Paesaggio e convenzioni figurative nella poesia italiana contemporanea
[Questo saggio è incluso nel volume Nuovi realismi. Il caso italiano, uscito per Transeuropa quest’anno, a cura di Silvia Contarini, Maria Pia De Paulis, Ada Tosatti. Raccoglie dei contributi realizzati in occasione del convegno internazionale «I nuovi realismi nella cultura italiana all’alba del nuovo millennio» (Parigi, 2014).]
di Andrea Inglese
Premessa teorica
Se c’è una questione rilevante, in ambito di teoria letteraria, che riguardi il realismo, e non da oggi, essa è associata alla possibilità di una “critica dell’ideologia”.
Solo attraverso un riferimento forte alla “ideologia” ha senso interrogarsi su quanto si propone, nelle opere letterarie, di testimoniare in nome della “realtà”. In un tale contesto teorico, infatti, questa testimonianza è fin da subito sottoposta a vaglio critico: “tutti” pretendono di parlare in nome della realtà, esibendo le sue leggi e i suoi fatti, ma “non tutte” queste leggi sono abbastanza profonde e non tutti questi fatti sono decisivi. È innanzitutto opportuno chiedersi se l’immagine della realtà espressa dall’opera letteraria conforti l’immagine della realtà veicolata dall’ideologia dominante, ben radicata in ambiti discorsivi extraletterari. Quando questo non avviene, è importante capire come sia possibile questo scarto, ovvero come il discorso letterario contribuisca a mettere in crisi, parallelamente ad altre forme di discorso – quello filosofico o sociologico, ad esempio – l’immagine della realtà costruita secondo le coordinate dell’ideologia.
Col termine ideologia mi riferisco a due diverse tradizioni di pensiero: la prima si rifà alla definizione marxista del termine, la seconda a una definizione di tipo antropologico.[1] Entrambe le tradizioni hanno questo in comune: l’immagine che un sistema culturale si costruisce della realtà in un dato contesto storico-sociale può essere sottoposta a una critica radicale da parte delle componenti sociali di questo stesso sistema. Questa critica, inoltre, è considerata un elemento di oggettivo progresso nella ricerca collettiva e individuale della felicità. Nella visuale marxista, questa critica è determinata per lo più dal conflitto tra una classe sociale dominante e una classe sociale dominata. Nella visuale che ricorre a una definizione antropologica di ideologia, la critica radicale è concepita in termini di “autocritica”. Le contraddizioni e discrepanze che sempre costituiscono un certo sistema culturale, ossia un certo insieme di credenze e norme spingono cerchie sociali più o meno ampie a ridefinire questo insieme in modo più coerente e perspicuo, finendo col mettere in discussione le strutture di potere apparentemente più incontestabili. L’altro punto in comune tra queste due tradizioni di pensiero è la considerazione dell’arte e della letteratura, intese come pratiche in grado di sollecitare una critica radicale nei confronti del sistema culturale a cui appartengono.
Nessuna antipatia per una certa versione caricaturale del dibattito postmoderno può indurci a sottovalutare la portata della costruzione e della programmazione sociale di ciò che costituisce il nostro mondo e la nostra esperienza di esso, dalle istituzioni collettive agli affetti individuali. Tanto meno quella antipatia potrà nuovamente riportare in auge l’illusione che esista una ragione universale o una legge morale situata al di fuori della storia o insita nella natura umana a cui ci si potrebbe appellare per estrarre delle verità non contaminate dai nostri vocabolari e dalle nostre pratiche storico-sociali. Se la discussione intorno al realismo in letteratura è tenuta a battesimo anche solo in modo implicito e allusivo da una filosofia che pretenda discernere con agilità quanto appartiene alla natura e quanto alla cultura, riaffermando l’esistenza di guide trascendenti, che siano le infallibili leggi della storia o la forza della ragione, allora è bene dire subito che non è necessaria una simile filosofia per dare alla nostra discussione una valenza “critica”. Non abbiamo, insomma, necessità di appellarci a un tribunale sovrastorico, che ci permetta di definire a quale tipo di realtà le opere letterarie dovrebbero più o meno conformarsi, neppure però dobbiamo limitarci a estrapolare da discorsi extraletterari, come il discorso storico o sociologico, una lista di argomenti che le opere letterarie dovrebbero diligentemente fare propri. Possiamo invece considerare come un romanzo, un libro di poesia, un dramma teatrale contribuiscono a realizzare una critica dell’ideologia, denigrando o modificando stereotipi narrativi, formule liriche, scritture di scena, o ancora, come dice Jacques Rancière, rimodellando in modo inedito i rapporti tra visibile e dicibile.[2] La testimonianza migliore che un’opera letteraria può esprimere in favore della realtà sta nella dimostrazione del carattere eufemistico, riduttivo, mistificatorio di una parte importante del vocabolario e delle forme che ha ereditato dalla propria tradizione.
Ho parlato di “dibattito” postmoderno e non di “pensiero” postmoderno, perché sarebbe del tutto fuorviante pretendere di riferirsi a qualcosa di abbastanza omogeneo e monolitico che andrebbe sotto il nome di “filosofia” post-moderna. La pecca forse maggiore della discussione che si è svolta di recente in difesa di un “nuovo realismo” in filosofia sta proprio nell’avere preso come bersaglio polemico il “pensiero debole” e il suo principale sostenitore, Gianni Vattimo, considerando l’uno e l’altro come espressioni esemplari del dibattito postmoderno. Oggi appare chiaro, invece, che quel dibattito si è svolto su di un piano internazionale e ha avuto un carattere ben più vasto e articolato. È difficile dire poi, in poche parole, su cosa portasse precisamente la discussione, dal momento che, attraverso di essa, le più diverse questioni sono state messe sul tappeto. Di certo, quella stagione ha fornito qualche indicazione teorica utile ancora oggi per inquadrare la questione letteraria del realismo. Il riconoscimento, ad esempio, che una predominante dimensione sociale e storica nella costruzione della realtà non implichi per forza l’abbandono o lo scacco di progetti di critica e di emancipazione radicali, può essere considerato un portato delle discussioni di quella stagione culturale.[3] Di conseguenza, non solo possiamo continuare a parlare, entro tali coordinate teoriche, di critica dell’ideologia, ma possiamo affidare al discorso letterario un ruolo importante sia in termini di disarticolazione che di inedita articolazione delle immagini di realtà.
Paesaggio ed estraneità del mondo
La scelta di una lettura di Marco Giovenale e Alessandro Broggi nasce sia da un giudizio di valore relativo ai loro testi – credo insomma che siano dei poeti importanti della mia generazione – sia da un carattere di esemplarità che certi loro assunti teorici e certi loro procedimenti formali mostrano in modo evidente. Assumerò uno specifico punto di vista tematico – ruolo e caratteri del paesaggio – per interrogarmi sul rapporto tra poesia e realtà o, per meglio dire, sul lavoro critico che questi autori svolgono nei confronti delle convenzioni figurative del loro genere. Non sono certo i soli autori all’interno del panorama poetico contemporaneo a contestare l’ordinario patto con il lettore, invitandolo a un distanziamento dalle rappresentazioni e della narrazioni socialmente condivise. Il numero di poeti che lavorano in questa direzione a partire dalla fine degli anni Novanta e l’inizio del nuovo secolo è nutrito, ma non è mio interesse, in questo contesto, tracciare un canone anche approssimativo delle poesie “della realtà”. È mia intenzione, semmai, trattare due esempi che una lettura sbrigativa inserirebbe in tutt’altre categorie, enfatizzando gli aspetti autoreferenziali del testo e la sua chiusura e opacità nei confronti del mondo storico e sociale.
Ho scelto il tema specifico del paesaggio, ma non lo considero, per quanto riguarda la tradizione della lirica moderna, un semplice tema tra gli altri. Esso funge da vero e proprio tema costitutivo, strutturale allo sviluppo e alle peculiarità del genere. In anni recenti, vi è stata una rinnovata considerazione del paesaggio dal punto di vista teorico e critico. Ne costituisce un esempio un corposo studio apparso in Francia nel 2005, e intitolato Paysage et poésie. Du romantisme à nos jours. L’autore, il critico e poeta Michel Collot, sostiene che intorno agli anni Ottanta è emerso, in ambito francese, un nuovo lirismo che, ritornando a focalizzarsi sul paesaggio, è riuscito a superare le secche del formalismo poetico e delle teorie strutturaliste e post-strutturaliste che lo nutrivano. Secondo Collot, la centralità del paesaggio come tema privilegiato «échappe aussi bien à une poésie descriptive qui se bornerait à en recenser les composants objectives, qu’à une effusion lyrique qui projetterait sur lui une coloration purement subjective».[4]
Non condivido l’impostazione del discorso proposta da Collot né le conclusioni che trae dal suo studio certamente importante e documentato. Può risultare utile, però, prendere avvio dalla visuale che propone proprio per il suo carattere eccessivamente schematico. Il ritorno del paesaggio nelle scritture poetiche contemporanee, almeno in Francia, segnerebbe la fuoriuscita da una forzosa contrapposizione: da un lato, una tendenza oggettivista, che azzera la componente soggettiva dell’esperienza del mondo, e, dall’altro, una tendenza solipsistica, che dissolverebbe il mondo in vissuti privati. L’esperienza del paesaggio, se giustamente intesa, permetterebbe un equanime sviluppo delle componenti oggettive e referenziali della parola poetica, senza sacrificare le sue componenti soggettive ed emotive.
Se andiamo alle origini del rapporto che il poeta moderno stabilisce con il paesaggio è inevitabile un riferimento a Leopardi. Con lui, infatti, il rapporto al paesaggio acquista una radicalità tale, da mettere in crisi ogni ipotesi di un equilibrio in qualche modo felice tra soggetto e oggetto. Leggiamo un passo dello Zibaldone:
«Niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto, né l’altezza e nobiltà dell’uomo, che il potere l’uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza. Quando egli considerando la pluralità de’ mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo ch’è minima parte d’uno degli infiniti sistemi che compongono il mondo, e in questa considerazione stupisce della sua piccolezza, e profondamente sentendola e intensamente riguardandola, si confonde quasi con il nulla, e perde quasi se stesso nel pensiero dell’immensità delle cose, e si trova come smarrito nella vastità incomprensibile dell’esistenza.»[5]
L’esperienza del paesaggio, per come s’impone da Leopardi sino a Montale, a Ponge o a Zanzotto, ha una funzione in qualche modo istitutiva dell’espressione poetica, ne costituisce una sorta di precondizione d’ordine sia conoscitivo che estetico. D’altra parte, ciò non accade solamente nell’ambito della lirica moderna. Una certa esperienza “radicale” del paesaggio la ritroviamo sotto vari nomi e in contesti discorsivi differenti anche in pensatori come Freud (“i sentimenti oceanici”), Wittgenstein (“il mistico”), Heidegger (“l’angoscia”) o Sartre (“la nausea”). In modo estremamente generale, possiamo considerarla come la cognizione e il sentimento della radicale “estraneità” del mondo a tutte le significazioni umane. Gli oggetti sono visti dall’esterno della rete di significati legati all’uso sociale e il mondo è visto come abisso insondabile, nel tempo e nello spazio, rispetto a qualsiasi progettualità e comprensione umana, individuale o collettiva. Abbiamo qui, per il poeta come per il filosofo, l’esigenza di valorizzare e di dare forma a qualcosa che si trova tra la realtà e il suo contrario: il nulla di Leopardi, il silenzio di Wittgenstein. Sono i limiti del mondo, del linguaggio, della realtà stessa a essere percepiti in esperienze simili. Di queste esperienze la parola poetica come quella filosofica, ognuna all’interno della propria tradizione e specificità, devono rendere conto, per paradossale che ciò possa risultare. Il confronto con l’estraneità del mondo costituisce per entrambe un’importante occasione di accrescimento spirituale e di progresso conoscitivo nei confronti di ciò che chiamiamo realtà.
Tutto ciò ha ovviamente a che fare con il realismo, inteso però, come ci ricorda Walter Siti in Il realismo è l’impossibile, non come «la storia di un rispecchiamento piatto e subalterno, ma di uno svelamento impossibile»[6]. In questo suo breve saggio, Siti insiste su questo punto: «Il realismo, per come la vedo io, è l’antiabitudine: è il leggero strappo, il particolare inaspettato, che apre uno squarcio nella nostra stereotipia mentale – mette in dubbio quel che Nabokov […] chiama il “rozzo compromesso dei sensi” e sembra ci lasci intravedere la cosa stessa, la realtà infinita, informe e imprevedibile.”[7]
Corrado Costa e la soglia del postmoderno
Vi è un momento, nel corso della seconda metà del Novecento, in cui non pare più possibile capitalizzare in alcun modo neppure delle esperienze-limite come quelle relative all’estraneità radicale del mondo. Non si tratta, ovviamente, di un’impossibilità d’ordine estetico o percettivo, ma dell’irrilevanza, da un punto di vista della critica dei significati sociali, di tali esperienze. Esse non sembrano più concedere quel privilegio etico e conoscitivo, certo pagato a caro prezzo dai filosofi e dai poeti, che permetteva loro di porsi in una posizione di esteriorità e distanziamento critico nei confronti dell’ideologia. Autori come Fredric Jameson hanno considerato tali fenomeni come aspetti di una svolta epocale connessa all’evoluzione del sistema culturale promosso e governato dal tardo capitalismo. Nel suo celebre saggio del 1984, Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo, Jameson tratteggia una fenomenologia generale dei mutamenti di paradigma che sono intervenuti all’interno della letteratura, delle arti visive e dell’architettura. Di quell’analisi tempestiva e lucida a noi interessa soprattutto dare per buone le coordinate generali, da verificare nell’ambito specifico della produzione poetica italiana. Ci sembra, allora, che se qualcosa come una “decostruzione dell’espressione” sia davvero intervenuta all’interno della poesia italiana del secondo Novecento nel momento in cui divenivano irrilevanti certe esperienze fondamentali del paesaggio, essa possa venire individuata in un autore come Corrado Costa.
Costa, compagno di strada dei neoavanguardisti, pubblicava nel 1972 Le nostre posizioni. Del libro, faceva parte questo testo:[8]
Film e fotografie al paesaggio
sono segnate goccia a goccia
una per una minime esaltazioni
microfurori e alterazioni
la copia è assolutamente fedele
la fila delle deviazioni è quasi
in fila
goccia a goccia
le gocce sono solo leggermente sfasate
e il fiume non si è mosso
La novità di Costa rispetto agli stessi autori neoavanguardisti come Sanguineti o Pagliarani sta in una duplice operazione. Prima di tutto, qualsiasi ipotesi di un’esperienza vissuta, seppur inautentica o comico-picaresca, che preceda la pratica della scrittura è negata. Non si dà dialettica o tensione tra esperienza e scrittura, per il semplice fatto che la configurazione dell’esperienza da parte dei media tecnologici di massa, fotografia e cinema, precede e modifica qualsiasi possibile accesso diretto al paesaggio. Questo aspetto viene da Costa assunto come precondizione stessa dello scrivere poesia. Il diaframma tecnologico si è definitivamente interposto tra l’esperienza individuale e il paesaggio. Ogni concezione espressiva o mimetica (descrittiva) della poesia è quindi bandita. La poesia è semmai lo spazio in cui si depositano, e si congelano, i resti linguistici del discorso ordinario, non-poetico, che pretende di dire la realtà condivisa. La poesia, insomma, va a lavorare sulle membra morte ed esauste della lingua, sugli stereotipi e le nervature ideologiche del discorso per poter fornire, in un tempo altro, successivo, imprevedibili e nuovi significati. L’operazione del poeta non è allora quella d’insufflare il pneuma del significato dentro materiali inerti, ma di cogliere le potenzialità di senso custodite in tali materiali.
Questi assunti generali hanno specifiche conseguenze per quanto riguarda il modo che Costa ha di trattare il paesaggio. Il testo di Costa potrebbe essere letto come una breve parabola sull’impossibilità di rappresentare un fiume, anche usando i più sofisticati mezzi di riproduzione tecnologica della realtà (fotografia e cinema). Nello stesso tempo, l’autore ci propone una sorta di modello epistemologico, che potrebbe essere applicato a ogni forma di realtà globale come il paesaggio. Lo sfondo che assume il ruolo di paesaggio è il fiume, e il testo ci propone di costruirlo analiticamente attraverso un ideale computo delle singole gocce e dei loro micro-comportamenti. In questa costruzione, però, ci troviamo confrontati immediatamente a uno sdoppiamento tra cosa e immagine della cosa che i sofisticati strumenti di calcolo e visione finiscono per produrre. Ma dal momento in cui vi è questo sdoppiamento-duplicazione, anche s’insinua tra l’immagine e la cosa una lieve ma decisiva “sfasatura”. Inoltre, pare impossibile far comunicare la realtà dinamica e plurale delle singole gocce, e la realtà globale e coesa del fiume, che è ovviamente una realtà concettuale, ossia uno schema di comportamento umano generale indifferente all’articolazione fenomenica che costituisce il fiume.
Sarebbe quindi riduttivo ricondurre Costa al testualismo di marca francese, ad esempio, ossia all’ideologia della chiusura del testo, e della ribadita impossibilità per la poesia di rappresentare alcunché. Costa sollecita, invece, una riflessione critica sul nostro rapporto innanzitutto alla letteratura e alla poesia moderne, per allargare questa indagine, formulata per parabole e paradossi, al nostro più generale rapporto alle immagini e al linguaggio.
Loghi & ologrammi della contemporaneità
Nel testo Film e fotografie al paesaggio abbiamo constatato un paradosso che ritroveremo anche in autori come Giovenale e Broggi, eredi consapevoli della soglia storica rappresentata dal postmoderno e lettori entrambi appassionati di Costa. Abbiamo, infatti, una totale mancanza di esteriorità tra il soggetto che enuncia e il suo enunciato. In altri termini, nulla è consistente e reale al di fuori dello spazio testuale, in quanto ogni rimando a qualcosa di esteriore al testo, esperienza soggettiva o mondo oggettuale, è neutralizzato o negato. Un rigoroso seguace dello strutturalismo dirà che così è sempre per i testi letterari. In realtà, la grande lirica novecentesca proprio nel confronto tra soggetto e paesaggio allude costantemente a un mondo silenzioso e oggettuale che sfugge e si ritrae nei confronti di ogni tentativo di significazione o, addirittura, di elementare nominazione. Questo movimento, però, per disorientato, arduo o impossibile che sia, implica come sue premesse non discutibili la realtà del soggetto e del mondo ai margini del testo poetico. Con Costa, queste realtà non fungono più da presupposti, come abbiamo detto, ma emergono semmai come miti inerenti al testo. Nel momento, però, in cui ha prodotto questi miti, il testo anche li sottopone a indagine, ad esplorazione critica.
Veniamo ora a Marco Giovenale, di cui prenderò in considerazione un testo[9] contenuto in un libro di prose del 2010, Quasi tutti.
l’agile cartotecnico
X3 Tartaruga Piramide X1 Spirito Mietitore a: La maggioranza dei mostri, anzi proprio tutti possiedono effetti per scoperta a: 2 Fertilizzante Miracoloso 1 Mostro Resuscitato a: 2 Elemental Hero Prisma 1 Stratos Eroe Elementale a: 2 Batteria Portatile 3 Giudizio del Tuono 1 Forza riflessa a:
[3] Polimerizzazione
[3] Cancello della Fusione
[1] Fusione Futura
[3] Fuochi del Giorno del Giudizio
[3] Cannone a Onde Soniche
[2] Prigione Dimensionale
[3] Teletrasportatore
[3] Conversatore di Danno
[1] Giudizio Solenne
Una prima reazione che un testo simile può provocare nel lettore è il rifiuto e la conclusione lapidaria che “non si tratta di poesia”; un lettore più raffinato, si limiterà a dire che tutto questo è già stato fatto: a) dai futuristi, b) dai dadaisti, c) da Nanni Balestrini, d) negli anni Settanta. Di certo questo testo, che compare in ambienti dove normalmente si ascoltano e si leggono “poesie”, ossia testi riconducibili più o meno facilmente al genere “lirica moderna”, solleva degli immediati problemi di categorizzazione. In altri termini, esso pone al lettore il problema di “come” leggerlo, di “come” servirsene, di come inserirlo nel suo orizzonte d’aspettative di un prodotto poetico. Se problema c’è, e quindi turbamento, esso riguarda innanzitutto il piano epistemologico, le categorie conoscitive. Dove situare un simile oggetto testuale? Che significato dare a questa serie incoerente di enunciati? Il fatto che tale serie di enunciati appaiono in un libro di poesia sollecita il lettore a leggerli, e a “ri”leggerli. In altri termini, Giovenale non presuppone che in un libro di poesia sia necessario mettere dei testi che abbiano certe caratteristiche intrinseche, come la letterarietà, o la liricità, ma è convinto che un libro di poesia solleciti, nel lettore, una determinata disposizione, ossia la disponibilità a fare un’esperienza estetica di quell’oggetto testuale che gli è stato offerto.
Io leggo questo, e altri testi del medesimo libro, come un paesaggio. Non a caso, Giovenale ha spesso parlato a proposito di questa sua tipologia di testi di procedimenti installativi. Ciò significa privilegiare una dimensione percettiva più che semantica. La pagina diventa luogo di esposizione e disposizione di materiali linguistici bruti, almeno a un primo livello di lettura. L’organizzazione non lineare – asintattica e non diegetica – degli elementi linguistici ne impedisce una lettura che li trapassi verso possibili significazioni. Essi resistono nella loro disarticolazione e nella loro opacità, ma nello stesso tempo sono costantemente investiti dallo sguardo del lettore, che tende spontaneamente ad articolarli e colmarli di senso. Siamo, dunque, di fronte a un paesaggio simbolico (costituito di segni grafici, linguistici, matematici) che manifesta una radicale “alterità” rispetto ai paesaggi simbolici con cui siamo familiari. A una lettura ravvicinata, esso appare costituito da due diversi elenchi di nomi o frasi nominali. Il primo elenco, grazie all’organizzazione grafica del giustificato, favorisce una successione che però è tradita dall’incoerenza della numerazione che precede le frasi. (In realtà i numeri ci parlano di una progressione inceppata, di una sorta di continua falsa partenza). Il secondo elenco, che presenta lo stesso tipo di incoerenza numerica, privilegia l’incolonnamento verticale, e dunque l’isolamento di ogni componente nominale. La diversa organizzazione grafica suggerisce un qualche rapporto gerarchico tra i due elenchi, che però appare subito vanificato: frasi del primo elenco avrebbero potuto essere inserite nel secondo e viceversa. L’uso generalizzato delle maiuscole tende a trasformare le frasi nominali in nomi propri, o in titoli, che evocano blandamente contesti narrativi possibili. La forma di narrazione che aleggia virtualmente tra alcuni dei termini dei due elenchi è connessa al campo semantico della fantascienza, e di quella più obsoleta e naif. Abbiamo infatti “Cancello della Fusione”, “Cannone ad Onde Soniche”, “Teletrasportatore”, “Mostro Resuscitato”. Altri termini rinviano all’universo semantico dei videogiochi: “Elemental Hero Prisma” o “Stratos Eroe Elementale”. Ma anche qui si avverte una sorta di sfasatura rispetto alla nomenclatura vigente. Altri, poi, rinviano a campi semantici senza nesso specifico con i primi due: “Giudizio Solenne”, “Polimerizzazione”, “Forza Riflessa”, “Spirito Mietitore”. Altri ancora, come “Fertilizzante Miracoloso” e “Batteria Portatile”, rinviano più esplicitamente al modo delle merci e della pubblicità. Neppure l’unica frase quasi compiuta del testo permette una maggiore articolazione («La maggioranza dei mostri, anzi proprio tutti» ecc.). Conferma semmai i rimandi a un universo irreale stereotipato.
Nomi propri o titoli: la generalizzazione delle maiuscole contribuisce a dissolvere la funzionalità e materialità dell’oggetto in una sorta di nomenclatura potenzialmente infinita e indifferenziata. E qui trovo un primo elemento d’interesse nella specifica forma-paesaggio realizzata da Giovenale: l’oggetto in qualche modo sparisce, si dissolve, e non ne rimane che una sorta di involucro simbolico vuoto, un logo, una marca, un fantasma di nome proprio che deve parodiare l’unicità del referente. Sia l’uso sia le proprietà materiali degli oggetti non contano più, ma di essi rimane una sorta di alone semantico nel nome-logo. Ma il nome-logo, nello stesso tempo, sembra diffondersi e marcare tutto l’esistente: ogni zona del linguaggio e della realtà extra-linguistica. Il paesaggio che qui emerge è allora quello della nomenclatura infinita della merce (merce come oggetto o come immagine, poco importa), e la realtà materiale sembra fluidificarsi e trascolorare dietro lo scandirsi dei nomi-logo, che sono poi involucri ad allusività povera, mille volte riutilizzata. Nei paesaggi virtuali, prodotti dalla sovrapposizione di tutti i maxi e microschermi che pulsano nella metropoli postmoderna, il sistema linguistico (con le sue articolazioni sintattiche e le sue stratificazioni semantiche) e il sistema degli oggetti (con le sue proprietà materiali e funzionali) si dissolvono dietro la potenza della nomenclatura, che tutto assorbe nella sua debole e meccanica allusività.
Rendere percepibile questa esperienza di dissolvimento del linguaggio e degli oggetti, è uno degli obiettivi della scrittura di Giovenale. Da questo punto di vista, il suo lavoro ha a che fare con quello che Jameson ha definito il “sublime postmoderno” e che riguarda le possibilità di avvicinare la nostra esperienza sensibile alla totalità non più degli infiniti sistemi di cui è composta la natura, come in Leopardi, ma all’“intero sistema mondiale dell’attuale capitalismo multinazionale”. Abbiamo visto come la percezione della totalità, nella lirica moderna, sia un’esperienza legata alla configurazione del paesaggio. La totalità, di cui ora si parla, è un’indissolubile sistema naturale-artificiale, un ibrido di pratiche soggettive dentro grovigli di oggetti. Di questa totalità storicamente determinata, l’immensa rete elettronica di comunicazione planetaria costituisce l’aspetto più evidente per la coscienza del singolo, ma anche quello più caotico e superficiale. L’immagine del network e del flusso di comunicazioni che esso permette è l’analogo dell’ordine simbolico della metropoli postmoderna. Scrive a proposito David Harvey: «Le qualità labirintiche degli spazi della città, il loro ordinamento gerarchico e i loro significati spesso nascosti formano un mondo simbolico imponente e imponderabile».[10] Da questo punto di vista, l’enorme libertà costruttiva e organizzativa di uno smartphone o di un computer personale fornisce l’illusione di sciogliere l’opacità e l’inerzia del labirinto simbolico degli spazi urbani in pacifiche sequenze sonore-iconiche-testuali che costituiscono dei simulacri di mondo, controllabili e plasmabili secondo il proprio narcisistico piacere. Di queste euforiche sequenze, i testi di Giovenale paiono presentarci i sedimenti, le scorie ormai oggettivate e inerti, disorganizzate sintatticamente, risibili nelle significazioni effimere e contrastanti che evocano.
In Alessandro Broggi, il tema del paesaggio è evidenziato esplicitamente. In Avventure minime del 2014, libro che raccoglie la maggior parte della sua produzione, si trova una sezione intitolata Nuovo paesaggio italiano. Essa include una serie di prose brevissime, articolate in due o tre paragrafi, che hanno tutte per titolo Nuova situazione. L’organizzazione paratestuale offre una visione ovviamente ironica di quella “coazione al nuovo”, che è un’altra delle caratteristiche dell’attuale società capitalistica. Una coazione al nuovo “prodotto” o al nuovo “bisogno”, nel ritornare dell’identico rapporto sociale di produzione, di sfruttamento, di subordinazione culturale e ideologica. Ma non sono questi rapporti reali l’oggetto esplicito della scrittura di Broggi, che si concentra invece sulle “nuove situazioni”, ossia sulle forme di narrazione impoverite ed elementari, attraverso le quali i diversi soggetti d’enunciazione presenti nel suo testo evocano l’unica realtà ancora consistente per loro, quella della sfera più personale e privata.
Nuova situazione
I.
Stavo prendendo il sole con la mia ragazza in Thailandia quando improvvisamente ho sentito un rombo incredibile. Era come se mi trovassi accanto un aereo in decollo. Ho guardato in su e ho visto un’onda alta sette metri, sembrava una scena dei Dieci comandamenti.
II.
Abbiamo cominciato a correre ma l’onda ci ha raggiunto e ci ha sommerso. Siamo riusciti a riemergere e ad aggrapparci a un palo, finché l’onda si è ritirata. Abbiamo visto almeno venticinque corpi galleggiare tutt’intorno. L’anno prossimo me ne andrò in Versilia.[11]
A differenza di altre prose della stessa serie, qui non vi sono ellissi temporali tra i paragrafi. L’intervallo inserito tra il primo e il secondo ha il solo scopo di ritardare lo scioglimento della vicenda, accrescendone l’enfasi e la gravità. La situazione non potrebbe essere più drammatica: si evoca l’esperienza di due turisti italiani sopravvissuti al maremoto che si scatenò nell’Oceano Indiano nel 2004 e che provocò la morte di centinaia di migliaia di persone in una vastissima area geografica. L’evento catastrofico, del tutto eccezionale dal punto di vista storico, è ricondotto dal soggetto a cui queste frasi sono attribuite a una sequenza spettacolare di un kolossal cinematografico degli anni Cinquanta. Di nuovo, la finzione cinematografica precede la realtà e fornisce le coordinate estetico-conoscitive per comprenderla. Questa prima forma di banalizzazione di un’esperienza personale di per sé fuori dal comune è rafforzata dalla chiusa, ossia dalla frase dell’ultimo paragrafo, che funziona un po’ come morale filosofica dell’avvenimento. Dopo il traumatico conteggio dei morti che lo circondano, il testimone sopravvissuto torna repentinamente a considerare il suo piccolo mondo, e si ripromette per il futuro vacanze sicure e confortevoli in uno dei luoghi turistici più frequentati d’Italia. Nemmeno il maremoto ha potuto costituire un autentico trauma conoscitivo: l’orrore della catastrofe naturale è stato solo una parentesi spiacevole nella ricerca perpetua del confort e del già noto.
Broggi non è tanto interessato a fustigare l’inautenticità, di cui il suo “nuovo paesaggio italiano” costituisce per certi versi un catalogo. Tende semmai a esasperare il divario tra i tratti oggettivi della situazione e l’immagine che i soggetti coinvolti se ne fanno. Egli lavora con grande meticolosità per ricostruire una lingua anodina, grigia, stereotipata, attraverso cui qualsiasi evento può essere “ridotto” in termini narrativi ed espressivi. La falsa coscienza è tradotta qui da un repertorio di frasi fatte, che costituiscono nel loro complesso un’enciclopedia dell’individualismo nella sua fase estrema. In quest’ottica, il paesaggio in quanto tale non esiste, perché implicherebbe un’articolazione spaziale che è negata dalle rappresentazioni frammentate e locali, che i singoli individui si fanno del mondo, poiché ogni momento isola i “fatti loro” da quelli degli altri. Il paesaggio non è che un’atomizzazione di situazioni tra loro incomunicabili.
In un’altra sezione dal titolo Servizio di realtà, Broggi presenta un testo che è una dettagliata descrizione di un paesaggio. Il titolo, Allegro, rientra in quella strategia dell’anodino, che abbiamo già evocato. Leggiamolo:
Allegro
Le speranze che si generano quando arriva la primavera organizzeranno il flusso delle immagini attraverso linee delicate, formando un compendio di sottili osservazioni sull’emozione umana. Sarà un incanto di suoni, colori, immagini. Una festa per il cuore e per la mente.
L’aurora infiammerà l’orizzonte, colorerà le nubi più basse di un rosa aranciato, penetrerà lentamente nel paesaggio e si rifletterà sulle città distanti. Le nuvole chiuderanno la visuale verso i piani più lontani e delimiteranno nettamente il campo.
Nell’angolo quieto del giardino la luce investirà corpi segnati da ombre mutevoli, provocando continue ascensioni e spegnimenti avvalorati da una superba distribuzione vegetale.
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Alberi dai fusti sinuosi e dalle fronde verdastre palpiteranno contro un cielo venato di nuvolaglie. Una loggia ad arcate in pietra serena sarà animata da una folla illuminata in pieno dal sole, immersa nella luminosità mattutina di un meraviglioso brano di campagna. Un’atmosfera di limpida familiarità, aperta sul celeste pallido del cielo, popolato da uccelli volteggianti che si riposeranno sulle cornici delle finestre. La luce suggerirà i volumi e le qualità delle superfici, ogni oggetto vivrà e rilucerà in uno scrigno prezioso di intangibile bellezza, rinnovando perennemente l’immersione in un mondo di visione cristallina e bruciante realtà visiva.[12]
Abbiamo il ritorno del paesaggio, neppure più filmato e fotografato come in Costa, ma nella forma di un vero e proprio film pubblicitario. Al documento impossibile si è sostituita la celebrazione regressiva. Siamo di fronte a un sofisticato ologramma, che dispiega con cura e lentezza una natura pulita, luminosa, rassicurante, da cui ogni riferimento urbano è stato espunto. Si citano delle città, ma esse sono “distanti”. Gli unici elementi architettonici che appaiono sono le “cornici delle finestre” e “una loggia ad arcate in pietra serena”. Entrambi sembrano alludere ad un eterno e modulabile “stile Rinascimento”. Le figure umane sono anonime, tendenzialmente passive e appena distinguibili nei rilievi “forti” del paesaggio. Si parla in sole due occasioni di “corpi segnati da ombre mutevoli” e di “una folla illuminata in pieno sole”. I soggetti dei verbi d’azione sono: “l’aurora”, “le nuvole”, “la luce”, “alberi”, tutte realtà apparentemente inattuali nella società post-industriale e informatizzata. L’esito dell’operazione, se è palesemente improntato alla derealizzazione del paesaggio attraverso una sua riproduzione eufemistica, non si limita a collezionare una serie d’immagini kitsch. La banale e rassicurante cartolina finisce per lasciare emergere un versante sofisticato, artificiale, predeterminato e per certi aspetti totalitario di tale paesaggio. Innanzitutto i verbi tutti volti al futuro piuttosto che esprimere un’intenzione libera sembrano manifestare una predestinazione, un dovere. Risulta poi perturbante l’abile tessitura di vocabolario banale e immagini stereotipate, da un lato, e di locuzioni anomale e inaspettate, dall’altro. In formule quali: «le speranze (…) organizzeranno il flusso delle immagini», «la superba distribuzione vegetale», «un meraviglioso brano di campagna», «l’immersione in un mondo di visione cristallina e di bruciante realtà visiva», è come se la lama gelida dell’astrazione fosse calata in un discorso spontaneo e naif volto a celebrare l’incanto di un paesaggio naturale.
La tematica del paesaggio, come abbiamo visto, permette d’interrogare in modo fecondo i possibili rapporti tra testo poetico e realtà. Proprio indagando i mutamenti che riguardano le diverse e inedite forme di figurazione del paesaggio, risulta chiaro come un versante della poesia contemporanea in Italia privilegi una riflessione sulle convenzioni di genere e sulle strutture linguistiche che stanno alla base di ogni figurazione poetica. Più in generale, è l’idea stessa di un accesso alla realtà da parte di un soggetto consapevole e in grado di valorizzare in modo espressivo i propri affetti ad apparire problematica. Questo atteggiamento impedisce di considerare la poesia come una forma di re-incantamento del mondo e mostra un’acuta consapevolezza dei condizionamenti linguistici e ideologici che di quel mondo determinano l’immagine, anche se all’interno di ambiti ristretti come quello della scrittura letteraria. Alcune componenti fondamentali del paesaggio sono diventate i segni e le rappresentazioni che ogni individuo è sollecitato a produrre in prima persona, ridisegnando il mondo a sua immagine e somiglianza attraverso i media digitali di ampia diffusione. Se con Leopardi la lirica moderna inaugurava un’esplorazione estetico-conoscitiva a partire dallo scandalo dell’alterità assoluta del mondo, il XXI secolo confronta le scritture poetiche con lo scandalo dell’irrealtà crescente dei paesaggi storico-sociali, e con la perdita di ogni residua alterità del mondo rispetto alla potente macchina di mercificazione della società capitalistica. La poesia, allora, può essere sì un prezioso strumento di rilevazione della realtà, ma in “negativo”, mostrando l’inadeguatezza dei nostri discorsi e delle nostre narrazioni e tenendo vivi la nostalgia e il desiderio di reale.
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Note
[1] Cito almeno due autori che includerei dentro questa tradizione: Cornelius Castoriadis e Mark S. Cladis. Il primo, attraversando e fuoriuscendo dalla tradizione marxista, approda al concetto di auto-istituzione della società (L’institution imaginaire de la société, 1975). Il secondo ha formulato in modo convincente, in un articolo apparso anche in Italia, una posizione che da premesse wittgensteiniane approda a una «critica sociale mortale» (Critica sociale mortale, «Fenomenologia e società», XXII, 3, 1999, pp. 65-85).
[2] Leggiamo quanto scrive Rancière in Le spectateur émancipé: “Il y a ensuite […] les stratégies des artistes qui se proposent de changer les repères de ce qui est visible et énonçable, de faire voir autrement ce qui était trop aisément vu, de mettre en rapport ce qui ne l’était pas, dans le but de produire des ruptures dans les tissus sensibles des perceptions et dans la dynamique des affects. C’est le travail de la fiction. La fiction n’est pas la création d’un monde imaginaire opposé au monde réel. Elle est le travail qui opère des dissensus, qui change les modes de présentation du sensible et les formes d’énonciations en changeant les cadres, les échelles ou les rythmes, en construisant des rapports nouveaux entre l’apparence et la réalité, entre le singulier et le commun, le visible et la signification. Ce travail change les coordonnées du représentable”; Jacques Rancière, Le spectateur émancipé, Paris, La Fabrique, 2008, p. 72.
[3] Da una posizione marxista, Ferruccio Rossi-Landi, in un suo fondamentale saggio intitolato Ideologia, mostrava come sia possibile, pur all’interno di una onnipresente programmazione sociale, un percorso sia individuale che collettivo di presa di distanza dalle condotte pratiche e dagli schemi linguistico-concettuali del proprio sistema culturale: «Dalla nascita fino all’età scolare, al di là dello stesso rapporto con la madre e poi con il padre, ci troviamo in un ambiente prodotto e modificato dall’uomo. Straordinario è il modo in cui l’ambiente, pur essendo sempre umano, si differenzia nello spazio e nel tempo. Siamo subito circondati e irretiti da sistemi segnici non-verbali, da sistemi di oggetti naturali prescelti e di oggetti prodotti, dai comportamenti abituali della comunità cui siamo venuti ad appartenere. Tutto o quasi tutto ci viene presentato come naturale; e sarà molto più tardi, con notevole sforzo di relativizzazione liberatoria, che cominceremo a operare un riconducimento dello pseudo-naturale al socialmente determinato (e molte volte non ci riusciremo)»; Ferruccio Rossi-Landi, Ideologia (1978 e 1980), Roma, Meltemi, 2005, p. 325. Tra le varie pratiche sociali che contribuiscono allo “sforzo di relativizzazione liberatoria” di cui parla Rossi-Landi vi sono appunto anche l’arte e la letteratura. È interessante notare di passaggio che il compito di sciogliere l’intreccio tra natura e cultura risulti, anche in una prospettiva marxista, estremamente difficile e a volte impossibile.
[4] Michel Collot, Paysage et poésie. Du romantisme à nos jours, Paris, Corti, 2005, p. 163.
[5] Giacomo Leopardi, Zibaldone, edizione integrale diretta da Lucio Felici, Roma, Newton & Compton, 1997, p. 3171.
[6] Walter Siti, Il realismo è l’impossibile, Roma, Nottetempo, 2013, pp. 13-14.
[7] Ivi, p. 8.
[8] Corrado Costa, The Complete Films. Poesia Prosa Performance, a cura di Eugenio Gazzola, Firenze, Le Lettere, 2007, p. 71.
[9] Marco Giovenale, Quasi tutti, Roma, Polìmata, 2010, p. 98.
[10] David Harvey, L’esperienza urbana. Metropoli e trasformazioni sociali, Milano, il Saggiatore, 1998, p. 288.
[11] Alessandro Broggi, Avventure minime, Massa, Transeuropa, 2014, pp. 47-48.
[12] Ivi, pp. 51-52.
[…] 2016), atti del convegno omonimo includenti un intervento di andrea inglese (ripreso poi anche su nazione indiana) che, accanto a testi di altri autori, analizza alcune prose di avventure minime attraverso il […]
Il saggio è molto bello e soprattutto molto lucido. Per quanto riguarda il testo di Giovenale credo che sia da segnalare il fatto che tutti i sintagmi in maiuscolo sono nomi di carte di Yu-Gi-Oh. La cosa non pregiudica l’analisi, ma magari rende il testo più intellegibile.
Il saggio, come sempre quando Inglese scrive, è acuto e pieno di spunti. Non posso che condividere l’idea del testo come paesaggio, visto che io stesso l’avevo buttata lì in un post del 2010. Tuttavia, di fronte ai testi di Giovenale e Broggi, continuo a sentire una sorta di perplessità, di cui provo a spiegarmi il motivo in questo modo.
Sembra che questi testi testimonino l’impossibilità, in un mondo tardo-capitalistico, in cui la stessa parola è divenuta merce, di dire qualcosa che non sia l’impossibilità stessa di un rapporto sentimentale con il paesaggio. Quello che sarebbe rimasto possibile in questo contesto non sarebbe dunque il rapporto con il paesaggio, bensì quello con il film pubblicitario sul paesaggio. Di conseguenza, quello che la poesia può fare non sarebbe che “essere un prezioso strumento di rilevazione della realtà, ma in “negativo”, mostrando l’inadeguatezza dei nostri discorsi e delle nostre narrazioni e tenendo vivi la nostalgia e il desiderio di reale”. Insomma, l’unica possibilità sincera della poesia starebbe nel negativo, nel tener viva la nostalgia del reale. Il che mi ricorda molto le parole di Adorno a chiusura del saggio di Adorno su Schoenberg nella “Filosofia della musica moderna”, e in generale il lamento di Adorno per l’impossibilità, oggi, di un’arte innocente, ovvero inconsapevole della corruzione (capitalistica) dell’immagine stessa del mondo (e del paesaggio).
Il mio disagio, di fronte ai testi di Giovenale e Broggi qui citati, è dovuto probabilmente alla sensazione che essi mi mettano di fronte all’ineluttabilità e generalità di questa sola possibile negatività dell’approccio poetico, come se l’approccio diretto al paesaggio fosse davvero ormai reso impossibile dal dominio del film pubblicitario (e di tutto ciò che esso sta a simboleggiare). Come se l’emozione e il sentimento di fronte al paesaggio fossero ormai possibili solo come “nostalgia”, perché l’emozione autentica è negata, comunque, dalla mediazione ideologica dell’apparato mediatico e delle sue capillari conseguenze.
Ora, io non credo che sia così. Né ho mai ben tollerato la heideggeriana nozione di “autenticità”, fatta propria e utilizzata da Adorno. Ci sta, nella mia intolleranza, la consapevolezza del fatto che, per parlare di autenticità perduta, è necessario avere un’idea dell’autenticità posseduta; ovvero ipotizzare un’età dell’oro in cui l’arte poteva essere innocente, mentre ora non lo è più. L’idea che l’accesso diretto al paesaggio che si poteva avere ieri, oggi è reso impossibile dal fatto che esso è inevitabilmente negato dal film pubblicitario, mi fa credere che ieri esso non fosse negato, e che un’arte innocente fosse davvero possibile. E’ l’idea di una possibilità perduta (ma esistita) che giustifica la legittimità di un’arte come nostalgia del reale, in cui non sia possibile esprimere l’emozione del rapporto con il paesaggio se non nei termini della sua negazione.
A questa logica io mi sottraggo, non certo per difendere la mistificazione capitalistica, che c’è; ma perché essa non è che la forma moderna di una serie di mistificazioni che hanno sempre condizionato il rapporto con il paesaggio, plasmandolo epoca per epoca. Ritenere che la mistificazione specifica della nostra epoca sia l’unica o la più grande è a sua volta una mistificazione, perché ci induce a ritenerci alfieri di una verità altrimenti perduta.
La mia opinione è che la poesia non può ridursi alla nostalgia e al negativo che la può generare, perché una visione in qualche modo positiva del rapporto col paesaggio resta possibile oggi come in ogni tempo – purché consapevole della propria dimensione relativa e condizionata. Purché non ingenua insomma. L’arte di qualità non è mai stata innocente, e ha sempre posseduto una componente negativa, in grado di “tener viva la nostalgia e il desiderio di reale”; ma non si è nemmeno ridotta a soltanto questo.