I Cimbri dell’Altipiano di Asiago

di Roberto Antolini

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Zimbarn

Si calcola che fossero circa 20.000 le ‘anime’ che parlavano cimbro alle soglie dell’età moderna, nel Cinque- Seicento, distribuite intorno ad Asiago, in una zona pre-alpina che si allargava su territori delle attuali province di Trento, Vicenza e Verona. Un’area limitata ad ovest dalla bassa Val d’Adige, a nord dalla Valsugana, ad est dal territorio pedemontano delle cittadine vicentine di Bassano, Schio, Thiene e Valdagno, per sconfinare a sud nella Lessinia veronese. Il cuore di questa area cimbra era la piccola ‘Reggenza’ dei 7 comuni, sull’altipiano di Asiago (confinante con quello di Lavarone, appena oltre il passo di Vezzena).  Questa ‘Spettabile reggenza dei Sette Comuni’Hòoge Vüüronge dar Siban Komàüne in cimbro – godeva di condizioni di quasi completo autogoverno, pur all’interno della compagine della Repubblica di Venezia dal 1405, quando in funzione difensiva contro vicini più aggressivi era intervenuto uno ‘spontaneo atto di dedizione’, pattuito in cambio del riconoscimento dei propri antichi statuti di autonomia. Nel XVIII secolo i primi osservatori attenti del territorio prealpino hanno notato la ‘stranezza’ di queste popolazioni: l’erudito ed antiquario veronese Scipione Maffei, nella sua opera “Verona illustrata” del 1732, ha scritto «trasferitici noi però in que’ monti, e fatta in più luoghi diligente perquisizione, abbiam trovato Tedesco veramente essere il linguaggio, ma con questo di mirabile, che in gran parte è quel de’ Sassoni, cioè il Toscano della Germania … con tutto ciò se il linguaggio di questa gente s’accostasse al Tirolese, o a quello d’altra provincia all’Italia prossima, e partecipasse de’ lor suoni e pronunzia, non sarebbe da farne gran caso: ma l’udirsi quivi il parlar de’ paesi situati nell’estremità opposta della Germania e per sì vasto intervallo disgiunti, e l’udire in Italia donne non uscite mai de’ lor boschi, ed uomini vissuti con far carbone, parlar il fiore dell’antichissima lingua Germanica, maraviglia reca e piacer grandissimo»[1]. L’origine di questo antico insediamento germanico prealpino è ancora avvolto nelle nebbie, e – in mancanza di precise fonti documentarie – trova incerti anche gli storici. Fino al XVIII secolo circolava fra letterati classicheggianti (fra i quali Maffei) la teoria che questi cimbri sarebbero stati i resti dell’orda barbarica dei cimbri classici, scesi in Italia dalla Danimarca nel 101 a.C., sconfitti dall’esercito di Caio Mario, e rifugiatisi quindi – secondo loro – sull’altipiano di Asiago. Complice il parallelo nome di “Cimbri”,  Zimbarn, che però nel caso dei nostri coloni medioevali potrebbe esser nato – più modestamente – «in connessione al mestiere di taglialegna che veniva praticato dalla maggioranza degli immigrati (Zimmermann, zimmern)»[2] come dice Lydia Flöss. Dall’Ottocento, studi linguistici hanno indicato invece nel linguaggio cimbro usato ad Asiago caratteristiche che lo farebbero derivare all’alto tedesco parlato nei secoli  X-XI in un’area posta fra Baviera, Tirolo e Svevia. In quel tempo il territorio di Asiago era sotto il controllo della famiglia degli Ezzelini, una famiglia feudale di origini germaniche, che potrebbe aver favorito l’insediamento in quelle terre di coloni germanici. Così come potrebbero aver favorito l’insediamento di coloni germanici gli stretti rapporti che intercorrevano fra il monastero bavarese di Benediktbeuern – in possesso di vasti territori fra Baviera e Tirolo – l’abbazia di Santa Maria in Organo di Verona, e l’abbazia di Santa Croce a Campese (VI), a sua volta ricca di  possedimenti a Foza, sull’altipiano di Asiago (magari – suggerisce qualcuno – in seguito ad una carestia nelle terre originarie, oltre le Alpi. Cause che hanno sempre fatto muovere fiumane di popoli, come quelle che ora cercano di attraversare il Mediterraneo verso l’Europa, o che nell’Otto-Novecento attraversavano l’Atlantico). Da Asiago, lungo i secoli del medioevo, i cimbri si sono diffusi, come coloni, boscaioli e minatori, a macchia d’olio nei territori circostanti,  inserendosi a fianco delle popolazioni precedenti, quelle già stanziatevi, discendenti dei Reti, latinizzati dalla conquista romana delle Alpi.

Ancora in quel Quattrocento in cui ad Asiago arrivavano i veneziani, Lavarone era quasi disabitato. Una via – il sentiero dell’Ancino – l’attraversava: salendo dai dintorni di Caldonazzo in Valsugana, passava per quella che oggi è la frazione di Chiesa, dove esisteva un ospizio per viandanti a fianco della chiesa di San Floriano – che in un documento del 1278 troviamo definita “in nemoribus” , cioè in mezzo alla selva [3]– e poi scendeva in Valdastico per inoltrarsi verso Vicenza. Ma dalla documentazione giunta a noi, ancora nel XV secolo non si trova traccia di veri villaggi, ma di masi isolati, «l’impressione però è che la popolazione era ancora molto rara» ne deduce lo storico Desiderio Reich[4]. Insomma un’area di fitti boschi, solo qui e là punteggiata da radi insediamenti umani. Per la verità già dalla fine del XII secolo (in un documento del 1192 per i pignoli) vi incontriamo «gente che vi faceva il carbone e vi tagliava legna»[5] sia per il principe-vescovo di Trento che per i signori di Caldonazzo, ma era appunto solo l’inizio di una attività di colonizzazione di quelle ‘terre alte’. Sul tipo di colonizzazione che vi si sarà sviluppata, successivamente all’epoca dei primi boscaioli e carbonai, ci informa abbastanza dettagliatamente un altro documento, datato 1216, in cui vediamo il principe-vescovo di Trento Federico Wanga investire «Eberiano, Eberardo, Adalpreto, Odalrico, Adelperio, ed Ervigo di tutta la terra nella selva e nelle pertinenze di Costa Cartossa … perché ciascuno [dei sei nominati] faccia un buon maso in quella selva; terra o monte, che sopra quel monte debbano andare ad abitare, a roncare [disboscare] ed a farvi dei masi, e per sei anni non debbano pagare altro al signor vescovo, che un anitra [sic[6]] all’anno, e poi paghino affitto, ed il detto signor vescovo promise di dare per ciascun uomo e maso lire 7 subito che saranno su detti masi»[7]. Il territorio di cui qui si parla – Costa Cartossa – dovrebbe collocarsi fra Folgaria e la Valsugana, ma il tipo di insediamento che vi si descrive può farci immaginare facilmente quello che da quell’inizio di XIII secolo può essere avvenuto sull’altipiano di Lavarone. Questo tipo di colonizzazione è assai frequente nei secoli del tardo medioevo per il Trentino sud-orientale, e nasceva da un progetto di rinnovamento economico portato avanti dalla classe dirigente del tempo, interessata a far fruttare vasti territori montani rimasti selvaggi, e dunque improduttivi. Così l’espansionismo produttivo del Principe-Vescovo di Trento, e della nobiltà feudale, deve essersi incontrato con l’offerta di braccia prodotta dalla pressione demografica che spingeva all’espansionismo cimbro proveniente da Asiago. Creando una mescolanza di coloni tedeschi a fianco di vecchi abitanti latini, come quelli che vivevano già precedentemente a Folgaria. Infatti a Folgaria – che è il lato più interno dell’area degli altipiani trentini, quello che incombe ad ovest sulla Valle dell’Adige – esisteva già nei primi decenni del Duecento una ‘villa’ stabilmente organizzata, dato che nel primo documento comunale di cui sia abbia notizia (1222), troviamo i suoi abitanti convocati tramite suono di campana a pubblica regola in un apposito “palatium”, e rappresentati da un proprio sindaco. Queste circostanze fanno dire allo storico Desiderio Reich, che scrive alle soglie della Prima Guerra Mondiale (non senza qualche intento nazionale-italiano) «Questo vuol dire che in Folgaria esisteva già prima dell’arrivo dei coloni tedeschi un comune costituito e retto come tutti gli altri comuni italiani del  principato trentino»[8].

Tempi moderni

L’uso del cimbro inizia a declinare già nel XVIII secolo, quando viene percepito come una lingua marginale. Lo “slambrot”, il dialetto cimbro imbastardito delle valli del Leno, di Folgaria e Lavarone, viene considerato con sarcasmo nella sottostante città di Rovereto, a cui questi territori fanno naturale riferimento, ricca già di un paio di secoli di sviluppo dell’arte della seta. Il termine slambrottare assume nella parlata quotidiana di Trento e Rovereto il significato comico del parlare involuto e confuso. La macchietta del montanaro tedesco rozzo e arretrato, qualche volta però anche nella variante del “scarpe grosse/cervello fino”, diviene un tòpos per i letterati quasi-illuministi del Settecento roveretano: il poeta dialettale Giuseppe Felice Givanni usa all’uopo il termine “toblonder”, spiegandolo, in nota, nel modo seguente: «dugo e toblonder sono lo stesso, significando un uomo ignorante, e da nulla; ma il secondo si da ai tedeschi di tal carattere»[9] (intendendo qui gli abitanti delle valli del Leno che scendevano a Rovereto, mentre i mercanti tedeschi che facevano affari con i produttori di seta roveretani alle fiere di Bolzano, certo non venivano definiti toblonder). Un colpo di grazia alla cultura cimbra lo da il centralismo dell’età napoleonica, che cancella la Spettabile reggenza dei Sette Comuni, ed ogni traccia di autonomia. Poi viene il precoce sviluppo industriale tessile del vicentino, a cui i cimbri forniranno forza lavoro, scendendo al piano.

Lo sguardo “differenziante” verso le popolazioni cimbre dei letterati roveretani del Settecento è in fondo l’inizio di un’attenzione “nazionale” al mondo cimbro, che si esplicherà compiutamente con il nazionalismo di ispirazione romantica dell’Ottocento, sulle due opposte rive del pangermanesimo da una parte, e dei filo-italiani dall’altra. Nel contesto – ricordiamolo –  di un impero, quello asburgico, dominato da una dinastia di lingua tedesca e preoccupato dall’espansionismo sabaudo-risorgimentale che si stava sviluppando al suo fianco-sud, abitato da italiani. L’inizio delle “lotte nazionali” sull’altipiano viene raccontato tutto sommato con un certo equilibrio dallo storico locale Desiderio Reich, il cui libro pubblicato nel 1910 “Notizie e documenti su Lavarone e dintorni”– di cui mi sono spesso avvalso per questa esposizione – è seria opera di quella storiografia positivistica incentrata sui documenti d’archivio, ma che non nasconde l’intento di dimostrare come la componente cimbra della popolazione degli altipiani trentini sia sempre stata minoritaria rispetto a quella italiana. Reich così racconta l’inizio della contesa: «nell’anno 1862 viene finalmente quale curato [a Luserna] un prete tedesco, Franz Zuchristan di Oltradige presso Bolzano, il quale con sua grande meraviglia vi trovò un dialetto tedesco. Egli pubblicò questa ‘scoperta’ in parecchi giornali, con speciale diffusione del “Bote für Tirol und Vorarlberg”. In seguito a ciò i professori D.r Ignazio Zingerle e Cristiano Schneller, allora professore ginnasiale a Rovereto, visitarono a Pasqua del 1866 l’oasi linguistica. La conseguenza fu che Luserna venne subito provveduta di libri tedeschi. Già ai 4 di maggio 1866 la scuola italiana venne tramutata in tedesca, ed il curato Zuchristan, che fungeva prima come maestro nella scuola italiana, funzionò d’allora in poi come maestro tedesco. Così incominciò la lotta nazionale …  »[10]. Ma l’autore non nasconde il proprio parere, chiedendosi «sarà un bene questo per la popolazione [cimbra], trattenuta così di colpo nel suo sviluppo naturale di fusione [con la popolazione italiana]? Le viene creato in tal modo un nuovo isolamento peggiore del primo, perché questo era soltanto materiale, quello è anche morale»[11]. Un dubbio forse anche legittimo, se non rischiasse di esserci sotto un pregiudizio nazionale, che guarda caso viene da un autore che porta il cognome, di indubbia origine tedesca, di “Reich”. La “lotta nazionale” – come la chiama Reich – continua poi fino alla Prima Guerra Mondiale tramite una contesa fra le opposte organizzazioni nazionalistiche Tiroler Volksbund da una parte e Lega Nazionale (italiana) dall’altra. Una contesa combattuta di solito in modo virtuoso garantendo sostegno economico – proveniente dall’esterno degli altipiani – ad utili asili infantili, scuole popolari, corsi professionali e cose simili, purché rigorosamente “in lingua tedesca” oppure, reciprocamente, italiana. Ma anche con qualche scazzottatura.

Ed infine arrivano, l’una dopo l’altra, ben due guerre mondiali. La prima sconvolge il territorio degli altipiani, attraversato dalla linea del fronte (Asiago italiana, Lavarone austro-ungarica). Gli abitanti di Asiago verranno temporaneamente “spostati” nella pianura veneta sottostante, e l’abitato cancellato dalle bombe. Quelli di Luserna – su cui cade la prima bomba italiana nel 1915, ammazzando una sedicenne sulla porta di casa – verranno sfollati nella lontana Aussing, in Boemia. Dopo la prima guerra, anche gli altipiani cimbri trentini vengono annessi all’Italia, e con il fascismo arriva l’ufficiale diffidenza politica verso le minoranze germanofone. Ci saranno prima i divieti all’uso dei dialetti tedeschi, poi – alle soglie della seconda guerra mondiale – la pulizia etnica delle “opzioni”, inventate insieme da Hitler e Mussolini, alleati. I nuovi cittadini italiani di lingua germanica – “taliani ciapai col schiop[12], si dice ancora in Trentino – verranno messi di fronte alla scelta secca, e lacerante, di restare in Italia ed italianizzarsi completamente, o andarsene per sempre nelle terre del nuovo Reich germanico. A Luserna gli optanti cimbri (che scelgono di trasferirsi nel Reich) saranno 480[13], contro il quasi il 90% della popolazione di lingua tedesca che opterà per andarsene dalla provincia di Bolzano. La guerra rallenterà le operazioni di trasferimento, ed anche quelli effettivamente trasferiti rientreranno in Trentino-Alto Adige/Südtirol dopo la guerra, regolarizzando nuovamente la propria posizione come italiani in seguito all’accordo De Gasperi-Gruber del 1946. L’ultima traccia di uso dello slambrot è attestato nel 1966[14] a San Sebastiano, frazione di Folgaria oltre il Passo del Sommo, vicinissima ai Perpruneri.  Mentre Luserna – paese arroccato su uno spalto affacciato sulla Valdastico – conserva ancor’oggi l’uso di una lingua cimbra particolarmente mescolata al tedesco moderno, grazie alla sua collocazione geografica appartata e difficile da raggiungere fino alla metà del XX secolo, ed alla abitudine secolare dei suoi abitanti all’emigrazione stagionale in terre tedesche. Quella emigrazione stagionale raccontata – per il vicino Asiago – da Rigoni Stern, tramite il personaggio di Tönle Bintarn (Antonio l’invernatore), che «dallo sciogliersi delle nevi e fino alle nuove nevicate andava per i paesi e gli Stati asburgici, lavorando dove capitava, a volte con buoni risultati, a volte meno»[15].

. . . .

 

[1] Scipione Maffei, Verona illustrata, con giunte, note e correzioni inedite dell’Autore. Parte prima, sezione prima, Roma, Multigrafica, 1977 [Rist.anast.di: Milano, Società tipografica de’ classici italiani, 1826], p. 107-108

[2] Dizionario Toponomastico Trentino. I nomi locali del comune di Vallarsa, a cura di Lydia Flöss, Trento, Provincia Autonoma di Trento. Soprintendenza per i Beni librari archivistici e archeologici, 2009, p. 47, NOTA 1

[3] Desiderio Reich, Notizie e documenti su Lavarone e dintorni, Trento, Seiser, 1974 [Rist.anast. di: Trento, STET, 1910], p. 69

[4] Desiderio Reich, Notizie e documenti su Lavarone e dintorni, Trento, Seiser, 1974 [Rist.anast. di: Trento, STET, 1910], p. 142

[5] Desiderio Reich, Notizie e documenti su Lavarone e dintorni, Trento, Seiser, 1974 [Rist.anast. di: Trento, STET, 1910], p. 46

[6] Reich, nella sua traduzione del documento, usa l’espressione “un anitra”, ma lo  storico medioevalista Emanuele Curzel, da me interpellato, ha corretto in questo modo: «l’amissere come forma provvisoria di affitto: non credo che sia unanitra (semmai con l’apostrofo), è una “mescita”, una bevuta o un piatto di cibo: è il tipico “censo ricognitivo” con cui il coltivatore che non deve (ancora) pagare un vero affitto ammette di essere solo un affittuario, nel momento in cui accoglie benevolmente il proprietario»

[7] Desiderio Reich, Notizie e documenti su Lavarone e dintorni, Trento, Seiser, 1974 [Rist.anast. di: Trento, STET, 1910], p. 14

[8] Desiderio Reich, Notizie e documenti su Lavarone e dintorni, Trento, Seiser, 1974 [Rist.anast. di: Trento, STET, 1910], p. 19.

[9] Giuseppe Felice Givanni, El Priore l magneva giust dei fonghi : la Novela Dodese (1752). In “Il Furore dei Libri”, n. 14/15 (2015), p. 26

[10] Desiderio Reich, Notizie e documenti su Lavarone e dintorni, Trento, Seiser, 1974 [Rist.anast. di: Trento, STET, 1910], p. 236

[11] Desiderio Reich, Notizie e documenti su Lavarone e dintorni, Trento, Seiser, 1974 [Rist.anast. di: Trento, STET, 1910], p. 232

[12] Italiani presi col fucile (= aggregati allo stato italiano tramite la guerra)

[13] Dato preso dal sito del Comune di Luserna: http://lusern.it/it/storia/opzioni/ (consultato nel novembre 2016). Secondo Desiderio Reich, al censimento ufficiale del 1900 a Luserna si erano dichiarati tedeschi 915 cittadini, e 14 si erano dichiarati italiani (Reich 1910, p. 232), nel 1936 gli abitanti sono già scesi complessivamente a 725

[14] Dizionario Toponomastico Trentino. I nomi locali del comune di Vallarsa, a cura di Lydia Flöss, Trento, Provincia Autonoma di Trento. Soprintendenza per i Beni librari archivistici e archeologici, 2009, p. 47

[15] Mario Rigoni Stern, Storia di Tönle, Torino, Einaudi, 1978, p.

 

 

Questo brano di Roberto Antolini è tratto da “Altipiani”. Fa parte di una raccolta, per il momento inedita, di testi di descrizione-di-luoghi, geograficamente collocati nel Corridoio del Brennero, cioè in Trentino-Sudtirolo.

2 COMMENTS

  1. Singolare l’osservazione “Luserna(…)conserva ancor’oggi l’uso di una lingua cimbra particolarmente mescolata al tedesco moderno”, in contrasto con l’abituale “particolarmente mescolata con l’italiano moderno” Insomma, benché i linguisti di mezza Europa riconoscano che a Luserna si parli la lingua Cimbra,e per questo la studino, producendo fior di pubblicazioni ogni anno, si continua a fare queste osservazioni estemporanee che non significano nulla. Ogni lingua a contatto con altre lingue segue un suo percorso evolutivo, senza per questo perdere le proprie peculiarità. A Luserna si parla cimbro anche se per molti questa verità sembra difficile da digerire a partire dall’antropologo Cesare Battisti (che aveva le sue ragioni nazionalistiche) che nel 1905 affermava che a Luserna si parlava una specie di dialetto tedesco, ma così mescolato all’italiano che in una decina di anni non ve ne sarebbe più rimasta traccia. 112 anni dopo si parla “di una lingua cimbra particolarmente mescolata al tedesco moderno” Va beh, se volete che sia così; così sia.

    • la frase va presa nel contesto. Nel testo (di cui – fra l’altro – qui compare solo un ritaglio) si parla di lingua cimbra, nessuno lo mette in dubbio. L’osservazione su Luserna è l’osservazione di una particolarità all’interno della storia delle comunità cimbre: il fatto che la comunità si sia conservata cimbra, mentre le altre intorno scomparivano, è frutto anche dell’abitudine alla frequentazione del mondo tedesco nella emigrazione stagionale, e quindi le tracce di questa storia nella lingua parlata sono tutt’altro che insignificanti. Trovo nel tono del commento un certo vittimismo. Chi sarebbero questi “molti” per i quali la “verità” della sopravvivenza cimbra a Luserna sarebbe “difficile da digerire”? La comunità cimbra di Luserna è una minoranza tutelata, ha ottenuto dalla provincia di Trento un istituto mocheno-cimbro, trasmissioni televisive, spazi giornalistici …

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