Le lettere e il volgare
di Giorgio Mascitelli
La lettera dei 600 docenti universitari al governo sulla crisi della conoscenza dell’italiano nelle giovani generazioni apparsa nelle scorse settimane ha avuto il merito indubbio di porre l’attenzione generale sul problema delle competenze linguistiche nazionali, argomento che di solito non occupa esattamente la prima pagina dei giornali; anzi tradizionalmente questioni del genere sulla stampa vengono affrontate a ridosso di ferragosto quando tutti sono in vacanza e le redazioni sono più libere nella scelta dei temi. Fatto il doveroso tributo al merito di aver debalnearizzato una questione cruciale, penso che proprio per la sua rilevanza il dibattito vada liberato da tutta un’aura moralisticheggiante.
Con questo non alludo soltanto alla lettera dei professori che quanto meno fanno proposte operative, ma a una certa ricezione dell’opinione pubblica. Per dirla tutta, se si vuole una scolarità di massa anche a livelli superiori, cosa a mio avviso auspicabile se non altro perché l’alternativa sarebbe allontanare precocemente dalla scuola chi ne ha più necessità, bisogna anche sapere accettare che alcune competenze siano più precarie: quando all’università tutti scrivevano senza errori, la frequenza a quella venerabile istituzione non era esattamente un fenomeno di massa. Ciò non significa che non si possa far nulla, ma che le proposte debbano tenere conto del contesto storico in cui viviamo.
Per restare alla lettera dei 600, può essere utile ridare alle elementari qualche spazio in più all’educazione linguistica rispetto a quello previsto dai nuovi programmi, mentre l’idea di spedire come presidente di commissione per gli esami conclusivi dei vari ordini di scuola un docente dell’ordine superiore mi sembra più essere l’espressione di una fiducia metafisica nella gerarchia che avere un’effettiva funzione nella risoluzione dei problemi sollevati.
In generale, tuttavia, gli errori più spettacolari nell’uso della lingua, quelli ortografici o certi sintattici come per esempio l’uso dell’indicativo al posto del congiuntivo, quelli che in qualche modo tutti riconoscono, salvo i diretti interessati, e hanno un’eco giornalistica e social, non sono necessariamente i più pericolosi per una fruizione piena e autonoma dell’italiano. La povertà lessicale, l’incertezza sulle varie sfumature semantiche della parola e, a livello più alto, l’incomprensione di certi meccanismi retorici del linguaggio quotidiano e l’inconsapevolezza degli aspetti connotativi ed emotivi della comunicazione costituiscono il più serio pericolo in questo senso. Ora per acquisire e sviluppare questo tipo di conoscenze e competenze a scuola, non è importante solo un’attività didattica specifica, ma offrire una serie di stimoli culturali che ne consentano l’apprendimento e l’applicazione spontaneamente. In questo senso la tendenza dominante negli ultimi anni, di cui le prove INVALSI e PISA sono le punte di diamante, a considerare la capacità e la preparazione linguistica una facoltà in sé completamente scissa da un processo di acquisizione culturale pare assolutamente inadeguata a prevenire queste forme di insufficiente capacità linguistica. Un esempio dei rischi di questa impostazione ce l’ha offerto Girolamo De Michele (http://www.carmillaonline.com/2012/05/08/salvate-il-soldato-rigoni-stern/) analizzando un brano tratto da un racconto di Rigoni Stern e impiegato per le prove INVALSI alle superiori, in cui il tentativo di valutare il testo avulso dal suo contesto storicoculturale specifico come strumento di riconoscimento di una pura competenza linguistica conduceva gli autori della prova stessa, nel formulare le domande, a commettere errori anche marchiani.
L’educazione linguistica, specie nel ciclo delle scuole medie inferiori e superiori, è in qualche misura in mano non solo ai docenti di italiano, ma anche agli altri; penso per esempio al ruolo degli insegnanti di materie scientifiche nella definizione rigorosa dei concetti chiave delle loro discipline e, soprattutto, nell’evidenziare come termini d’uso nella lingua comune assumano significati particolari in determinati ambiti. Ovviamente il peso maggiore di questo lavoro spetta comunque a quelli di materie letterarie ed è allora importante seguire il suggerimento di Rossi Doria, che propone di inserire nel curriculum universitario per accedere all’insegnamento un esame di grammatica e uno di linguistica; inoltre la conoscenza basilare della lingua latina ( essere in grado di fare traduzioni di media difficoltà) e di almeno una lingua straniera è un elemento imprescindibile nella formazione di un docente di italiano di tutto il ciclo medio; bisognerebbe anche favorire e valorizzare nel periodo universitario e in quello di apprendistato esperienze, anche brevi, di insegnamento dell’italiano a stranieri.
Nei dibattiti seguiti alla pubblicazione della lettera dei 600 molti hanno citato il fatto che in Italia il 70% della popolazione sarebbe costituita da analfabeti funzionali, un paio di volte qualcuno addirittura è arrivato a parlare di analfabeti tout court. Credo che l’origine di questi dati sia determinato dal rapporto PIAAC, un’indagine internazionale del 2013 sul livello di uso nella popolazione adulta dei paesi OCSE della lingua, delle competenze matematiche e di altre ancora, per accostarsi alle informazioni e usarle efficacemente ‘al fine di partecipare in modo efficace nella società’. Caratteristica di questa indagine è di suddividere in sei fasce la popolazione cosicché ‘gli individui sono considerati abili, in maggiore o minor misura nella competenza in questione, invece di essere o solo “abili” o “solo non abili”. In altre parole, non esiste una soglia che separa coloro che hanno la competenza in questione da quelli che non l’hanno’ ( Rapporto Nazionale PIAAC 2014 p.23). La fascia inferiore al livello 1 è quella ai limiti dell’analfabetismo, la 4 e 5 rappresentano la piena padronanza, la fascia 3 è quella che indica il raggiungimento di competenze considerate fondamentali per gli obiettivi sopra esposti. Ora in Italia il 70% della popolazione raggiunge la fascia 2 o quelle inferiori, mentre in paesi come la Germania è il 52% e in Danimarca il 50% e la media OCSE è del 49%. Questo significa che il campione italiano, selezionato al 53% tra persone prive del diploma di scuola superiore, non ha problemi di analfabetismo, ma di insufficienti abilità complesse, che diventano nella società moderna fondamentali. Preciso questo fatto perché un certo gusto per il sensazionalismo pregiudica la comprensione del problema.
Questa ricerca offre anche un altro dato significativo e cioè che le prestazioni migliori sono quelle della fasce di età più giovani: sembra di capire, aldilà dei pur comprensibili fattori biologici e storici, che man mano che ci si allontana dal periodo scolastico queste abilità diminuiscono. E’ chiaro che il tipo di esperienza sociale, sia nel mondo lavorativo sia nei consumi culturali, di molti connazionali non favorisce il mantenimento e lo sviluppo delle abilità raggiunte nel periodo scolastico. Tra le ragioni, verosimilmente, una struttura produttiva e quindi occupazionale incentrata su attività poco qualificate o tradizionali che non abbisognano di particolari abilità complesse e dunque poco stimolanti su questo piano e e un modello di consumi culturali in cui la televisione continua a fare la parte del leone, affiancata di recente dagli smartphone che rendono difficile la lettura in rete di testi minimamente complessi. In particolare l’avvento della televisione commerciale ha cancellato qualsiasi funzione educativa di questo medium, che in qualche misura aveva avuto nella prima fase della sua esistenza ( si pensi a trasmissioni come Non è mai troppo tardi), e ha promosso un italiano sciatto e al tempo stesso stereotipato, privo cioè di quell’inventiva che la vecchia lingua popolare ancora intrisa di dialetto talvolta aveva.
In questo contesto è evidente che la scuola si trova a operare in condizioni di sostanziale assenza di altre agenzie formative che possano condividerne gli sforzi e anzi ha di fronte un assetto sociale che va in tutt’altra direzione. Così la questione dell’italiano diventa la questione italiana ossia di un paese, che pur avendo potenzialità enormi, coltiva quasi programmaticamente un’obsolescenza e un arretramento delle proprie forme di vita, ivi comprese anche quelle del settore produttivo. In tutto ciò la saggezza di Bertoldo dei nostri ceti dirigenti, intesi non solo come politici ma anche come imprenditori, banchieri e tecnici, secondo la quale con la cultura non si mangia, gioca un ruolo non secondario.
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caro Giorgio, apprezzo molto e aggiungo, parzialmente ma non totalmente fuori tema, che nelle nostre facoltà universitarie di tipo cosiddetto “umanistico” io renderei obbligatorio un esame di cultura scientifica di base, per evitare non solo e non tanto gli svarioni alla Gelmini, ma quelle frasi che così spesso si sentono dire “oh, io non ho mai capito niente di matematica” o simili, talvolta come un vezzo falsamente umile.
Sono d’accordo, Antonello, a patto che non finisca gestita dagli economisti o dagli ‘psicologi scientifici’ o dai sociologi quantitativi
I NUMERI – LE LETTERE E IL VOLGARE … e il populismo che trionferà!
Un bel titolo per un intervento, attento e dettagliato. Ma, tra il quadro dei dati e il “volgare” che sopravanza sulle “lettere”, solo alla fine affiora una ipotesi (fondata e di lunga durata) sul fenomeno in corso: “la questione dell’italiano – dici bene – diventa la questione italiana ossia di un paese, che pur avendo potenzialità enormi, coltiva quasi programmaticamente un’obsolescenza e un arretramento delle proprie forme di vita, ivi comprese anche quelle del settore produttivo”.
Da qui ripartire per analizzare,riflettere,cercare di capire,e intervenire.
Il resto solo palliativi.
Il processo di “ristrutturazione” è gigantesco (e ormai non più e non solo nazionale) e l’atmosfera è cupa: l’“usato sole”(“l’italiano”) è tramontato e di un nuovo sole (un nuovo “volgare”) non si vedono tracce da nessuna parte.
Paradossalmente, e fondamentalmente, nel “non ho mai capito niente di matematica”, è enunciato il problema e la soluzione!
BISOGNA IMPARARE A CONTARE. A contare non sappiamo ancora (mi sia lecito, cfr., note in coda allo “speciale matematica e realtà” di Alfabeta2: https://www.alfabeta2.it/2017/02/18/speciale-matematica-realta/)!
E poco, pochissimo, quasi nulla sappiamo della contabilità e della “leggibilità del mondo” (qualche indicazione da Hans Blumenberg: “Uscite dalla caverna”! … http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4054)!
IMPARARE A CONTARE significa non solo aver il coraggio di servirsi della propria intelligenza, ma anche, e nello stesso tempo, di fare esercizio della propria “sovra(u)nità”.
D’altra parte, se noi stessi e noi stesse non contiamo nulla, come potremmo saper contare?!
Di che cosa parlano i 600 docenti universitari?!
Di cosa parliamo “noi”?!
Non sarebbe meglio interrompere il “gioco” e uscire da questo stadio e “stato di minorità”!?
O vogliamo andare ancora AVANTI… cantando IL POPULISMO TRIONFERÀ!? E restare nella caverna del nostro “ciclopico” Platone di turno?!
Federico La Sala
In buonissima parte tutto parte dalla scuola. Ridotta piú o meno a un parcheggio. Non é un caso che nessuno dalla Dc al Pci e via via abbia saputo, voluto metter mano al problema. Eppure basterebbe pochissimo a ribaltare la situation…..La ‘materia prima’ sono i ragazzi…digli poco! I ragazzi risponderebbero eccome qualora……Voti? NON SERVONO. le materie cosi spezzettate, predigerite….NON SERVONO. Le cosiddette nozioni? C’é lo smartphone…Quindi il nozionismo non serve.
Alcuni punti della analisi mi paiono un po’ fuori fuoco: parlare di competenze richieste di grammatica o di latino per chi debba insegnare, in un momento in cui la formazione dei docenti è un punto che avrebbe bisogno di una riscrittura completa; o di potere della televisione, un media morente dal quale non ci si può aspettare più nulla (lo spostamento in atto è verso lo streaming digitale), ecco, mi pare che manchino il bersaglio.
I numeri attuali dicono ancora televisione, se tra 10 o 20 anni diranno streaming digitale, ammesso e non concesso che i suoi contenuti saranno radicalmente differenti da quelli televisivi,si rivedrà l’analisi. Non faccio il futurologo. Le competenze per insegnare a comprendere e usare l’italiano a un livello non elementare sono quelle elencate qui sopra. Se poi si pensa che la scuola non debba più insegnare questo, ma altre competenze magari di tipo informatico, basta assumersene la responsabilità senza troppe fumisterie del tipo rifondazione della professione docente.
Molto piú semplice…..e profondo. La partenza é…un rapporto paritario fra insegnante e ragazzi. Un pó di tempo (da una parte e dall’altra) per dismettere i vecchi abiti e per mettere a fuoco la….nuova dimensione. Una nuova dimensione nella quale entrambi i gruppi (insegnanti e ragazzi) sono partecipi e attori. Una fonte inesauribile di scoperte….Provare per credere.
…fumisterie tipo rifondazione della professione docente…
Ne vedremo delle belle…..
E se invece si tratta semplicemente del fatto che stiamo valutando, con strumenti superati, una sistuazione linguistica ancora in via di definizione? Perchè invece che valutare un saggio breve, che nessuno scrive se non costretto, non valutiamo la struttura e il linguaggio di un blog? O anche di una mail? O di un post?
Le abilità richieste per scrivere e leggere non dipendono dal medium usato, in altri termini per scrivere e comprendere un post di nazione indiana occorrono le stesse abilità che servivano per compiere le stesse operazioni per un saggio breve su carta stampata. Quindi i metodi per acquisirle sono sempre gli stessi. Se invece, con la scusa dei nuovi media, si vuole rinunciare a operare sulla complessità nell’approccio al testo, questo produrrà una nuovo ondata di analfabetismo anche perché purtroppo per alzare il livello ci volgiono decenni di fatica e per abbassarlo bastano poche mosse azzeccate. Penso peraltro che questo succederà perché è un’idea popolare perfettamente funzionale alla politica di deculturazione promossa dalle élite