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Il Mussolini di Scurati

di Roberto Antolini

L’uscita in settembre di “M il figlio del secolo” di Antonio Scurati (Bompiani, 839 p., € 24,00) è stato indubbiamente uno dei momenti significativi della stagione letteraria 2018. Per quello che Scurati ha tentato di fare con questo libro – coronato da un immediato successo di pubblico – intrecciando in modo nuovo Storia e Letteratura, come viene chiarito nella premessa: «Fatti e personaggi di questo romanzo documentario non sono frutto della fantasia dell’autore. Al contrario, ogni singolo accadimento, personaggio, dialogo o discorso qui narrato è storicamente documentato e/o autorevolmente testimoniato da più di una fonte. Detto ciò, resta pur vero che la storia è un’invenzione cui la realtà arreca i propri materiali. Non arbitraria però». Il progetto di Scurati, dunque, va oltre il programma del solito romanzo-storico, nel quale una vicenda di fiction viene inserita nel contesto di un’epoca storica ricostruita sullo sfondo in modo storiograficamente attendibile (almeno nelle intenzioni), e mescolando personaggi storici ad altri di fantasia. Scurati definisce diversamente il suo lavoro: “romanzo documentario”.
Non sono mancate le polemiche, arrivate fin alle bacchettate accademiche, piuttosto antipatiche, di Galli della Loggia sul Corriere della Sera. Ma al di là di questo clamoroso quanto in fondo secondario incidente di percorso (che vedremo), il libro è stato anche molto apprezzato, curiosamente sia da destra – con Il Secolo d’Italia che lo ha definito con entusiasmo «un libro revisionista» – che da sinistra, dove ad apprezzare «per il clima che descrive» è stata Rossana Rossanda su Il Manifesto,  dicendo che «è illuminante l’immagine che egli trasmette dell’opinione italiana» del tempo, non mancando di notare come a questa efficacia non sia estranea l’impostazione tecnico-letteraria, basata su un «interessante ed acuto uso del montaggio fra le parole e i fatti». Vediamo come la cosa avviene.
Scurati costruisce il suo testo mettendo in sequenza oltre 120 capitoletti, di solito di poche pagine, ognuno diviso in due parti: una seconda di materiale documentario (articoli, memorie, documenti politico-amministrativi, discorsi parlamentari, lettere, e addirittura trascrizioni di telefonate a suo tempo intercettate), preceduta da una prima parte dedicata alla narrazione del personaggio citato poi nella documentazione, collocato in una data ed in un luogo precisi, al quale vengono appunto messe in bocca – come nota Rossanda – le parole stesse che escono dai documenti, in una ricostruzione narrativa fedele delle circostanze che dalla documentazione emergono, come in una specie di stampo linguistico-narrativo. L’arco cronologico della narrazione sono i 5 anni – 1919-1924 – che vanno dalla fondazione del primo Fascio di combattimento a Milano,  all’assassinio a Roma dell’on. Matteotti il 10 giugno del 1924, alla crisi di consenso che ne segue, fino alla sua rapida normalizzazione che rende evidente lo svuotamento ormai definitivo delle istituzioni democratiche, iniziando quella che viene chiamata l’epoca fascista. Il libro si legge quindi come sfogliando le pagine della cronaca di un quotidiano del tempo, affollato da un pugno di personaggi ricorrenti, in un intreccio di vicende che “fa” la storia del Paese. Anche se i veri “personaggi” – secondo me – sono due: Mussolini ovviamente, figlio del suo tempo, che sta non un passo avanti (come le avanguardie), ma un passo dietro le masse, pronto a prendere la direzione che esse indicano per cavalcarle, in un vuoto di idee e progetti che viene riempito dal puro esercizio del potere (inseguito e raggiunto), ma anche Matteotti, il suo alter-ego, il politico socialista che non si fa intimidire, denunciando fino all’ultimo la violenza che tutti avevano sotto gli occhi – e stava cambiando il paese – ma nessuno voleva vedere. Il tutto in una narrazione seccamente referente, in terza persona, con un ultimo brano però in cui Mussolini parla a se stesso in prima persona (diventa l’io narrante),  concludendo il libro con l’affermazione – che inquadra perfettamente la situazione – «Nessuno voleva addossarsi la croce del potere. La prendo io».
Nelle molte interviste a Scurati che si possono trovare in rete (per esempio qui), l’Autore spiega di essere stato attirato dalla dimensione romanzesca della scalata al potere di Mussolini, notando però contemporaneamente che nessun romanzo l’aveva ancora raccontata. Perché c’era dietro un tabù  ambientale, rimasto dalla guerra civile: bisognava fare preventivamente una dichiarazione di antifascismo. Ma la letteratura e l’arte non sopportano questo: non possono dare un giudizio preliminare, mettere un filtro ideologico. Così a lui è sembrato giunto il momento di “raccontare la storia ad altezza d’uomo”, evitando di farne una caricatura, un demone o un mito. Il giudizio sul personaggio e sull’epoca poi certo viene, ma viene dopo, alla fine e non all’inizio. Scurati dice che gli è sembrato  il paese fosse maturo per fare questo.
Insomma l’intreccio fra Storia e Letteratura è problematico, tecnicamente ed idealmente. La storiografia “accademica” (diciamo così, per intenderci), si ispira al metodo scientifico, quello delle scienze esatte (senza esserlo, in realtà). Con una grande attenzione -“oggettivizzante” – alle questioni tecniche e formali, cercando invece di eliminare quanto più possibile ogni residuato di soggettività, in primis l’emotività (semmai facendola diventare un’ulteriore disciplina: la storia dei sentimenti). Che invece è la sostanza della letteratura. Solo così si capisce la categoricità del confronto provocato da Galli della Loggia, nei suoi due interventi sul Corriere della Sera, rintracciando «nell’acclamatissimo libro di Antonio Scurati, da settimane in cima alle classifiche delle vendite» errori che, secondo lui, «sommati significano in pratica non essere in grado di orientarsi nella storia culturale italiana della prima metà del 900». Ma allo stesso tempo anche la marginalità delle sue critiche, rispetto alla natura del romanzo.
Il professore denuncia una decina di errori storici nel testo. Alcuni dovuti a sviste, subito serenamente ammesse da Scurati, come l’errore sul mese della sconfitta di Caporetto nella Grande Guerra (spostata da ottobre a novembre). Altri, forse, non così scontati, ma frutto di diverse attitudini nei confronti di personaggi storici che entrano nella narrazione: come l’attributo di «politologo», affibbiato nel libro all’autore dei “Quaderni del carcere”, Antonio Gramsci (insieme ad una sfilza di altri: filosofo, giornalista, linguista, critico letterario e teatrale, animatore della rivista Ordine Nuovo … ecc. oltre che – dulcis in fundo – pensatore geniale); termine che certo allora non era in voga, ma che oggi non appare poi così bizzarro per il personaggio. Chi non avesse ancora acquistato il libro comunque può stare tranquillo: il volume è ora in libreria emendato, così come lo è nel formato elettronico. L’editore Bompiani infatti ha prontamente corretto gli errori riconosciuti da Scurati, facendo silenziosa ammenda della denuncia, contenuta nel primo intervento di Galli della Loggia, di una «devastante mancanza di editing nella maggior parte dell’editoria italiana». E quindi la polemica dovrebbe essere chiusa, ma non prima di notare la curiosa circostanza per la quale un illustre accademico si limita a fornire all’editore – presumo gratuitamente – una minuziosa attività di editing, lasciando al romanziere il compito di raccapezzarsi sul “senso” di un’epoca storica.
Scurati non usa il termine “senso”, è mio, lo uso qui perché a me pare il vero crinale proprio di un “romanzo documentario” come questo: proporre una riflessione sul senso di quella epoca devastata dalla prima guerra di sterminio di massa della storia, e durata fino alla ricostruzione, anche democratica, del Paese, dopo una seconda guerra. Una ricerca di senso che viene bene in luce nel brano che riporto per concludere, dedicato alla manifestazione socialista arrivata in piazza Duomo a Milano il 15 aprile 1919, che dà l’occasione al primo fenomeno di squadrismo assassino: «”Eccoli! Eccoli! Gli Arditi tirano fuori i revolver. Per un attimo le due fazioni si fronteggiano ai due lati del cordone di carabinieri che hanno sbarrato lo sbocco di via dei Mercanti. In testa alla colonna socialista ci sono ancora una volta le donne con alto il ritratto di Lenin e la bandiera rossa. Cantano sfrenate, gioiose, i loro canti di liberazione. Invocano una vita migliore per i propri bambini. Credono ancora di essere venute a fare le loro parate, i loro minuetti di rivoluzione. Alla testa dell’altro corteo, molto meno numeroso, ci sono uomini che negli ultimi quattro anni hanno convissuto quotidianamente con l’uccisione. La sproporzione è grottesca. A scavare un abisso tra le due schiere entra un diverso rapporto con la morte» (p.37).
Nella scrittura di Scurati, così seccamente referente da conservare spesso esattamente lo stesso stile delle scritture amministrative da cui prende le mosse, si aprono al momento giusto degli squarci che allargano gli orizzonti, collegando quel momento – visto isolatamente nella documentazione amministrativa, come in una istantanea fotografica – ad altri che lo hanno determinato nella vita delle persone (e del Paese), forgiando destini che le porta ad essere quello che sono in quel preciso momento. Tessere questo filo di connessione di cause/effetti, magari invisibili nella istantanea fotografica, ma determinanti, significa appunto cercare il senso delle storie: quelle individuali delle persone e quella collettiva del Paese, che ne è la risulta.

 

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