Da Cuneo a Venezia. Perché sono le storie a scegliere i narratori, e non viceversa. Breve ritratto di Andrea Tarabbia.
di Michele Cocchi
Circa sei anni fa sedevo dietro a un lungo tavolo in compagnia di alcuni giovani scrittori italiani. Di fronte a noi, in platea, un pubblico numeroso. Allora non lo sapevo, ma in mezzo a quel pubblico sedevano alcune delle personalità del mondo editoriale italiano, venute ad ascoltare quelli che – in teoria – sarebbero dovuti diventare gli scrittori italiani del futuro. Si trattava dell’edizione del 2010 di Esor-dire, organizzata, tra gli altri, dalla scuola Holden di Torino. Una manifestazione dedicata ai giovani, e promettenti, scrittori esordienti. Con me, Elisa Ruotolo, Paolo Piccirillo, Irene Chias, Paolo Zanotti, Andrea Tarabbia. Per accedere alla tre giorni finale di Esor-dire era però necessario vincere prima una “sfida” a due con altri scrittori esordienti: la sfida consisteva nel leggere un racconto inedito che sarebbe stato votato dal pubblico presente in sala. Nel mio caso eravamo a Venezia, il pubblico era composto di nove persone, e io superai l’altro concorrente con lo schiacciante risultato di 5 a 4. Uno strano modo per decidere quali scrittori meritassero di arrivare a Cuneo.
Non ricordo niente di ciò che risposi all’intervistatore, quando fu il mio turno, ma ricordo invece molto bene l’intervento sul concetto di distopia di uno dei miei “compagni”. Allora non sapevo il suo nome, non ero riuscito, durante le presentazioni, ad associare i nomi ai volti. Ricordo che mi colpì il suo modo diretto e sicuro di rispondere. Un modo potente, non soltanto per il tono della voce, o per le qualità verbali, bensì per una speciale energia che, oggi, oserei dire aggressiva, nel senso buono del termine: l’aggressività che ci permette di difenderci e, quando serve, di far arrivare all’altro il nostro pensiero. Quello era Andrea Tarabbia. Pantaloni di stoffa, camicia ampia, barba e occhiali. Un bel sorriso franco. L’immagine che, negli anni a venire, avrei imparato ad avere di lui. La sera, durante la cena post-premiazione, avrei desiderato aggregarmi agli altri scrittori, ma rimasi intrappolato – dall’altra parte del tavolo – in una lunga discussione con il mio editore. Persi quell’occasione ma non mancai di avvicinarmi al gruppetto nel dopo cena, scambiare con loro alcune battute, fissare per la mattina successiva.
La mattina si presentò soltanto Andrea. Con le nostre compagne, oggi mogli, facemmo colazione insieme, poi guardammo, per alcuni minuti, uno spettacolo destinato a rimanere a lungo nel mio immaginario: gli editor di alcune case editrici dibattevano sui testi di giovani aspiranti scrittori. Ne dibattevano in loro presenza, ovviamente. Stesso lungo tavolo del giorno prima, protagonisti diversi, pubblico simile. Una sorta di talent show, ante-litteram, dove ogni editor difendeva strenuamente il lavoro o l’impegno del narratore affidatogli ma non mancava – non in tutti i casi, si intende – di attaccare, più o meno ferocemente, il lavoro o l’impegno di uno, o più, degli altri. Pensai che noi – quelli del giorno prima, quelli della sfida a colpi di racconti – eravamo stati decisamente più fortunati. Provai, empaticamente, un profondo malessere e fantasticai che uno di quegli aspiranti scrittori si alzasse dalla sedia, afferrasse con risentimento il proprio manoscritto e con voce potente dicesse, prima di andarsene: – Questa storia è mia! – Non riuscivo cioè a smettere di pensare a quanta fatica emotiva, e a quanto sforzo creativo, quei giovani avessero investito, e che sarebbe stato necessario avere maggior rispetto del loro lavoro, indipendentemente dalla qualità del testo.
A Cuneo ho stretto molte amicizie, alcune sono tutt’ora molto forti. Le più intense, tra queste, sono state quelle con Paolo (Zanotti) e Andrea. Nei mesi a seguire hanno presentato il mio libro, e io il loro. Sono stati ospiti a casa mia. Hanno partecipato al mio matrimonio. Erano l’esatto opposto: forte e deciso Andrea, mite e insicuro – almeno apparentemente – Paolo. L’amicizia con Paolo, purtroppo, è finita troppo presto. Mi ritengo, però, un privilegiato, per avere conosciuto, di lui, almeno quel suo sorriso leggero, la sua voce quasi sussurrata, la sua intelligenza acuta, la sua generosità e la sua delicatezza. La prima volta che lui e Andrea hanno trascorso una notte da me, ho trovato Paolo, la mattina successiva, sovrastato dai miei due gatti perché lui non aveva avuto il cuore – per non ferirli – di scacciarli via dal materasso gonfiabile sul quale dormiva. Sonnecchiava sul bordo del materasso, accecato dalla luce che entrava dal lucernario che lui aveva preferito – per non cambiare l’assetto della casa – non tentare di coprire. Paolo era fatto così.
Nessuno di quei giovani scrittori, seduti insieme a me, ha – per fortuna – smesso di scrivere e oggi, Andrea, ha l’opportunità di vincere il Campiello. Lui, forse più degli altri, in questi anni, ha reso un servigio importante alla narrativa italiana: ha formulato, attraverso i suoi libri, un pensiero coeso e compatto sulla violenza; la violenza declinata in alcune delle sue forme più orribili. Lo ha fatto soprattutto attraverso tre romanzi: La calligrafia come arte della guerra, Il demone a Beslan, Il giardino delle mosche. Andrea non dovrebbe vincere il Campiello unicamente per la sua abilità di scrittore, per il suo stile, per la sua lingua, per aver dato voce, nel Giardino – romanzo per il quale è candidato al premio – a Čikatilo; dovrebbe vincere il Campiello perché in Italia, oggi, è tra i narratori che sa dire la violenza e sa come dirla: nelle sue forme più estreme, più feroci, più complesse. Ma, e soprattutto, riesce a raccontarla senza pregiudizi. La contestualizza, per comprenderla meglio. La sonda, per conoscerla. La restituisce alla sfera delle azioni umane, senza demonizzarla, analizzandola come un geologo analizza un terreno, studiandone la costituzione e l’evoluzione. La violenza, attraverso la penna di Andrea, diventa un organismo vivo, con una sua storia, col suo esser-ci, coi suoi possibili sviluppi e questo, a mio avviso, è il suo merito maggiore.
Credo che ciò che ho percepito a Cuneo, quando per la prima volta l’ho sentito parlare, abbia a che fare con questo. Credo, cioè, che se nei suoi libri è riuscito a rappresentare l’universo della violenza così bene, è anche grazie a quell’energia, a quella forza, a quella potenza verbale che mi colpirono nel sentirlo rispondere alla domande dell’intervistatore.
Durante la presentazione del suo ultimo libro – Il giardino delle mosche – a Pistoia, affiancato da Roberto Gerace, mi ha colpito molto una sua risposta a una domanda che gli avevo rivolto sul rapporto fiction non-fiction: scegliere la non-fiction, dice Andrea, ti permette di ovviare al problema della trama, perché questa esiste già, sta scritta sui documenti, è sufficiente consultarli. Era, ovviamente, una battuta, ironica e provocatoria, perché se esistono già i fili di una tessitura, comunque la tessitura va organizzata, embricata, sarà forse un compito più semplice, ma comunque un compito arduo. Il problema, a mio avviso, non è tanto questo, ma il fatto che lo scrittore che sceglie la non-fiction, che si appassiona a una storia di cronaca, per esempio, o a un fatto storico, non sceglie una storia, ma dalla storia viene scelto. Questo direi, oggi, ad Andrea, per ribattere alla sua battuta: ti sei illuso di scegliere la storia di Čikatilo, ma è la storia di Čikatilo che ha scelto te. Non è il tuo interesse per la letteratura russa, il tuo interesse per la storia dell’Unione Sovietica, il tuo amore per Mosca che ti hanno portato a Čikatilo. È stato qualcos’altro. È il fatto che qualcosa di noi si presta bene a calamitare certe storie e non altre. È la nostra capacità di captare dei segnali e di sintonizzarci su questi. La capacità innata, oppure maturata con l’esperienza ma, comunque, nostra, che sposterà la nostra attenzione in una direzione anziché in un’altra, che lascerà sullo sfondo delle storie, per portarne in superficie altre. Quella capacità, in Andrea, ha a che fare col magnetismo di quel pomeriggio a Cuneo, con qualcosa che è della sua natura e forza mentale, con la sua sicurezza e potenza verbale. Čikatilo ha scelto Andrea perché ha sentito in Andrea la persona giusta per raccontare la sua storia, per molti di noi, altrimenti, assolutamente indicibile.
Dopo la presentazione, durante la cena, ho rivelato ad Andrea quanto ancora sia affezionato al suo primo libro La calligrafia come arte della guerra – il libro che ha portato Andrea a Esor-dire – e lui si è preso gioco di me, dicendo che era un libro, per certi versi, immaturo, oramai lontano. Io credo che invece, idealmente, il primo libro potrebbe chiudere, così come ha aperto, questa sorta di trilogia – come un anello immaginario -. Perché con la Calligrafia si torna alla fiction, alla narrazione di pura invenzione, alla pura creatività, si esprime qualcosa – più esplicitamente di quando presumiamo di aver scelto una storia d’altri – della nostra trama interna, della nostra personale natura. All’epoca, per la presentazione della Calligrafia, scrissi nei miei appunti: – Per la storia di Andrea, ambientata nel futuro e distopica, non è necessario pensare a uno dei molti mondi possibili. Potrebbe essere una storia nostra, dei nostri tempi. Il fatto è che Andrea è arrivato al nocciolo della questione, alla faccenda reale, ha scarnificato il concetto di guerra fino a toccarne l’osso e intorno a quest’osso ha costruito una storia, apparentemente lontana dalla realtà, ma utile a comprendere gli aspetti profondi dell’uomo -. Il lavoro che Andrea ha svolto nel Demone a Beslan, e ne Il giardino delle mosche, è il medesimo, sebbene declinato diversamente: si va al cuore del problema, alla struttura ossea della questione.
Non è importante che sia fiction, o non fiction, noi leggiamo il mondo attraverso una speciale lente, unica e irripetibile, che ci permette di vedere delle cose, e non altre. Qualcuno – come Andrea – le cose che vede le sa anche raccontare. La lente di Andrea ci ha permesso di riflettere su un tema, quello della violenza, oggi, forse più che in passato, centrale per la futura evoluzione dell’essere umano. Mi auguro che Andrea vinca questo premio, ma soprattutto mi auguro che Andrea continui a scrivere, a scorrere la sua lente sulle cose dell’uomo, a prestare la sua lingua a ciò che lui, e solo lui, potrà vedere. Mi auguro che ci ha portato a Cuneo nel 2010, continui a investire su quegli scrittori e su quelli che verranno, non perché gli scrittori siano animali da palcoscenico, ma perché ognuno di loro, se favoriamo l’incontro tra la loro speciale lente e la realtà del mondo, può raccontarci storie irripetibili.
Il punto nodale dell’intervento mi sembra il seguente:
«Nessuno di quei giovani scrittori, seduti insieme a me, ha – per fortuna – smesso di scrivere e oggi, Andrea, ha l’opportunità di vincere il Campiello. Lui, forse più degli altri, in questi anni, ha reso un servigio importante alla narrativa italiana: ha formulato, attraverso i suoi libri, un pensiero coeso e compatto sulla violenza; la violenza declinata in alcune delle sue forme più orribili. Lo ha fatto soprattutto attraverso tre romanzi: “La calligrafia come arte della guerra”, “Il demone a Beslan”, “Il giardino delle mosche”. Andrea non dovrebbe vincere il Campiello unicamente per la sua abilità di scrittore, per il suo stile, per la sua lingua, per aver dato voce, nel Giardino – romanzo per il quale è candidato al premio – a Čikatilo; dovrebbe vincere il Campiello perché in Italia, oggi, è tra i narratori che sa dire la violenza e sa come dirla: nelle sue forme più estreme, più feroci, più complesse. Ma, e soprattutto, riesce a raccontarla senza pregiudizi. La contestualizza, per comprenderla meglio. La sonda, per conoscerla. La restituisce alla sfera delle azioni umane, senza demonizzarla, analizzandola come un geologo analizza un terreno, studiandone la costituzione e l’evoluzione. La violenza, attraverso la penna di Andrea, diventa un organismo vivo, con una sua storia, col suo esser-ci, coi suoi possibili sviluppi e questo, a mio avviso, è il suo merito maggiore».
Cocchi ha una certa idea del mestiere di scrittore: chi lo fa scrive libri, e li pubblica. Chi non smette di farlo è un suo collega che ha lo stesso concetto del mestiere.
A me sembra un modo un po’ antico di intendere le cose, perché la forma libro non è spesso quella più congeniale per il pubblico dei lettori. Per chi scrive magari sì (la forma libro ha una lunga e solida tradizione presso gli intellettuali) ma per chi legge le misure sono anche diverse – soprattutto per chi legge oggi ai tempi del web e dell’alfabetizzazione di massa.
D’altra parte la situazione mi pare evidente: non si è mai letto e scritto tanto come oggi (i social network, i blog, gli sms ecc. sono lì a dimostrarlo) ma l’editoria libraria non è mai stata in difficoltà tanto come oggi (i dati di vendita dei libri e la contrazione dei fatturati delle aziende editoriali sono lì a dimostrarlo). Sarà pure un paradosso ma è la realtà, perlomeno quella che ci viene raccontata da più fonti.
Nell’intervento su Nazione Indiana, Cocchi fa riferimento anche a un altro episodio, questo avvenuto negli ultimi mesi:
«Durante la presentazione del suo [di Andrea Tarabbia] ultimo libro – Il giardino delle mosche – a Pistoia, affiancato da Roberto Gerace, mi ha colpito molto una sua risposta a una domanda che gli avevo rivolto sul rapporto fiction non-fiction: scegliere la non-fiction, dice Andrea, ti permette di ovviare al problema della trama, perché questa esiste già, sta scritta sui documenti, è sufficiente consultarli. Era, ovviamente, una battuta, ironica e provocatoria, perché se esistono già i fili di una tessitura, comunque la tessitura va organizzata, embricata, sarà forse un compito più semplice, ma comunque un compito arduo. Il problema, a mio avviso, non è tanto questo, ma il fatto che lo scrittore che sceglie la non-fiction, che si appassiona a una storia di cronaca, per esempio, o a un fatto storico, non sceglie una storia, ma dalla storia viene scelto».
Secondo Cocchi la risposta di Tarabbia è una battuta ironica per il motivo (se ho capito bene) che quando un romanziere racconta una storia di non-fiction rivela un processo della creatività quasi inquietante. Non è lui, autore, che ha scelto una determinata vicenda da raccontare, con cui è venuto in contatto tramite i mass media, bensì è il contrario: è la vicenda che ha scelto lui.
E anche questo mi pare un punto di vista… be’, antico. Siamo immersi in un flusso di informazioni, narrazioni, storie (di vario genere, non solo letterario o giornalistico: film, eventi musicali, eventi sportivi, giochi elettronici che si disputano in mondi alternativi) la cui varietà ed enormità è gigantesca. Secoli fa, forse, l’enormità e la varietà erano meno gigantesche; forse allora si poteva dire che una siepe scegliesse un poeta per farsi raccontare. Ma oggi?
Sempre se ho capito bene il punto indicato da Cocchi, naturalmente. Magari sto guardando il suo dito, mentre lui indicava una bella luna.
Guido Tedoldi
Caro Guido (è bello ritrovarti ogni tanto!), non capisco: antico vuol dire per forza superato?
E poi, se intendi scrivere e leggere nel loro senso più ampio, generico, allora tutti scriviamo e leggiamo. Ma qui, in questo articolo, si parla di uno scrittore che è tale in virtù dei libri che scrive (non necessariamente che pubblica, io non leggo riferimento a questo come specificità).
Dall’atto di scrivere (sms, blog, socia, ect) al quale mi sembra tu ti riferisca, non nasce quasi mai uno scrittore, al massimo uno scrivente.
In tutto questo, colgo l’occasione per rinnovare ad Andrea i miei complimenti. Ho apprezzato la Calligrafia e il Demone a Beslan, ma il Giardino delle Mosche è per me perfetto.