Critica progressista e comunità d’ascolto
(Questo pezzo è uscito sulla rivista “Il ponte” (n° 11-12, 2016), all’interno di un dossier curato da Luca Lenzini e intitolato Critica letteraria al tempo di internet; esso raccoglie interventi dello stesso Lenzini, di Riccardo Donati, Italo Testa, Marco Gatto, Antonio Tricomi, Lorenzo Marchese, Roberto Gerace, Gabriele Tanda, Enrico Fantini e Rino Genovese.)
di Andrea Inglese
L’inflazione delle rivoluzioni antropologiche
Il problema delle rivoluzioni antropologiche è che, all’epoca di Pasolini, sembravano potersi circoscrivere facilmente e essere tutto sommato rare. Dalla fine degli anni Settanta, però, i mutamenti all’interno delle società capitalistiche, ben presto vincenti sull’orbe terracqueo, sono diventati così rapidi e di ampia portata, da creare, almeno nelle cerchie intellettuali, un fenomeno d’inflazione di mutamenti di paradigma e svolte antropologiche. Sembrerebbe necessario, ad esempio, piuttosto che arrovellarsi ancora una volta intorno alle funzioni della critica, chiedersi se, in tale nuovo contesto di produzione e fruizione di prodotti culturali, qualcosa come il critico letterario o addirittura l’opera letteraria esistano ancora, o assomiglino sufficientemente a ciò che sotto il loro nome abbiamo conosciuto nel Novecento. Non è in realtà mia intenzione provare a rispondere a questa domanda, ma vorrei capire quanto possa essere pertinente porsela per riflettere sul futuro della critica.
Sopravvivenza del critico progressista e della sua comunità d’ascolto
Per prima cosa, mi rifarò a una ben determinata concezione del critico, mostrando poi perché (e a chi) una sua eventuale scomparsa procurerebbe angoscia. Non penso, ovviamente, al critico che, come scrive Fortini, concepisce la sua attività come “l’avventura di un’anima tra i capolavori”, ossia esalti il dialogo tra lettore ed opera, come se quest’ultima fosse un isolato e astorico serbatoio di valori, a cui solo una cerchia di eletti possono in ogni epoca attingere. Nemmeno mi rifaccio all’idea che, paradossalmente, oggi è più obsoleta della precedente, secondo la quale la critica è un’attività scientifica (da scienziati della letteratura). Neppure il critico si riduce a un semplice studioso di letteratura. Il suo scopo consiste, semmai, secondo le parole di Fortini, “nella implicazione di vari ordini conoscenze in occasione e a proposito della conoscenza di un oggetto letterario” 1. Per semplificare, potremmo dire che questi vari ordini di conoscenze sono riconducibili a due categorie, le conoscenze relative al linguaggio e quelle relative al mondo storico. Il critico è qualcuno che discute di un un’opera (testo, prodotto linguistico), avendo come sfondo il mondo in una sorta di andirivieni, tale per cui questo esercizio permette una reciproca (dialettica?) illuminazione. Il critico, insomma, non è un semplice lettore particolarmente attrezzato (di gusto, di memoria letteraria), ma qualcuno che pretende, anche, di avere una qualche idea del contesto (il mondo storico) e del modo in cui il mondo storico generalmente condiziona l’universale attitudine comunicativa degli esseri umani, ossia i modi e le forme del loro linguaggio. Ma Fortini, oltre alla natura saggistica, ibrida, non sistematica, del discorso critico, ne chiarisce anche l’aspetto più politico: “la possibilità di una critica letteraria (come discorso sui rapporti reali fra gli uomini, la società e la storia loro, a proposito della metafora di quei rapporti che le opere letterarie sono) è in relazione al grado di omogeneità e circolazione degli interessi (intellettuali, morali, politici) della società o della parte di essa cui quella critica vuole rivolgersi” 2.
Ciò che conta in questo passaggio non sono tanto le prerogative del critico (il suo discorso e i suoi talenti), né quelle dell’oggetto a cui si rivolge (l’opera letteraria), ma il pubblico che lo ascolta, che ha necessità di ascoltarlo. Noi critici progressisti dovremmo almeno riconoscerci in quest’idea, secondo cui la critica è un discorso parziale, in quanto essa non pretende di rivolgersi a tutti (all’umanità alfabetizzata), ma a una sua parte, con la quale condivide degli interessi importanti. Quella critica che parla del mondo a proposito dell’opera, ha come sua condizione necessaria un uditorio non qualunque, con il quale sia stato, implicitamente o meno, stabilito un patto. Il succo di questo patto mi sembra stare in una triplice convinzione: 1) la società tende a mentire a se stessa, 2) questa menzogna è interessata (procura vantaggi agli uni e svantaggi agli altri), 3) le opere letterarie contribuiscono a lottare contro questa menzogna. (Si tratta, sia chiaro, di menzogne storicamente determinate.) In altre parole, qualcosa come l’ideologia esiste, essa condiziona il nostro modo di vedere il mondo, e quindi di parlare e scriverne; tale ideologia favorisce chi è in posizione di dominazione sociale, e perpetua forme di ineguaglianza; il critico progressista assolda la letteratura in quella forma di combattimento per l’emancipazione che va sotto il titolo di “critica dell’ideologia”. Quello, quindi, di cui vorrei qui discutere è la possibilità che questa critica scompaia, e che quindi venga meno questo sguardo politico sulle opere o, per meglio dire, questo sguardo sul carattere politico delle opere stesse, nel momento in cui concorrono a interrogare polemicamente i regimi connessi di visibilità e dicibilità del mondo “reale”, incrinando l’armonico (ideologico) rapporto tra parole e cose 3. È quindi importante capire se questa bizzarria della critica progressista possa ancora avere seguito, se cioè oltre al godimento innegabile che l’opera fornisce ai suoi lettori, si riconosca nella sua fruizione anche una dimensione ulteriore, conoscitiva e d’emancipazione, che trova le sue radici in tutto un contesto d’interessi condivisi almeno da una minoranza. Ci sono sufficienti risorse politiche, etiche e intellettuali per fare sì che questa minoranza non si dissolva, e riesca a tramandare, di generazione in generazione, alcuni dei suoi valori e idee fondamentali?
Estinzione della letteratura?
Il bello delle cifre, è che esse vengono mobilitate soprattutto quando hanno un potere terrorizzante. Prendiamo, per cominciare cautamente, cifre dell’indagine Istat sui lettori di libri in Italia. Nel 2015, il nucleo dei cosiddetti “lettori forti” (coloro che leggono in media almeno un libro al mese) costituiva solo il 13,7% dei lettori, mentre i “lettori deboli” (non più di tre libri all’anno) ben il 45,5%. Se andiamo poi a guardare l’evoluzione di questi dati, ci rendiamo conto che, tra il 2010 e il 2014, diminuiscono i lettori “deboli” e permangono stabili i lettori “forti” 4. Ciò sta a ricordarci che, una volta acquisiti compiutamente, i privilegi non si gettano con facilità alle ortiche. Se vogliamo, infatti, dare una coloritura di classe alle cerchie di lettori “forti” e “deboli”, possiamo constatare il fatto abbastanza prevedibile che: “Livelli di lettura superiori alla media si riscontrano tra i laureati, i direttivi quadri e impiegati, i dirigenti, imprenditori e liberi professionisti e gli studenti; quelli più bassi tra chi possiede la licenza elementare o nessun titolo di studio, gli operai, i ritirati dal lavoro e le casalinghe” (dati Istat 2010). Questo vuole dire, tra l’altro, che l’uditorio del critico progressista – indipendentemente dalla sua classe di provenienza – si situa più nelle fasce sociali dei dominanti che in quelle dei dominati. Fin dall’origine, il fenomeno “letteratura”, intesa non solo come corpo delle opere, ma anche come orizzonte di ricezione, implica competenze e criteri di lettura che appartengono a una minoranza della popolazione.
Veniamo ora alle cifre che veramente spaventano. Intanto, siamo nel mondo globalizzato e, più precisamente, nel sistema-mondo capitalistico, quindi diamo un’occhiata a quei paesi che, tutt’oggi, sono in posizione di dominio: gli Stati Uniti, ad esempio. Il colosso statunitense del commercio elettronico, Amazon, nel 2015 stava oltrepassando la soglia dei 300 milioni di utilizzatori attivi nel mondo, e da solo era responsabile della vendita, almeno negli Stati Uniti, del 40% dei libri nuovi. Ora, questa piattaforma non è solo un’infrastruttura tecnica che innova il commercio e la comunicazione, restando, secondo il proverbio popolare, neutra, ossia esposta a degli usi saggi o indiscriminati. Amazon, come altre piattaforme importanti del commercio e della comunicazione in rete – perché le due cose, tra l’altro, tendono sempre più spesso a diventare indiscernibili –, contribuisce a modificare in modo radicale l’universo dello scambio culturale. Lo ha ricordato Gherardo Bortolotti, in uno dei saggi più importanti, almeno in Itala, sull’argomento. In Oltre il pubblico. La letteratura e il passaggio alla rete 5, Bortolotti dedica un paragrafo specifico, intitolato La logica culturale dell’user-generated content, al peso massiccio che, nel circuito della comunicazione in rete, acquista non solo la risposta attiva del fruitore dei prodotti culturali, ma la sua autonoma e permanente intraprendenza, sempre a metà tra comunicazione funzionale e espressione individuale. Scrive l’autore: “Gli utenti accedono, in quanto operatori, ad una modalità attiva di partecipazione ai circuiti mediatici e culturali e sono riconosciuti nel loro ruolo di produttori di discorso senza bisogno di alcun meccanismo di selezione. La loro legittimazione è in funzione della semplice connessione alla rete e alle sue piattaforme di produzione e di scambio”. In concreto: una parte di quei 300 milioni di utilizzatori attivi di Amazon, che non comprano solo scarpe o melanzane, ma anche libri, dischi e film, si dedicano, sollecitati dalla stessa piattaforma, all’attività più o meno estemporanea di recensori, ossia producono un flusso ingentissimo di critica letteraria a bassa intensità, che ha però ricadute commerciali, e in definitiva culturali, indubitabili. (Studi sul commercio elettronico hanno ribadito correlazioni esistenti tra opinioni espresse dai fruitori e tendenze di acquisto.)
Naturalmente Bortolotti non si limita a ragionare sul ruolo della critica, ma della letteratura (autori e opere) tout court. Non dimentichiamo, infatti, che oltre al dispositivo delle recensioni esiste quello delle (auto)pubblicazioni. Sempre Amazon offre agli aspiranti scrittori anche un servizio gratuito di pubblicazione digitale, diventando così distributore oltre che editore dei nuovi autori, con la promessa di garantire loro un vasto pubblico. Ma l’esortazione “espressivista”, per utilizzare il concetto formulato dal filosofo Charles Taylor, è insita anche in piattaforme (apparentemente) non commerciali come Facebook, per non parlare, oggi, degli smartphone connessi costantemente alla rete. Le conclusioni, a cui giunge Bortolotti nella sua analisi, pur essendo formulate in un tono neutro e distaccato, sono drastiche. Egli annuncia la semplice sparizione del fenomeno (moderno) della letteratura:
“Il requisito della novità, a cui ancora faceva riferimento il Jameson da cui siamo partiti, per quanto effimero possa diventare come parametro formale richiede comunque la padronanza di un canone e del bagaglio di strumenti teorici e tecnici a cui lo stesso canone fa da supporto. Questa padronanza, quantomeno pratica, a sua volta implica un ruolo, quello dell’artista per intenderci, che la possiede o la dovrebbe possedere tra le proprie competenze. A sua volta, il ruolo dell’artista è il risultato di una differenziazione interna che connota un’implementazione peculiare di ciò che siamo soliti chiamare “cultura” e che, tra le altre cose, prevede il ruolo del pubblico come separato e specializzato nella fruizione degli “oggetti culturali” che gli artisti producono. Se viene a mancare il primo requisito, se ogni parametro formale perde di importanza e conta solo l’accumulo dei contenuti, tutto ciò che vi è collegato, nella logica del sistema a cui appartiene, perde di senso e consistenza.”
Considero l’analisi di Bortolotti dei mutamenti indotti dalle infrastrutture della rete (motori di ricerca, piattaforme commerciali, social-network) estremamente acuta e utile, mentre mi pare che le sue conclusioni pecchino d’ingenuità, per così dire, “antropologica”. Non sono convinto che la crescita di una certa dinamica culturale, in cui i “parametri formali” perdono rilevanza, implichi di per sé la scomparsa di un altro tipo di dinamica culturale, seppure minoritaria, in cui quei parametri invece continuano a funzionare e a essere considerati importanti. Inoltre, e questo lo possiamo verificare noi stessi, a partire dalla nostra esperienza quotidiana, è possibile partecipare simultaneamente, all’interno di una stessa vita, a pratiche culturali diverse se non apertamente contraddittorie. Molti di noi, sia in quanto autori sia in quanto critici, sperimentano un lavoro sulla forma di tipo lento e artigianale, senza per questo rinunciare alla quotidiana disseminazione e liquefazione del senso, attraverso la comunicazione/espressione estemporanea e semi-automatica su piattaforme in rete. Giochiamo simultaneamente due partite, senza per questo che una delle due debba avere definitivamente l’ultima parola. Certo, c’è il rischio che le più giovani generazioni finiscano con il giocare un’unica partita, quella che tende alla produzione indifferenziata. Ma questo avrebbe senso se la minoranza ora custode di certi parametri formali (di certe pratiche artigianali) fosse del tutto incapace di trasmetterli. Ed è su questo punto che, a mio parere, varrebbe la pena di concentrare l’attenzione, una volta acquisita la preziosa analisi di Bortolotti. Per quanto riguarda, poi, il nostro argomento specifico – le comunità d’ascolto che permettono la circolazione e la valorizzazione di un certo tipo di discorso critico –, bisognerà chiedersi in quale modo e in quali luoghi, dentro e fuori la rete, esse mantengono una loro coesione e la capacità di perpetuarsi. Dovremo quindi spostarci immediatamente in un contesto più ampio e complesso, dove diverse pratiche culturali, istituzioni, dinamiche sociali entrano in gioco, senza rimanere limitati alla pur pervasiva realtà della comunicazione in rete. Non è insomma così semplice prevedere l’evolversi di un patrimonio di competenze, connesse in buona parte a privilegi di classe, ma anche a delle istituzioni tendenzialmente egualitarie come la scuola e l’università pubbliche. Se poi spostiamo l’attenzione a livello mondiale, siamo confrontati a dati abbastanza sorprendenti. Una approfondita ricerca sulle abitudini mediali di giovani e adulti realizzata in 30 paesi nel 2005 situa la Tailandia al secondo posto nel mondo sia per il numero di ore di lettura a settimana che per il numero di ore passate al computer, al di fuori dell’attività lavorativa 6. Non solo, ma la Tailandia è anche al primo posto mondiale nel consumo settimanale di televisione. Dal nostro osservatorio europeo, sembra intuitivo concludere che la cultura della rete non possa che crescere a discapito della cultura del libro, e che entrambe, poi, siano in opposizione rispetto alla cultura televisiva.
Conclusione
Sarà sufficiente la nuova, invasiva, logica culturale dell’user-generated content, sollecitata dalla diffusione delle piattaforme informatiche, per dissolvere logiche culturali caratterizzate da “parametri formali” forti, che implicano una perdurante distinzione tra produzione e fruizione, e la sopravvivenza della cultura del libro, con le sue modalità di distanziamento critico nei confronti della realtà? Dare risposte troppo semplici, significa ancora una volta sottostimare la plasticità del soggetto umano, e la sua capacità sia di resistenza sia di riappropriazione inedita rispetto alle abitudini indotte dalle innovazioni tecniche e dagli ambienti tecnologici. Se poi questi processi culturali in atto contribuiranno a dissolvere alcuni miti della letteratura moderna, come la sacralità e la compiutezza dell’opera, il sacerdozio dell’autore, la “naturale” superiorità morale del pubblico competente, tutto ciò non farà che rafforzare una tendenza critica già insita in quella letteratura, e più volte espressa dalle avanguardie nel corso del secolo scorso. Discorso simile, va fatto per la crisi del canone. Le grandi opere del passato sono già “in memoria”, difficile ignorarle tutto a un tratto. Per quelle che verranno, dovremo soprattutto operare affinché ancora esistano delle comunità d’ascolto in grado di accoglierle, valorizzarle, tramandarle, anche al di fuori di ogni crisma di ufficialità e universalità. Tutto ciò corrisponderà ad esigenze e interessi di minoranze, che non troveranno che in se stesse la propria legittimazione. Questo, infatti, costituisce uno dei punti più delicati. Né l’università, come laboratorio a vocazione universalistica delle pratiche culturali, né la contestazione sociale, come laboratorio di classe delle pratiche politiche, stanno entrambe sufficientemente bene, per garantire dall’esterno legittimità a quel tipo di critica. Essa dovrà trovare in sé la propria legittimazione, e fare leva sul proprio corpo provvisorio e fragile, fatto di slanci ed errori, di collocazioni ibride e instabili, cercando di trarsi dalla palude dell’indifferenziato come il Barone di Münchhausen, prendendosi per i capelli.
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NOTE- Franco Fortini, “Critica” in Ventiquattro voci per un dizionario di lettere, Il Saggiatore, Milano, 1998 (1968), p. 163.🡅
- Ibidem🡅
- Su questo punto invito a leggere il fondamentale saggio di Jacques Rancière, Politique de la littérature, Galilée, Paris, 2007, ora disponibile anche in edizione italiana🡅
- Faccio riferimento a Istat, lettori in calo anche del 2014. Ma le donne salvano i libri, apparso su “La Repubblica” il 15 gennaio 2015. “I ‘lettori forti’, vale a dire le persone che leggono in media almeno un libro al mese, sono il 14,3% del totale, una categoria sostanzialmente stabile nel tempo. La crisi della lettura è da attribuire soprattutto a una diminuzione dei ‘lettori deboli’.”🡅
- Il saggio è apparso sul n° 64 (2014) si “Nuova prosa”, ma io mi concentrerò sull’estratto pubblicato in rete sul sito Le parole e le cose (22 dicembre 2014).🡅
- Faccio qui riferimento al NOP World Culture Score(TM) Index, realizzata secondo i modelli delle ricerche di mercato e focalizzata sui “Media Habits” (http://www.prnewswire.com/news-releases/nop-world-culture-scoretm-index-examines-global-media-habits-uncovers-whos-tuning-in-logging-on-and-hitting-the-books-54693752.html).🡅
“ 29 novembre 1995 – Fortini non c’è più / resti tu / e i telefonini. “.
bellina
“ Mercoledì 13 agosto 1997 – Vent’anni fa – sono sempre più di vent’anni – scrissi a Fortini – l’avevo appena conosciuto – una specie di poesia nella quale una specie di verso suonava: « Se uscirai ti aspetto ». Fortini, incoraggiato dalla bruttezza del testo nonché da una sua certa congenita suscettibilità, mi rispose dicendo fra l’altro che quel « Se uscirai ti aspetto » gli suonava come un « Ti aspetto fuori », minaccioso comune modo di dire dei litigiosi anni di scuola. Ma, per rispetto della verità dei fatti, quello che io allora intendevo dire era soltanto che ero stato « fuori », che mi sentivo ancora « fuori », dolorosamente « fuori », da quel « dentro » nel quale avevo appena tentato di tornare: la mia città, la mia casa, la mia famiglia, la mia storia, la letteratura, che era qualcosa che, nonostante tutto, avevo continuato a considerare mia. Poi gli anni sono passati, molti sono restati « fuori » e altrettanti « dentro », molti sono finiti « dentro » e fra questi, in un certo senso, anche io, ma solo dopo aver dovuto andare « fuori » ancora una volta. Cosicché se, da quel « dentro » nel « fuori », da quel « fuori » che è un « dentro » nel quale ora risiedo, dovessi dire qualcosa a qualcuno – non a Fortini perché lui non c’è più: sarà « dentro »? sarà « fuori »? – non saprei bene che dire se non che lo aspetto, da qualche parte, che aspetto, continuo a aspettare. “.
Grazie per la ripubblicazione di questo intervento denso e ricco di spunti. In particolare, quando Andrea Inglese scrive: “Non sono convinto che la crescita di una certa dinamica culturale, in cui i “parametri formali” perdono rilevanza, implichi di per sé la scomparsa di un altro tipo di dinamica culturale, seppure minoritaria, in cui quei parametri invece continuano a funzionare e a essere considerati importanti”, si dichiara (finalmente!) l’esistenza di uno scarto rispetto alla consueta lamentatio sul divario tra lettori forti e deboli, su Amazon, sulle autopubblicazioni, etc. E non mi riferisco al saggio di Bortolotti, ma al marasma della “fine della letteratura” e della “moltiplicazioni delle rivoluzioni antropologiche” che anche qui si affaccia, per poi essere -per fortuna!- ricacciato nell’ombra (dove comunque continua ad agire).
Mi sembra però che sia utile uno scarto ulteriore rispetto a quello che si propone in chiusura: se è opportuno “chiedersi in quale modo e in quali luoghi, dentro e fuori la rete, [le comunità di ascolto] mantengono una loro coesione e la capacità di perpetuarsi”, la strada non può passare per lo stile Muenchhausen – pensando, cioè, di restituire alla critica un’autolegittimazione interna, cosa che può portare verso luoghi molto lontani dall’iniziale (e ancora resistentissima!) posizione fortiniana, e questo soltanto perchè l’università e i laboratori di contestazione non funzionano più a dovere (non si spiega perché, tra l’altro, per questioni, immagino, di spazio…). Ma queste dinamiche hanno mai funzionato “a dovere”? No: “a dovere”, no… Ma esistono ancora, e tra i loro risultati migliori sta proprio la consapevolezza di partire da una posizione minoritaria e, senza cedere all’elitarismo, provare a ripensare, o trasformare, una -seppur frammentata, temporanea e dispersa (almeno tanto quanto è in rete) – posizione, più che funzione, intellettuale.
Caro Lorenzo non ho potuto approfondire molte cose, sia rispetto al ricco e iper-denso saggio di Gherardo Bortolotti, neppure rispetto alla questione università e lotte sociali. L’università sta perdendo in parte una sua legittimità, per come è sotto attacco dal punto di vista dei modelli di gestione aziendale e per lo strozzamento enorme che si è verificato da un punto di vista professionale. Questo la rende un punto di riferimento meno solido e indiscutibile rispetto al passato. Più in generale, gli studi umanistici sono sotto attacco un po’ dappertutto. La contestazione sociale sta male da vari decenni, e cio’ è legato al destino innanzitutto dei grandi partiti operai occidentali del dopo 1989, e alle nuove forme di organizzazione del lavoro, ecc.
Aggiungo una cosa: minoranze e élites sono due termini che non sono lontanamente equivalenti. L’élite si propone come detentrice di un bene scarso (nobiltà dello spirito, ecc.), una minoranza si propone eventualmente come detentrice di una competenza che potrebbe essere alla portata di tutti, ma che solo alcuni decidono di coltivare e sviluppare (mettiamo: la capacità di lettura e rilettura lenta)
Mi sembra che questo intervento di Andrea Inglese abbia il merito di fare il punto sulla situazione e rimetta un po’ le cose con i piedi per terra, anche se si conclude con il Barone di Münchhausen…. la critica, se vogliamo usare ancora questa parola, ma potremmo anche dire l’ermeneutica del contemporaneo, assume il compito di creare lo spazio per la percezione del testo. Questo vale in modo nuovo e inaspettato, ogni volta, nella relazione con lo scritto; non è una cosa possibile, essa è una condizione necessaria. Non possiamo pensare che le lettere restino mute, o che finiscano, proprio perché non siamo noi a dargli parola, lo fa il tempo al nostro posto. In qualche modo parleranno.
Si Vincenzo, ma parleranno a chi saprà ascltarle, fuori da uno spazio di ascolto, fuori da una comunità ermeneutica – come dici tu giustamente – non ci sono che testi silenziosi.
Questo è logico, ma anche la previsione di una comunità senza parola è in un certo senso una prospettiva ideologica, o meglio fuori dalla realtà dei fatti. Se si discute in base a condizioni proprie dell’umano come lettore, nel senso ampio, lo sforzo interpretativo, di traduzione dei fenomeni letterari è cosa costitutiva.
Perché pensi a “una comunità senza parola”, Vincenzo? Non mi sembra di aver sostenuto un’idea tale, anche perché – son ben d’accordo – non avrebbe interesse una comunità che ascolta senza interpretare. Il punto qui è la comunità di ascolto per persone che svolgono un certo tipo d’interpretazione (quella che chiamo “critica progressista”) dei testi. Quello che muta secondo me sono le coordinate sociali di legittimazione di questa comunità d’interpretanti-lettori, oltre che le nuove pratiche che già si sono affiancate alle precedenti, e che non si conformano alla realtà del libro.
Mi riferivo a poetiche e visioni del mondo che alludono ad una perdita di spazio per l’ascolto della parola, non certo alla tua lettura, che, come ho scritto, mi sembra per niente deterministica o apocalittica. Mi permetto di copiare qui il link ad un mio breve intervento su questa questione comparso proprio su NI.
https://www.nazioneindiana.com/2014/12/11/considerazioni-circa-una-poetica-della-relazione/
“ 4 aprile 1994 – « Gli Hypomnemata potevano essere, in senso tecnico, dei libri di conto, dei registri pubblici, dei diari individuali usati come promemoria. Il loro impiego come libro di vita, guida di condotta, sembra essere divenuto cosa corrente in tutto un pubblico colto. Vi si annotavano delle citazioni, dei frammenti di opere, degli esempi e delle azioni di cui si era stati testimoni o dei quali si era letto il racconto, delle riflessioni o dei ragionamenti uditi o venuti allo spirito. Costituivano una memoria materiale delle cose lette, sentite o pensate; essi le offrivano, come un tesoro accumulato, alla rilettura e alla meditazione ulteriore. Formavano anche una materia prima per la stesura di trattati più sistematici, nei quali venivano forniti gli argomenti e i mezzi per lottare contro il tal vizio (come la collera, l’invidia, la chiacchiera, la lusinga) o per superare la tal circostanza difficile (un lutto, un esilio, la rovina, la sventura). » (Michel Foucault, La scrittura di sé, in «Aut aut», 195/196, 1983) “.
“ 11 giugno 1985 – « Si sa che la nascita del cinema ha modificato lo statuto della letteratura appropriandosi di certe sue funzioni ma anche prestandole alcuni dei suoi mezzi. Una trasformazione che evidentemente è soltanto agli inizi. Come sopravviverà la letteratura allo sviluppo degli altri mezzi di comunicazione? Noi non crediamo più, come si è fatto da Aristotele a La Harpe, che l’arte sia un’imitazione della natura, e là dove i classici vedevano innanzitutto una bella somiglianza noi cerchiamo invece una originalità radicale e una creazione assoluta. Il giorno che il libro avrà cessato di essere il principale veicolo del sapere, la letteratura avrà forse di nuovo cambiato di significato. Può darsi che noi stiamo semplicemente vivendo gli ultimi giorni del libro. Questa avventura in via di svolgimento dovrebbe renderci più attenti agli episodi passati: non possiamo continuare a parlare all’infinito della letteratura come se la sua esistenza fosse scontata, come se i suoi rapporti col mondo e con gli uomini non fossero mai mutati. Ci manca ad esempio una storia della lettura. Storia intellettuale, sociale e persino fisica. Se crediamo a Sant’Agostino, il suo maestro Ambrogio sarebbe stato il primo uomo dell’antichità a leggere con gli occhi, senza articolare il testo ad alta voce. La vera storia è fatta di questi grandi momenti silenziosi. E il valore di un metodo sta forse nella sua attitudine a scoprire, sotto ogni silenzio, un interrogativo. » (Gerard Genette, Strutturalismo e critica letteraria in Situations I, 1966) “.
Grazie Adriano delle citazioni. Quest’ultima poi mi sembra decisiva e particolarmente pertinente per la questione che ho tentato di abbordare.
Un pezzo d’opinione interessante, ricco di spunti, ma non sempre di facile comprensione ;-)
Se capisco correttamente, l’idea di critica cui lei si riferisce ha come scopo il mettere in evidenza le relazioni (a più livelli) che sussistono tra opera e “mondo”, che qui indica un contesto sociale e storico. Ma il contesto di chi? Dell’autore, dell’opera alla sua pubblicazione, del critico, del pubblico cui si rivolge il critico?
Nel suo pezzo si parla poco dopo della necessità di un patto tra critica ed il suo uditorio, patto che sancisce la condivisione di tre presupposti, che qui riporto:
grazie nicola per le domande impegnative; ci provo essendo succinto.
Il rapporto tra opera e mondo è il critico a evidenziarlo a partire dal contesto ovviamente in cui lui si trova come lettore.
Nel mio pezzo, quel patto è implicito, e l’ho espliciatato in un pezzo che verteva non sulle opere ma sul lavoro specifico del critico.
La condivisione è necessaria solo per la critica che in qualche modo è anche interessata al rapporto tra letteratura e ideologia, e più in generale a una possibilità di una critica dell’ideologia. Qui non si tratta di predicare ai convertiti, ma di fare dell’esegesi a partire da alcuni presupposti comuni su testi ogni volta nuovi.
Grazie per la risposta.