Ha senso parlare ancora di letteratura “minore”?
di Daniele Comberiati
Riflessioni a partire da Simone Brioni, The Somali Within. Language, Race and Belonging in ‘Minor’ Italian Literature. London: Legenda, 2015.
A ventisette anni dall’apparizione nelle librerie di Io, venditore di elefanti di Pap Khouma, romanzo autobiografico dal quale si fa generalmente partire la nascita della cosiddetta letteratura italiana della migrazione, sono diversi i saggi recentemente apparsi che affrontano tale produzione letteraria da punti di vista e aspetti differenti (mi vengono in mente, dimenticandone certamente alcuni, i contributi di Cristina Lombardi-Diop, Caterina Romeo, Silvia Contarini, Ugo Fracassa, Chiara Mengozzi). Rapporto con il canone, relazione fra letteratura migrante e letteratura nazionale, trittico lingua-letteratura-nazione: sono diverse le problematiche che questa letteratura mette in gioco, ponendo le basi per una riflessione più ampia sulla letteratura italiana contemporanea e più in generale sull’essenza stessa, nell’epoca attuale, delle letterature nazionali.
A prima vista il saggio di Brioni potrebbe sembrare una sorta di ‘ritorno’ ad una prima fase della critica sull’argomento, quando gli autori venivano analizzati secondo le aree di provenienza, per evidenziare la pluralità di voci di una letteratura che, diversamente dai casi ad esempio inglese e francese, non ha mai avuto una comunità ‘privilegiata’ di riferimento. A ben guardare, però, il suo studio sulla letteratura italo-somala è molto più complesso: innanzitutto recupera il discorso di Gilles Deleuze e Félix Guattari sulla letteratura ‘minore’, che funge da quadro teorico complessivo, laddove il concetto di minorità prende in esame le nozioni di Bourdieu di ‘capitale culturale’ e ‘legittimità letteraria’, nonché il contesto di produzione e ricezione delle opere. In secondo luogo Brioni rivendica l’appartenenza degli autori del suo corpus (Cristina Ali Farah, Igiaba Scego, Kaha Mohamed Aden, Shirin Fazel Ramzanali, per non citarne che alcuni) al campo di riflessioni che, a partire dal postcoloniale, affronta problematiche riguardanti il genere, la razza e il colore, inserendosi nel campo dei più moderni studi sull’argomento (e mi sembra che i riferimenti a bell hooks e Sarah Ahmed siano in tal senso ampiamente giustificati). Non mancano inoltre le riflessioni a partire dai critici che, provenienti dall’Italia e non, più di altri negli ultimi anni si sono occupati dell’argomento, cercando di riflettere sulla produzione migrante dai versanti postcoloniale e transnazionale: fra i tanti Ruth Ben-Ghiat, Franca Sinopoli, Sandra Ponzanesi, Derek Duncan, Loredana Polezzi e Jennifer Burns. E sarebbe interessante oggi studiare una storia della critica della letteratura italiana contemporanea “dall’estero”, visti anche i numerosi studiosi che oggi, per diverse ragioni, ci lavorano.
Il libro è diviso in tre capitoli principali (Language, Race e Belonging), provvisti di un’ampia introduzione teorico-metodologica e di una altrettanto completa conclusione. Dal punto di vista del contenuto specifico del volume, due sono a mio avviso le principali innovazioni critiche; innanzitutto la prima sezione, significativamente intitolata Language: Brioni dimostra di saper ‘entrare’ nei testi, una capacità che talvolta manca in alcuni saggi sulla letteratura migrante, interessati al posizionamento teorico delle opere, che però non vengono analizzate a dovere. Qui, ad una prima ‘lettura a distanza’ quasi morettiana, l’autore fa seguire un’analisi accurata, in cui vengono messe in luce le strategie narrative e soprattutto linguistiche con cui gli autori scelti descrivono l’Italia e il loro rapporto con la Somalia. È proprio a partire dai testi che ci rendiamo conto di come la tensione fra i due poli sia sempre costante, anche nei passaggi in cui apparentemente il discorso coloniale è meno evidente. La narrazione di Il comandante del fiume di Cristina Ali Farah, ad esempio, si svolge in luoghi che a prima vista non hanno niente a che vedere con la storia coloniale italiana e con le sue conseguenze postcoloniali. Brioni però attraverso l’analisi dell’uso della lingua (o piuttosto delle lingue) dell’autrice ci mostra come le intersezioni fra antiche colonie e metropoli siano ancora presenti e come luoghi e lingua vengano ricostruiti e risemantizzati in una chiave nuova. A tale proposito il concetto di ‘translation’, impiegato secondo diversi punti di vista, diviene fondamentale: attraverso una riscrittura dello spazio, della lingua, delle relazioni, del passato e della storia che lega Italia e Somalia, questi autori cercano di far riflettere i lettori italiani su una serie di contraddizioni che sono alla base della costituzione stessa dell’unità nazionale e che non sono mai state seriamente affrontate.
Il secondo elemento di originalità risiede nell’interesse di Brioni per le rappresentazioni di razza e colore nelle opere degli scrittori e delle scrittici analizzati. Anche in tal caso, facendo riferimento ad un ampio apparato teorico e metodologico, l’autore ci mostra punti di vista inediti e non immediati, nonché una lettura sempre attenta (anche dal punto di vista filologico, elemento in effetti raro negli studi sulla letteratura migrante italiana) e una notevole capacità di far dialogare queste opere con altri lavori, non solo italiani, del contesto postcoloniale. A partire da come gli scrittori di origine somala descrivono razza e colore, infatti, è possibile iniziare una riflessione che, dalle avventure coloniali passando attraverso le Leggi razziali del 1936 e l’apparente oblio delle colonie nel secondo dopoguerra, giunge fino all’Italia attuale e agli odierni problemi di razzismo e accoglienza. Mettere in primo piano, oggi, la questione razziale come elemento critico per una serie di testi letterari, significa ribadire ancora una volta, in una chiave engagée quasi saidiana, che la razzializzazione della società italiana rimane ancora uno dei problemi più impellenti da risolvere.
In conclusione, il saggio riesce a far riflettere il lettore soprattutto su un aspetto: è possibile rileggere l’intera storia dell’Italia moderna e contemporanea (l’unità, le imprese coloniali, il fascismo e l’alleanza con Hitler, il dopoguerra, gli anni Ottanta e la situazione attuale) attraverso la particolare specula della Somalia e degli autori che da tale paese provengono; allo stesso modo in Italia rimangono tracce passate e presenti (dai segni tangibili dei monumenti coloniali a quelli più mutevoli dei lasciti della diaspora) della recente e meno recente storia somala, una relazione che la letteratura contemporanea si è apprestata a descrivere.
L’espressione usata nell’articolo “la razializzazione della società italiana” risulta di una vaghezza quasi inquietante e fa pensare a chi tratta i popoli come bestiame umano da manipolare o farne materia di studio per sociologi radical chic. Ci sarebbe da riflettere di più sull’ignoranza antropologica di chi accoglie per lucrosi sfruttamenti e non per motivi umanitari un numero di immigrati non più gestibile creando le premesse per una futura guerra civile e tacciando nel frattempo di razzismo un popolo ospitale come quello italiano o chiunque osi sollevare il problema dell’immigrazione incontrollata.
A me invece viene da riflettere di più sul fatto che un articolo sulla letteratura afro-italiana, riguardante scrittori e scrittrici afro-italiane (Scego nata a Roma, Farah a Verona, altre e altri in Italia da venti, trenta, quaranta anni, e magari da un pezzo naturalizzati italiani), un articolo che, tra le altre cose, evoca il disastro e l’oblio del colonialismo italiano, susciti un commento sulla “immigrazione incontrollata” subita dal “popolo ospitale” che sarebbero gli italiani (italiani caucasici al 100%, sì?). Ecco un perfetto esempio del perché “la razzializzazione della società italiana rimane ancora uno dei problemi più impellenti da risolvere”.
Io non sono un “perfetto esempio” di alcunché, perché innanzitutto, come ogni altro essere umano, sono unico e non sono la dimostrazione di un teorema precostituito, poi ho la virtù non trascurabile di pensare con la mia testa e proporre pensieri difformi. Mi pare, invece, di trovare negli articoli proposti in questo spazio intitolato, perlomeno idealmente, alla diversità delle idee e delle tribù di pensiero, una strabiliante omogeneità d’opinione su certi temi, tra l’altro costantemente riproposti o lasciati trapelare in scritti di qualunque natura: che si parli di letterature comparate o d’attualità politica, si scelga l’espressione poetica o la prosa scientifica, emergono sempre una medesima forma mentis e quasi una communis opinio che contrastano con il doveroso elogio della diversità e della libertà.
Non mi sembra affatto un ‘pensiero difforme’ parlare di ‘futura guerra civile’, ‘popolo ospitale come quello italiano’ o ‘immigrazione incontrollata’. Buona parte dei programmi televisivi sembra presentare l’argomento ‘immigrazione’ in questi termini. A confutare queste affermazioni sono stati negli anni scritti numerosi testi da parte di esperti di sociologia e di diritto, come ad esempio (e ne cito solo alcuni) Alessandro Dal Lago, ‘Non persone’; Fulvio Vassallo Paleologo, ‘Diritti sotto sequestro’; Giuseppe Campesi, ‘Polizia della Frontiera’. Ma non credo che la recensione o il testo recensito affrontino il tema da questa prospettiva: qui si parla di letteratura italiana contemporanea, e se scrittori italiani di origine africana parlano di razzismo nella società in cui vivono, varrebbe forse la pena di leggere le loro opere e capire quali siano le loro ragioni.
Al di là del fatto che il libro sia piaciuto o meno, ho molto apprezzato questa recensione perché non offre solo una lettura stratificata di The Somali Within e lo inserisce all’interno del dibattito che lo ha generato, ma va oltre il saggio stesso, ponendo al lettore domande stimolanti:
Quanti italiani conoscono i testi menzionati nell’articolo? Per quali ragioni questi testi sono/non sono conosciuti?
Perché la maggior parte degli studiosi citati in questo articolo vive e lavora fuori dall’Italia? Esiste una differenza tra i temi che dominano lo studio della cultura italiana in Italia e all’estero?
Qual’è l’eredità del passato coloniale nell’Italia di oggi? Perché per molto tempo il colonialismo italiano non è stato studiato?
Chi racconta l’immigrazione? Chi viene raccontato? é un problema che si scriva spesso ‘al posto di’ o ‘su’, e molto poco ‘in prossimità di’ e ‘in dialogo con’ immigrati?
Sono molto contento se crede che queste domande siano ‘communis opinio’. Purtroppo temo di non essere d’accordo con lei.
Francamente penso che potremmo citare non decine ma centinaia di episodi in cui la presunta ospitalita’ italiana si e’ rivelata ben altro…
Palli, chiariamo: “il doveroso elogio della diversità e della libertà” non può implicare accogliere acriticamente certi assunti, come la stigmatizzazione delle migrazioni, la ‘leggendaria ospitalità italiana’, o la negazione del colonialismo italiano, per esempio, che costituiscono il classico armamentario dei reazionari dilaganti oggi ovunque, tra i duri-e-puri storici come i leghisti o tra i cinici-sedicenti-pragmatici dell’ultima ora. E’ una strategia retorica vuota e ormai scoperta quella di rovesciare addosso al discorso interculturale le responsabilità del suprematismo: in verità, è solennemente arrivato il momento di fare i conti sia con la crescente inevitabilità delle migrazioni, che con il rifiuto (ormai lunghissimo, che millanta sempre, ogni volta, una qualche emergenza inaspettata) di attrezzarsi come società multiculturale, e, infine, con la storia e le conseguenze del pensiero coloniale. *Anche per la letteratura* è arrivato (da un bel pezzo, invero) questo momento; come ci ricordava qualche anno fa Daniela Brogi, gli scrittori e le scrittrici menzionati qui, per esempio, stanno *già* facendo la letteratura italiana, e rifiutare di vederlo comporta un vuoto critico enorme, nocivo per i ‘nuovi’ italiani come per i vecchissimi: https://www.nazioneindiana.com/2011/03/23/smettiamo-di-chiamarla-%C2%ABletteratura-della-migrazione%C2%BB/