Ricardo Piglia come meta e punto di partenza
(Il 6 gennaio è morto uno dei più grandi scrittori contemporanei, l’argentino Ricardo Piglia. In Italia, è una scomparsa che non ha fatto notizia. Ringrazio Massimo Rizzante, assiduo frequentatore della letteratura latino-americana, per aver tradotto questo pezzo su Piglia dello scrittore messicano Juan Villoro e per averlo proposto a NI. a. i.)
di Juan Villoro
traduzione di Massimo Rizzante
(Apparso in «Clarín», Buenos Aires,14 gennaio 2017)
Nelle opere creative di Ricardo Piglia la critica opera come una risorsa narrativa: il tema può essere il testo stesso o le sue diverse letture. Contro il discorso monocorde e oppressivo dello Stato, l’uomo che a volte si è fatto chiamare Piglia e a volte Renzi ha costruito dispositivi per raccontare le trame perdute, necesariamente incompiute, della vita privata e segreta degli individui. Non è un caso che vedesse nel detective una variante popolare dell’intellettuale: i fili sciolti della realtà hanno bisogno di un interprete, di un lettore.
Piglia ci ha lasciato una letteratura coraggiosa, piena di sfide e aperta ai cambiamenti, ma soprattutto ha difeso una particolare maniera di leggere il mondo al di là della sua bibliografía. La sua opera è un meta e un motivo per tutti noi per continuare ad andare avanti.
Una delle sue formule più conosciute definisce la letteratura come «la forma privata dell’utopia». Non ha mai lanciato questa frase con l’intento di fare proseliti, tipico di chi firma manifesti o è a capo di un’avanguardia. Era solito affermare che gli scrittori importanti provocano una rottura, che nessuno di loro può essere letto allo stesso modo e che perciò le loro opere sono oggetto di divisioni tra chi le legge. Se Andy Warhol aveva pronosticato una celebrità di massa in cui tutti sarebbero stati famosi per quindici minuti, Piglia pareva promettere un paradiso analogo, ma su scala ridotta, un’utopia tascabile alla portata di ogni lettore. Che cosa voleva dire? Intanto siamo di fronte a uno slogan “ottimista”, di quelli che si stampano sulle magliette. Ma Piglia, in realtà, non ci invitava a seguirlo in un regno di Oz (ci invitava semmai in un regno dove i trucchi del mago potevano essere scoperti). La sua intera opera è stata un campanello d’allarme sul carattere ambiguo di ogni utopia. In La città assente le macchine narrative generano racconti tanto paralleli al nostro mondo quanto elusivi, ma ciò non è privo di conseguenze, alcune delle quali inquietanti. Lettore attento di Philip K. Dick, Piglia ha compreso che le finzioni liberano e incatenano. Sapere che qualcuno è prigioniero è meno terrificante che leggere il racconto che lo imprigiona. La narrazione può essere più precisa dell’ambiente che ci circonda: «Quel che ho visto era più reale della realtà, più indefinito e più puro», scrive nel Prologo a L’ultimo lettore. Uno scrittore visita la casa di Russell, un fotografo che ha costruito un plastico di Buenos Aires. Piglia — o qualcuno che racconta in sua vece — ricorda che Lévi-Strauss affermava che l’arte dipende dalla nozione di scala: ogni opera è una riduzione della realtà. Tuttavia, vedendo la città in miniatura in casa di Russell, si rende conto che in quel modellino è presente tutta la vita di Buenos Aires. Anzi: una vita accresciuta, più intensa. Come nell’Aleph di Borges, i prodigi avvengono «senza che le dimensioni si riducano». Dopo la visita, lo scrittore scende nel metrò e capisce di aver visto qualcosa di molto simile al processo immaginativo: quel che può essere pensato esiste così: come uno sfoggio, bello e perturbatore.
In Bersaglio notturno, un personaggio costruisce in modo maniacale una macchina nel mezzo del nulla Questo complesso e demenziale congegno serve per avvicinare gli oggetti distanti: un punto che vibra all’orizzonte può essere una lepre. Siamo di fronte a una metafora della lettura, capace di approssimare realtà lontane, attività allo stesso tempo tranquilizzante e terribile.
Non c’è luogo più sgradevole di un’utopia realizzata. Questo ordine “perfetto” supera le capacità reali dei suoi utenti; si impone in modo egemonico e esige una subordinazione soddisfatta. Per contro, il pensiero radicale fa sì che questo regno immodificabile non si instauri e scommette sulla pulsione utopica: il desiderio di giungere in quel luogo senza però conseguirlo del tutto è più stimolante della fantasia di credere di vivere nel migliore dei mondi possibili. Piglia ci mette in guardia dai pericoli sottesi al raggiungimento della meta. La sua definizione della letteratura come forma privata dell’utopia richiede un’interpretazione.
Un personaggio di Respirazione artificiale afferma che Borges è il più importante autore argentino «del XIX secolo». Piglia non si assume direttamente la responsabilità della dichiarazione, ma la pone nel fragile interstizio che separa il narratore dall’autore. Cerca di scrollarsi di dosso l’ombra del pricincipale scrittore di lingua spagnola del XX secolo, facendola rientrare nella zona di quel che è già successo, in una lontana tradizione? Sono molte le convinzioni che Piglia condivide con Borges: non esistono opere individuali, tutto viene sempre da un altro luogo, nessun testo dispone di un contenuto che possa convertirlo in un classico (sono i lettori che lo decidono), i libri servono per leggere il mondo e questa pratica conferisce loro un altro valore, terminare una lettura significa iniziarne un’altra: essere, di nuovo, Don Chisciotte la cui realtà è superiore a quella di Cervantes.
Borges sviluppa queste idee nel chiuso della Biblioteca «che altri chiamano mondo». Il testo è la realtà. Affermando che la letteratura è la forma privata dell’utopia, Piglia ci ricorda che non è la scrittura ma la lettura che decide delle sorti di un libro. Ogni testo chiede una risposta: ci convoca e ci mette in discussione.
Tuttavia, a differenza di Borges, Piglia permette che la biblioteca sia invasa da altre realtà. Lettore di Arlt, Walsh, Brecht, Marx, Benjamin, Enzensberger, di fantascienza, di sceneggiature cinematografiche, di discorsi pubblicitari e di romanzi polizieschi, ha potuto dire con Paul Éluard: «Ci sono altri mondi, ma sono tutti qui». La forma privata dell’utopia non si svolge ai margini della realtà, non rappresenta un’evasione verso un altro ordine di cose, ma l’inclusione di questo al centro di una realtà impura, sempre modificabile, frammentata, minacciata.
Storico di formazione, Piglia ha concepito nel suo romanzo Respirazione artificiale la parabola più drammatica sul potere che la fantasia esercita sulla realtà: Kafka come precursore di Hitler. Quel che nell’autore del Processo è letterario, nel saccheggiatore dell’Europa è letterale. Nel Caffè Arco, un giovane pittore austriaco di poco talento ascolta le divagazioni paranoiche di uno sconosciuto narratore ceco. Anni dopo, al fronte tra le fila della Wehrmacht, decide di convertirle in «utopia realizzata». Hitler degrada Kafka, ma la cosa più raccapricciante è che segue la sua stessa logica. Un’amara ipotesi comica (Kafka scriveva per «far ridere i suoi amici») distrugge l’Europa. L’utopia muore di realtà.
Fino a che punto è possibile per un testo preservare la sua letterarietà? Borges aveva affermato che nessun evento lo aveva colpito così tanto come scoprire la biblioteca del padre. Piglia si aggira tra i suoi scaffali, ne domina il contenuto, ma porta i libri in strada.
Un pasaggio dei Diari di Emilio Renzi offre una chiave interpretativa per tale procedimento. In questa peculiare variante autobiografica l’autore legge se stesso e si sdoppia. Certi paesaggi ritornano varie volte, mettendo in dubbio il lavoro della memoria e la sua capacità di riportarli fedelmente. Anche nella sua Antologia personale Piglia modifica, al rileggerli, i suoi testi : un capitolo di romanzo appare come un racconto e degli appunti per una lezione si trasformano in un saggio. La responsabilità dell’autore non è stabile: coincide con quel che Piglia legge di se stesso, operazione che risulta sempre cangiante, mercuriale. Nei Diari assistiamo allo svolgersi di una vita che cerca di convertirsi in destino. Come voleva Juan Carlos Onetti, siamo tutti testimoni delle nostre «vite brevi», contradittorie, in permanente tensione: è un processo che richiede di essere interpretato. L’esperienza è un problema.
Per decenni Piglia ha raccontato la storiella che aveva dato alle stampe diversi libri solo perché un giorno fosse pubblicata la sua opera fondamentale, uno scritto di cui nessuno si sarebbe interessato in quanto l’autore era sconosciuto. Questa è stata la forma più privata della sua utopia.
Tra le meraviglie dei Diari, prendo un passaggio che gli ho sentito raccontare varie volte con alcune varianti. Uno dei tratti più affascinanti di Piglia era quello di proporre nel corso delle sue conferenze e delle sue conversazioni molte storie che spesso lasciava in sospeso. L’oralità rappresentava per lui una palestra di temi possibili, ma anche un laboratorio in cui si impegnava a cercare soluzioni. Una dei suoi ultimi desideri era quello di costruire una casetta su un terreno che aveva comprato in Uruguay dove registrare i dialoghi con gli amici. Parlava con il gusto di esplorarsi e non gli servivano grandi stimoli esterni per lanciarsi in qualche speculazione. Nelle interviste o durante le tavole rotonde non pensava mai che le domande che gli ponevano fossero inopportune o insignificanti. Di fronte alla minima curiosità rispondeva con la sua immensa curiosità. Un fatto qualsiasi diventava per lui una potenziale teoria. Sull’onda generosa dei suoi racconti, gli ho sentito riferire varie volte la scena seguente: quando ancora non sapeva leggere, si sedeva fuori della sua casa di Adrogué con un libro in mano. Vicino c’era la stazione dei treni. Gli piaceva osservare chi tornava dal lavoro, ma soprattutto gli piaceva che la gente lo vedesse e pensasse che sapesse già leggere. La cosa continuò fino a quando un uomo gli si avvicinò e gli disse: «Guarda che tieni il libro a rovescio». Le sue vanterie si trasformarono in vergogna.
L’episodio rivela quel che Piglia cercava fin dall’inizio: leggere dall’altro mondo. Il suo primo libro capovolto era un simbolo precoce della lettura obliqua che avrebbe esercitato molti anni dopo.
Mi sono abituato a pensare che quell’immagine racchiudesse la cifra del suo destino. Quando ho letto il primo volume dei Diari, mi ha sorpreso ritrovare l’episodio descritto molto rapidamente: “Stavo lì, sulla soglia, facendomi vedere, quando improvisamente una grande ombra si inclinò e mi disse che stavo tenendo il libro a rovescio». La comicità funziona, ma si perde l’importanza che il fatto ha per il bambino, il suo desiderio di vantarsi di fronte a coloro che tornano dal lavoro, di sentirsi importante, adulto. Piglia stesso sembra non interpretare l’aneddoto come un rito di passaggio, come l’annuncio di come leggerà in futuro.
Poteva un narratore così abile sprecare una scena che aveva raccontato con successo nel corso di molte conversazioni? Dopo aver fatto una pausa nella lettura, propiziata dalla perplessità e dallo spazio lasciato in bianco nel libro, ho trovato nel paragrafo successivo una sorpresa. Piglia dava un nome alla «grande ombra» che lo aveva corretto quando era bambino: «Penso che doveva essere Borges».
L’autore di Finzioni era solito trascorrere le estati nell’Hotel “Las Delicias” di Adrogué, cosa che rendeva verosimile la possibilità. La storia che Piglia aveva raccontato come un episodio che lo riguardava personalmente, si iscriveva nella tradizione. Borges gli insegnò la forma canonica della lettura. Ma Piglia aveva già fatto uscire il libro nel mondo. Rispettò il consiglio finché non rovesciò a testa in giù il maestro. Né lui né noi torneremo a leggere come prima. Dopo Piglia la nostra lingua è più reale, più tentatrice, più pericolosa.
Il suo vanto poteva riassumersi in una frase che non smetterà di profondere significati, una frase capace di ardere come un incendio che si autoalimenta: «La letteratura è la forma privata dell’utopia».
era talmente ipnotico da avermi convinto di essere stato lui a infilare tra le righe di un suo libro le parole di un classico per cui ogni narrazione può avere inizio solo quando uno straniero arriva in un luogo o quando qualcuno, da un luogo dato, parte. Il resto è cenere