Domenica pomeriggio sul ponte (un racconto)
di Giacomo Sartori
à Gilles Weinzaepflen
Un poeta con un corpo leggero e come sospeso nell’aria da poeta camminava su un ponte che scavalcava un fiume tranquillo ma anche greve di marrone determinazione, perché nelle settimane precedenti aveva invaso le rive, quasi scavallando nelle vie della cittadina. Con lui c’era una donna leggera e come sospesa nell’aria che scuoteva le anche a ogni passo, ma con una grazia trattenuta di cavalla ben educata, la quale era la sua compagna ormai da tanti anni. E anche un uomo straniero che calcava a ogni passo le scarpe da ginnastica sull’asfalto come per incollarle meglio che poteva, forse proprio perché essendo straniero aveva bisogno di sentirsi attaccato a qualcosa. Camminavano fianco a fianco, visto che il marciapiede era largo, e sembrava voler contribuire alla tranquillità di quella domenica pomeriggio così nervosamente contemporanea ma anche per certi versi ottocentesca. Si dirigevano verso la fermata del treno urbano che li avrebbe riportati nell’aria sporca del cuore della metropoli.
Mentre avanzavano un fruscio violento spostò l’aria accanto alla spalla dello straniero, non lontano anche – sull’altro lato – dalla spalla della donna leggera, facendo lievitare ancora di più il suo corpo sottile, che si staccò quasi da terra, come gli angeli in certi vecchi quadri. Si trattava di una bicicletta che sfrecciava ardita, e non contenta di averli sorpresi disegnò una virtuosa ansa attorno a una donna con una forma di medusa che incedeva davanti a loro, facendola caracollare dall’altra parte, simile a un lenzuolo gonfiato dal vento. Qualche metro dopo la ruota anteriore del rampichino fiero delle proprie prodezze perse però aderenza e scivolò leggera sul marciapiede, o forse meglio un po’ sollevata sopra di esso, disarcionando il conducente, il quale nella caduta si diresse molto lentamente ma con traiettoria determinata verso l’asfalto, come succede nel tempo rallentato degli incidenti, e molto lentamente ma anche con estrema violenza picchiò alla fine della sua corsa la spalla contro di esso. Non era però finita, perché adesso era la testa che si dirigeva lenta ma inarrestabile contro la pietra della base della spalletta del ponte: ormai lo schianto sembrava ineluttabile. Quella testa rallentò invece per qualche ragione la corsa, fermandosi qualche centimetro prima dell’impatto.
I tre camminatori non vecchi ma nemmeno giovani passarono a fianco dello spericolato corridore, e con sorpresa constatarono che non si trattava di un ragazzo, ma di un uomo con basette di uomo ben ancorato all’asfalto. S’era già rialzato, e tenendo gli occhi bassi osservava la ruota anteriore del rampichino, tutta a onde come un mare aperto arrabbiato. Fece qualche tentativo per fare avanzare la bicicletta, ma questa proprio non voleva saperne. Sembrava incredibile che quei moderni materiali che qualche istante prima erano regolarissimi e efficienti, nella cosiddetta realtà era stato un attimo, fossero adesso così malridotti, e la ruota non potesse più girare. Pareva l’unica prova che era davvero successo qualcosa di non banale, quasi un monito sulla fragilità dell’esistenza. Lo straniero alla ricerca di aderenze sul suolo guardò l’uomo, che sembrava anche lui straniero, seppure di territori più soleggiati e indomiti, per chiedergli se aveva male o aveva bisogno di aiuto, ma era evidente che lui era vergognoso di quanto era successo, e voleva solo scapparsene via per conto suo. E quindi continuarono il loro cammino verso la stazione, alla fine di quella domenica per molti versi ottocentesca passata tra ragazzi che erano ormai uomini fatti, ma chi più chi meno avevano difficoltà a aggrapparsi alle cose quotidiane, essendo tutti artisti con inquietudini e infantilismi per certi versi senili di artisti.
A quel punto il poeta rise, seppure in modo un po’ ineffabile, perché anche i poeti più ineffabili sfogano la tensione ridendo, seguito dalla sua compagna così simile a una delle matite longilinee che era abituata a tenere in mano, e dallo straniero avvezzo a stipare tutto quello che aveva capito del mondo in libri non grossi ma nemmeno sottili e leggeri come quelli del poeta tanto simile a un giunco. Allo straniero piaceva infilare quello che aveva capito anche nei discorsi, pur non essendo un abile conversatore, e quindi spiegò che non c’era da stupirsi che lo strano corridore fosse caduto, visto che lo avevano fissato con sguardi intensi e pieni di rimprovero. Il poeta stentava a capire, perché pur essendo un poeta ultracontemporaneo rotto a qualsiasi sperimentalismo era malato di razionalismo, e anche la sua compagna disegnatrice a dispetto dei suoi disegni bizzarri era prigioniera dello stesso scientismo. Lo straniero se lo aspettava, perché conosceva il paese dove viveva e al quale cercava di abbarbicarsi, e quindi mentre si allontanavano dal ponte e dalla sua acqua simile a caffelatte spiegò che non è poi così difficile per la forza del pensiero far cascare una bicicletta, soprattutto quando varie persone ben decise uniscono le forze.
Il poeta e la sua compagna così simili nella loro elegante fragilità androgina resistevano con esitazioni imbarazzate, ma poi capitolarono, e anzi erano felici di fare loro quella spiegazione con il fascino delle cose esotiche: adoravano giocare assieme con la fantasia. Ormai convinti, o fingendo di esserlo, chiesero al loro amico alcune precisazioni, e lui gliele diede. Allora potremmo rovesciare anche un camion delle spazzature?, domandò dopo qualche attimo di silenzio la donna filiforme, con la fronte solcata da una ruga verticale di bambina seria. Lo straniero in realtà già quasi anziano spiegò con un tono allegro ma anche condiscendente che certo loro tre non sarebbero riusciti a ribaltare un camion delle spazzature, ma forse se fossero stati più numerosi, o a loro si fosse unito qualcuno con facoltà molto potenti, ce l’avrebbero fatta, vallo a sapere.
(questo racconto è stato pubblicato sul mensile UCT (Uomo-Città-Territorio), numero 486, luglio 2016, Trento; l’immagine è una dea-madre, al Museo Archeologico di Cagliari)