibili
di Jacopo La Forgia
I sogni esagerano sempre.
La notte prima ho sognato la capitale di uno stato molto povero, e la guerra civile. I combattenti arrivavano a mangiarsi a vicenda, per quanto si odiavano, o per altre motivazioni che non conosco. I palazzi erano ammantati da una polvere ocra e le donne si vendevano per un dollaro. Io ero intrappolato in un bus. Era invisibile, ma i guerriglieri lo vedevano lo stesso, e uccidevano tutti i passeggeri. Tranne me. Sfuggivo al massacro grazie all’aiuto di un uomo che mi veniva a prendere e mi sussurrava di seguirlo, per condurmi, attraverso uno sporchissimo mercato di carni, a un ampio ascensore dalle pareti blu. Lì ci sdraiavamo e andavamo giù.
Sogno spesso di fuggire da città che crollano. Quelle città sono sempre la città dove sono nato, immagino. Mentre fuggo sono calmo.
La notte prima dell’unica volta che sono stato scrutatore. La sezione con la finestra sul cortile della mia scuola elementare. La prima porta che incontri a destra dopo aver oltrepassato l’ingresso dell’edificio, se vai a votare nel seggio elettorale dove lavoro io, quartiere dormitorio di una città capitale di uno stato dalla forma arcuata, nella zona temperata del pianeta. Un paese con pini marittimi e palme, anche se ultimamente un batterio le ha decimate, e in giro non se ne incontrano quasi più.
È il ballottaggio tra i due candidati sindaco, una donna e un uomo. Sul conto di questi due signori candidati io so poco. Non mi sono informato né prima che mi contattassero per darmi l’incarico, né dopo avermi richiamato al mio dovere di cittadino. Così hanno detto: il suo dovere di cittadino.
È un po’ che non voto. Ho provato, ma non riesco mai a saperne abbastanza.
La signora candidato è giovane, ha i capelli lunghi.
Il signor candidato è vecchio e ha i capelli grigi.
I due candidati hanno padiglioni auricolari molto simili, per forma e ampiezza, simmetrici, le cui circonvoluzioni cartilaginose ben realizzano lo scopo delle teste: stare sopra al corpo e non cadere.
Ci sembra, a noi scrutatori, già ce lo suggerisce il nostro titolo, di vedere tutto. Vediamo i numeri sui documenti d’identità, numeri degli uomini, numero dopo numero, date di nascita espresse in numero, la data di morte dei deceduti, il numero della sezione, cabina numero, numero sui registri, numero del registro, l’iscrizione al grande registro è stata fatta numero, la processione dei numeri fino al conteggio, che li riassume tutti, li concentra, e poi ci sono le durate delle ore fatte numero, quanti siamo noi scrutatori e quanti voi elettori.
La visione, qui dentro, è visione di questa elencazione senza regola. La regola è nascosta.
Per noia e detenzione io le cabine le chiamo i loculi, i confessionali, le grotte, le navicelle: sono lo spazio dell’invisibilità. E anche invisibili sono gli interni delle scatole: la scheda viene ripiegata per il verso opposto alla sua direzione.
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Ho iniziato a lavorare domenica mattina alle sette, e ho finito alle due del mattino seguente. Ora che penso alla cosa che scriverò, e insieme alla mia giornata, sono seduto su una panchina nella piazzola al centro di una rotatoria di asfalto. A terra c’è la ghiaia e nell’aria quattro alti pini, a dividere me e la panchina dalla strada. Vedo un cassonetto con i materiali non riciclabili, pieno di buste bianche e verdi e blu, ammassate, e in fondo, laggiù – oltre i palazzi che s’interrompono – vedo luci della città.
Il mio quartiere è in alto: si vedrebbero lunghissime distensioni di cementi immoti, fino alle montagne, se le gialle suffumicazioni che vanno al cielo dalle periferie non nascondessero tutto.
Qui il vedere è di rado, minuscolo, ho certezza solo dello spazio che occupo e di questi pini. Adesso c’è anche una nebbia rada ma persistente: la volontà menomata di una pioggia che è sempre a venire, continuamente rimandata al futuro da previsioni azzardate.
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Lavoriamo seduti, la gente si avvicina. Ci dà la scheda elettorale e il documento. Il dialogo tra le due funzioni, noi che scrutiamo e loro che si nascondono nei loro neri loculi, confinandosi nelle X, è ridotto a brevi interazioni, scuotimenti di testa, automatismi. C’è chi diviene scheda nulla, chi scheda bianca.
Vengono dei signori piegati dalle ossa, e delle coppie con i bambini, che gli adulti si portano con sé. E così, ridendo, gli dicono dove, un giorno, diverranno anche loro X, come mamma e papà.
Lì dove insegnano, io non li posso vedere. Vorrei poterci entrare, nel loro spazio segreto. Invaderlo, toccare quelle loro creature, e toccare anche loro, le loro mani. Questi bambini urlano e quasi li aggrediscono, i genitori. Vorrebbero scrivere, scrivere almeno qualcosa.
Poi ci sono i ciechi.
I ciechi che svolgono una funzione completamente visuale? Chiederete voi.
Votano così: accompagnati da una mano cui si appoggiano, corpi di silenzio che sono lì per eseguire il loro unico gesto rimasto, l’unico gesto che gli viene privato.
Quando esco, la sera tardi, il mio quartiere è un abitacolo morto per guidatori smarriti. Le loro macchine sono ferme in seconda fila, sulla discesa, con la pioggia raggrumata nelle crepe dell’asfalto e i tergicristalli che sul vetro ancora si muovono, in attesa delle loro piccole battaglie, delle loro tempeste.
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Nel pomeriggio faceva caldo, e l’aria nella sezione era divenuta dura, inerte. Le finestre erano chiuse dal giorno prima e i nostri invisibili passeggeri avevano consumato tutta l’aria.
Arrivava il mio amico Marco, che qualche anno fa ha deciso di farsi prete. Accompagnava il nonno a votare, un cieco molto anziano, stanco e distratto.
Io e Marco ci siamo conosciuti al liceo, e siamo diventati molto amici. Quando avevamo circa diciott’anni ci siamo allontanati, per delle motivazioni così ridicole che nemmeno le ricordo.
L’ho rincontrato qualche anno dopo: un amico comune mi aveva detto che era entrato in seminario. Una scelta che io non potevo capire, ma che ovviamente accettavo lo stesso.
Avrei voluto dirgli qualcosa di significativo, quando ci siamo rivisti la prima volta dopo molti anni, in un bar di periferia. Non ci sono riuscito. Lui aveva il colletto bianco, slacciato, ed era tutto vestito di nero.
Quella volta mi ha raccontato di una scena cui aveva assistito durante il seminario. Un prete aveva chiuso a chiave lui e un gruppo di suoi compagni in una classe, dopo una lezione di teologia. Poi aveva cominciato a dare pugni alla porta, sempre più forte, e a chiedere di farlo uscire. Anzi urlava, strepitava che aprissero per farlo uscire. E intanto rideva, scalmanato, e tirava calci e pugni al legno della porta.
Tutto questo mi è tornato alla mente quando il nonno e Marco sono rimasti lì dentro con quelle X, a lungo, in silenzio, e noialtri ci siamo cominciati a preoccupare, e allora mi sono avvicinato alla cabina, a quello spazio scuro, stretto, angusto, decrepito, e ho cominciato a bussare, a chiamare il loro nome, ma stavolta piano, senza strepitare, che mi aprissero, che mi facessero uscire.
Molto bello il finale :) spero ti abbiano fatto uscire :(