mater (# 9)

di Giacomo Sartori

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Come potevano

come potevano

l’incongruenza del pensiero

la presunzione

la foia di primeggiare

la petulanza

(in sintesi lo snobismo)

dare un cocktail

così umano

e così toccante

come potevi

farti tanto amare?

(tu ch’amare

sapevi male)

 

 

A spezzare l’idillio

 

a spezzare l’idillio

tsunami arcano

(pedissequa gelosia

guardando indietro)

giunse la voce adulta

una prima amichetta

poi un’altra

quasi mogliettina

e non parliamo

dei rivoluzionari

i grezzi operai

il prete spretato

il grecista comunista

coacervo trasandato

(scarpe sformate

e capelli unti)

m’hai ripudiato

come si congeda

un domestico

ch’ha rubato

 

pure l’amico tanto caro

lo squisito omosessuale

(il mio padrino):

radiato dai radar

del mio esistere

(niente più cartoline

di minareti iraniani

o cupole ottomane)

 

 

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Basta

 

basta

basta basta

urlavi sempre più forte

sempre più indignata

era un ordine cattivo

(dismessa l’arma

della logica urbana)

non ne potevi proprio più

pretendevi di morire

 

grazie

grazie di tutto

hai mormorato

finalmente sollevata

finalmente certa

che t’avremmo uccisa

 

forse quel grazie

era anche per me

mi dicevo

anche se certo

prima veniva

chi t’aveva accudita

con premure

e protocolli

quasi professionali

 

 

In ogni caso

 

in ogni caso

c’è il divorzio

declamavi

ebbra di rabbia

calcando ogni singolo passo

verso il municipio

(il mio matrimonio

certo tardivetto)

ora per fortuna

c’è il divorzio

urlavi nel vento

crudo di febbraio

come sollevata

d’un grande peso

 

 

Salivamo sotto i fulmini

 

salivamo sotto i fulmini

e gli scrosci freddi

sguazzando in rivoli bui

i vestiti incollati alla pelle

sconsiderati e gai

(solo con lui

l’amico molesto

questi miracoli)

la città sotto di noi

miniatura al cesello

sempre più ridotta

le colline abbacinate

per pochi attimi

poi inghiottite

dalla notte che ruttava

e ruggiva

 

arrivati a casa

eri roca d’angoscia

(le quattro di mattina

senza chiudere occhio)

scaldasti del latte

manco fossimo bimbi

senza chiedere ragioni

(alcol o droga?)

sollevata

comprensiva

forse felice

 

l’unico esempio

di dispiegata

dedizione materna

nella mia memoria

 

 

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Il diciotto maggio

 

il diciotto maggio

non mi chiamavi

come scordavi

le mie ragioni

e tante cose

(per te comunque

era il diciassette

o forse il venti)

sapevo però che c’eri

e anzi mi divertiva

che ti reiterassi

 

oggi non si tratta

d’ordine mentale

o di memoria

sei più lontana

 

cerco nell’aria

umida d’erba nuova

(le stagioni ch’amavi

perseverano proterve

anche senza di te)

la tua presenza lieve

e dispotica

 

 

Quando sarò morta

 

quando sarò morta

non litigate

4 COMMENTS

  1. Buondì, @Giacomo Sartori, da saggista contro le violenze di genere qual sono, cerco ristoro nella poesia. Mi sono imbattuta stamattina nella sua raccolta mater #9 e ho gradito a tal punto, da essermi immedesimata nel rapporto con la mia, di mater. Leggerò anche i #precedenti. Grazie!

  2. grazie Stefania;
    immagino bene che la tua attività richieda delle “fughe”, e sono onorato che anche queste mie cose possano “funzionare”!
    (in realtà nella lettura cerchiamo tutti ristoro e riconforto, al di là delle asettiche teorie sulla letteratura, per queste nostre vite scalcagnate, quella nostra irriducibile storia individuale che è forse una ricchezza ma anche fonte di angosce e sofferenze)

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