Didascalie: Patrizia Posillipo\Francesco Alessio
di
Carla Benedetti
La vita che c’è dentro a una fotografia
Da piccola guardavo con la lente d’ingrandimento le immagini di paesi lontani che trovavo tra le cartoline o nei libri di geografia. Cercavo i particolari non visibili a occhio nudo, ma che pure dovevano essere rimasti impressi nella pellicola. Scrutavo negli angoli delle strade, tra gli alberi o dentro una finestra, per cogliere qualcosa di più di quel mondo ignoto, quasi per entrarvi dentro. Ovviamente, ingrandendo, ottenevo solo la sgranatura della fotografia, non la vita che credevo ci fosse dentro. Ma io insistevo. E se non vedevo niente, sognavo di vederlo, fantasticavo.
L’idea che la fotografia abbia una vita rappresa dentro di sé, che aspetta di essere tirata fuori e fatta rivivere sotto i nostri occhi, la ritrovo ora guardando queste fotografie di Patrizia Posillipo elaborate dallo scultore Francesco Alessio. La prima impressione che ne ho avuto è stata fortissima. Ho subito immaginato che lo scultore avesse fatto su quelle foto qualcosa di simile a ciò che io cercavo di fare da piccola con la lente d’ingrandimento: ne ha fatto venire fuori qualcosa che stava imprigionato là dentro, lo ha reso visibile a occhio nudo, e non solo all’occhio ma anche al tatto, e all’occhio tattile che c’è in ognuno.
Le barche di sasso
Guardo per prima quella intitolata Carghi. E’ una costa marina in controluce. So che è stata scattata in Islanda. Al centro tre faraglioni neri si stagliano da una striscia nera sottile, perfettamente orizzontale, in mezzo a altre due strisce di costa di maggiore altezza, anch’esse orizzontali. Tutto qui dentro ha un andamento orizzontale, anche i solchi neri che rigano lo specchio d’acqua antistante. Tutto, tranne quelle tre sagome bizzarre che si stagliano invece verso l’alto. Così, per quella loro verticalità contrastante, mi paiono di colpo incominciare a muoversi, lentissime, in quieta processione. Sono tre figure che avanzano calme, da sinistra verso destra: la prima in posizione avanzata e fallica, la seconda più tranquilla e bonaria nella sua massa panciuta, la terza, quella che chiude il corteo, premurosamente inclinata in avanti.
E poi, sopra tutto questo, ecco stagliarsi altre sagome dai profili bizzarri, altre ombre, ma chiare invece che scure, come se fossero il positivo delle figure nere che stanno dietro. E soprattutto più pesanti, corporee, intagliate nel marmo. Come barche di sasso.
Anch’esse paiono muoversi lentamente, raddoppiando la processione. Solcano trasversalmente la fotografia, ne superano i bordi, fanno ponte con un fuori. Dove staranno andando questi fantasmi di pietra? Forse sono gli spettri di tutte le imbarcazioni che hanno solcato o che solcheranno quel tratto di mare nel tempo, nel passato e nel futuro, le cui tracce sono rimaste imprigionate nella foto? E che ora si rendono visibili, prendono letteralmente corpo, acquistano una consistenza materica, tridimensionale.
La fotografia non è solo immagine.
Quando vidi per la prima volta il famoso dagherrotipo che ritrae Balzac in camicia, con il collo nudo e la mano appoggiata sopra il petto, non potei fare a meno di pensare al tempo che c’era voluto affinché il corpo dello scrittore, immobilizzato per diversi minuti, lasciasse tracce di sé su di una lastra di rame ricoperta d’argento. Balzac era convinto che il dagherrotipo trattenesse qualcosa del corpo fotografato, e che questo perdesse nel processo uno dei suoi “spettri”, cioè una parte della sua essenza costitutiva. Noi oggi non lo crediamo più. I pixel hanno sostituito l’immaginazione alchemica. Eppure quella credenza, ormai superata, è più vicina al vero di quanto si pensi. La fotografia non è solo immagine. E’ anche corpo, è anche materia incanalata nella luce, pulviscolo d’atomi precipitati su di una superficie sensibile.
E’ questo che ho pensato guardando questi oggetti, chiamati fotosculture.
Mondi dischiusi
Ma è appropriato chiamarli così? Certamente lo è, visto che qui fotografia e scultura si incontrano, e a un’immagine piana, bidimensionale, si sovrappongono dei corpi dotati di tre dimensioni. Ma nello stesso tempo fotoscultura è anche un termine generico, che nei due secoli passati è stato usato per indicare tecniche disparate, e operazioni artistiche tanto diverse da questa e anche tanto diverse tra di loro. Dalle statue in argilla realizzate a Parigi da François Willème a partire dal 1859, e ottenute per mezzo di un pantografo che ricalcava in successione profili dello stesso soggetto, che erano stati prima ripresi contemporaneamente da diverse angolazioni, ai bassorilievi in plastilina degli inizi del Novecento realizzati e fotografati da Domenico Mastroianni. Oggi si chiamano fotosculture tutti gli oggetti tridimensionali ottenuti inserendo fotografie in supporti disparati. Perciò c’è bisogno di un nome nuovo per suggerire la particolarità di questi interventi scultorei su foto. Ne azzardo uno: fotografie dischiuse, oppure – perché no? – sculture di spettri.
Ciò che le contraddistingue è che la fotografia qui è presente nella sua figuratività originaria, senza alterazioni né ritagli, distesa sul suo fondo piano. Ad essa lo scultore aggiunge una sorta di commento materico dell’immagine: un complemento di creazione, che sprigiona un ulteriore senso possibile, implicito oppure nascosto nella fotografia.
Il dentro è fuori
Guardo ora il paesaggio con cascata intitolato Ponti. Anche questa foto è stata scattata in Islanda. L’acqua si è scavata un solco tra due lembi di terra arida e rocciosa. Nessun ponte lo attraversa. I ponti – se ve ne sono – li ha aggiunti lo scultore. E sono sezioni di mattoni da edilizia in parte smaltate di azzurro, dello stesso colore del cielo. Nella loro forma fantasiosa vagamente ricordano le arcate sovrapposte di antichi acquedotti. Ponti irrealistici, che del resto non collegano i due orli di terra della cascata. A cosa fanno ponte allora? Forse agli elementi: all’acqua, al cielo, alla terra (del resto rappresa nella stessa materia aggiunta, nei mattoni da edilizia di terracotta) che vengono legati senza tuttavia congiungersi nel mondo rappresentato .
Molte cose qui si intersecano senza congiungersi. Così anche la scultura e la fotografia. Se qui esse si avvicinano è per dar luogo a un incontro sospeso, che produce qualcosa di più della loro semplice ibridazione. Invece di fondersi restano due attività autonome, individuali, mentre tendono entrambe verso qualcosa che le trascende.
O forse i ponti collegano il micromondo fotografato con tutto ciò che gli sta fuori. Anche qui infatti, come nelle altre fotografie dischiuse, Carghi, Strade, Tumuli, Porta, Solco e Vascelli, la struttura aggiunta oltrepassa lo spazio della fotografia, esce dal suo bordo, dando un senso di continuazione e di infinito.
In Tumuli si vedono sul fondo delle semplici tombe comuni di cemento chiaro, cilindriche, prive di scritte. So che la foto è stata scattata nel cimitero ebraico di Fez, in Marocco (lo stesso che si vede anche in Porta, ma là se ne vede la parte monumentale, con le tombe importanti recanti scritte in ebraico). Sopra è stata aggiunta una griglia di ferro che chiude le tombe in un fuori, oppure in un dentro. In un certo senso li contiene, li mantiene al loro posto, ma senza impedire loro di ricadere fatalmente di qua, anche nel nostro mondo, con frammenti di pietra che sembrano staccati da quei tumuli, e rimasti impigliati tra le maglie della grata. Sono ossa che sporgono fuori da un armadio a rete metallica, come nella chiesa di San Bernardino delle Ossa a Milano?
Se al posto della fotografia avessimo un dipinto, in quanto entrambi raffigurazioni bidimensionali, potremmo allora paragonare queste fotosculture a ciò che già avveniva nell’arte antica o in quella arcaica. La plasticità della materia che si mescola al disegno, l’oggetto ‘reale’ che si aggiunge alla rappresentazione piana del dipinto, sono procedimenti che appartengono all’arte, soprattutto a quella religiosa, fin dalle sue origini. Al Sacro monte del Varallo ad esempio, nelle diverse cappelle-stazioni che raffigurano scene della passione di Cristo, scultura e pittura si integrano con effetti sorprendenti. Davanti vediamo statue a grandezza naturale, dietro di esse, a proseguire la scena e a farle da fondale, c’è un affresco. E a volte capita che un cavallo dipinto sporga fuori dal muro con la testa, non più dipinta ma in rilievo, modellata in terracotta. O che una statua esca camminando da una porta dipinta con tutto il volume plastico della sua figura, in scala uno a uno. Oppure si pensi agli ornamenti in vero oro o in vero argento che si possono vedere incollati sopra molti dipinti antichi, a decorare volti di Madonne, di Cristi o di Santi.
L’ibridazione di tridimensionale e bidimensionale è qualcosa che appartiene all’arte fin dalle sue origini, e che forse la pittura postrinascimentale, nella sua via maestra, e purista, ha scartato, quasi si trattasse di un procedimento impuro. I dadaisti la ripresero in chiave trasgressiva, quando incollavano sopra i loro quadri pezzi di oggetti trovati. Nelle fotografie dischiuse di Posillipo e Alessio il procedimento ritorna ma in tutt’altra forma, innanzitutto al posto della pittura c’è la fotografia. Inoltre l’invenzione è in chiave poetica, non ironico-trasgressiva. Infine, a differenza di quel che avviene in certe installazioni, come la Caduta di Berlino, un diorama con macerie ‘reali’ collocate proprio di fronte all’immagine, le aggiunte materiche qui non sono realistiche, non mirano all’illusionismo realistico della rappresentazione, ma alla costruzione di un senso maggiore che trascende l’immagine fotografica e l’idea stessa di rappresentazione.
(testo pubblicato nel catalogo della mostra aArte29 Project room)
The real things
di
Francesco Forlani
Oggi più che mai l’immagine sembra aver perduto la propria innocenza. In piena epoca, la nostra, di réalité augmentée, con la fine dell’asservimento della “figura rappresentata” alla realtà – per la fotografia ancor più che per la pittura- sembra essere svanita, sfocata anche la purezza che attraverso il dispositivo\artificio del verosimile veniva custodita. Tale affrancamento dalla sua subalternità ha comportato la fine dell’innocenza in nome di una spietata “nuova realtà” senza complessità, sbavature, senza più umanità, senza tempo. Il passaggio dall’analogico al digitale ha sicuramente giocato un ruolo fondamentale in questo strappo e se i nostri immaginari oggi sono condizionati anche in altri campi, da quello letterario a quello politico-sociale, e soprattutto nel linguaggio, dall’eterno presente, sarebbe da idioti non collegarlo a questo mutamento della percezione.
In altri termini è come se si fosse rovesciato il mito della caverna del buon Platone; a credere ai fantasmi non fossero più, soltanto, i prigionieri incatenati alle ombre proiettate sulla parete ma proprio le cose, d’improvviso dotate di coscienza, che proiettavano se stesse attraverso la luce del gran fuoco alle loro spalle.
Cosa succede, invece, quando la realtà decide di irrompere nel paesaggio? Quando rivendica la propria materica autenticità rispetto alla semplice e guasta percezione che viene imposta dalla nostra epoca digitale? Succede esattamente quanto Patrizia Posillipo e Francesco Alessio hanno realizzato con il proprio laboratorio “Mondi dischiusi”.
Laboratorio e non semplice azione perché il progetto è stato a lungo maneggiato, articolato, rifondato, montato, smontato all’inverosimile e soprattutto in un’azione quella della scultura sostanzialmente in differita, in alcuni casi, rispetto a quella della fotografia. I paesaggi di Patrizia Posillipo definiti da una scansione temporale, cronologica oltre che geografica, componevano già un flusso vitale posto in essere prima della sovrapposizione degli interventi scultorei di Francesco Alessio. Altre opere venivano ricomposte in tempo reale ma nell’uno come nell’altro caso parlare di sovrapposizione sarebbe limitato oltre che ingiusto. In realtà le forme “concrete” di Francesco Alessio agiscono sui paesaggi di Patrizia Posillipo solo perché agiti dalle forme immateriali che ne determinano l’orizzonte di significato.
Felice allora il titolo “Mondi dischiusi” che ben rappresenta questa esperienza epifanica dell’arte, tanto dalla parte della creazione che da quella della semplice fruizione, ovvero di un’arte in grado di recuperare la propria innocenza sostanzialmente attraverso nature, materie, cose, per statuto uniche e allo stesso tempo soggette alla trasformazione del tempo; esperienza della realtà che nuovamente si offre in tutta la sua caducità .
Infos: la mostra “Mondi dischiusi” è stata inaugurata il 28 ottobre alla galleria aA29 Project Room, Via Leonetti 29, Caserta. La mostra, a cura di Carla Benedetti, Federica de Stasio, Luigi Fusco resterà aperta fino al 25 novembre.
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Vedo arte e vita. Mi sembra entrare in una foreste, toccare alla finestra dell’infanzia. Legno e tempo. Mare e tempo. L’arte non è matière reale. Oggi il reale è usato.
Grazie per l’articolo. Mettere sotto la luce la vivacità dell’arte a Napoli.