waybackmachine #02 Antonio Moresco “Le cavallette”

A partire da oggi, ogni domenica, noi redattori di Nazione Indiana ripubblicheremo testi apparsi nel passato, scritti o pubblicati da indiani o ex-indiani, e che ci sembra possano dirci ancora qualcosa dell’attuale : che ancora ci parlano, ancora aprono interstizi tra le maglie del presente, ancora muovono la riflessione. L’archivio è vasto: cominciamo a sfogliarlo.

23 marzo 2003

ANTONIO MORESCO “Le cavallette

Capita ogni tanto, nella letteratura come nella vita, di imbattersi in semplici frasi, scritte o orali, riflessioni e immagini di tale radicalità e umanità che ci danno l’immediata sensazione di trovarci di fronte a qualcosa di lungamente meditato e sofferto, che va subito all’osso, che ci dice come stanno veramente le cose, direttamente, senza mediazioni, senza fronzoli.

Può succedere per strada, mentre siamo dal panettiere o stiamo seduti con una lattina di birra in mano sul gradino di una chiesa, oppure mentre leggiamo Shakespeare, oppure Cervantes, Melville, oppure, per esempio, Dopo il ballo di Tolstoj, scrittore elementare e profondo del vostro grande paese, attraversato così dolorosamente e da parte a parte, nel secolo appena trascorso, dalle illusioni della modernità, che io amo in modo particolare e che ha significato così tanto per me, di cui fin da ragazzo ho amato sopra ogni altra la grande letteratura come se fosse la mia stessa patria e la mia stessa vita, quando l’ho incontrata per la prima volta nella mia adolescenza, in una piccola città italiana di nome Mantova.
L’immagine da cui voglio partire per questa piccola riflessione l’ho trovata in Leopardi, un grande poeta e pensatore italiano capace di dire cose scomode e vere.
“Ognuno di noi” dice Leopardi “da che viene al mondo, è come uno che si corica in un letto duro e disagiato: dove subito posto, sentendosi stare incomodamene, comincia a rivolgersi sull’uno e sull’altro fianco, e mutar luogo e giacitura a ogni poco; e dura così tutta la notte, sempre sperando di poter prendere alla fine un poco di sonno, e alcune volte credendo essere sul punto di addormentarsi; finché venuta l’ora, senza essersi mai riposato, si leva.”
Poiché mi era capitato di imbattermi in questa riflessione – contenuta nelle Operette morali – dopo la lettura della Divina commedia, mi era parsa immediatamente come la desolata risposta alla disperazione di Dante per le vicende politiche della Firenze del suo tempo, in cui egli stesso si era trovato profondamente coinvolto, con quelle continue guerre e sopraffazioni tra guelfi e ghibellini. Come se lo stesso microcosmo politico della città fosse simile a quell’uomo che si gira continuamente nel letto da un fianco all’altro nel tentativo di trovare un po’ di sollievo. Questi due momenti, nonostante siano divisi tra di essi da cinque secoli, si sono così immediatamente legati dentro di me che ho addirittura creduto per molto che questa immagine dell’uomo che non smette mai di girarsi si trovasse direttamente in Dante, riferita a un uomo coperto di ferite e di piaghe che cerca, girandosi, di alleviare almeno per un po’ la sua sofferenza, e che questa fosse la sua riflessione finale dopo tutto il tormento per le sorti della sua città. Solo adesso, che ho dovuto fare una verifica prima di scrivere questa piccola cosa, ho scoperto che questa immagine in Dante non c’è. Io perlomeno non l’ho trovata. Eppure ancora, nonostante questo, mi sembra che si debba trovare per forza in Dante, che si annidi in qualche punto segreto del suo poema, anche se invisibile agli occhi di tutti.

Cosa c’entra tutto ciò col tema di questo incontro su quella cosa che è stata chiamata modernità? A me pare che c’entri molto. E che c’entri tanto più adesso, in un momento in cui pare di essere arrivati al culmine e all’implosione di tutte le illusioni che hanno caratterizzato la modernità, che si sono rovesciate nella mancanza di illusioni della postodernità. Ma non è vero che nessuno ci aveva detto come stavano veramente le cose. Qualcuno, più d’uno, ce l’aveva detto da tempo. Ma non sono stati ascoltati. Non volevamo ascoltarli, forse non potevamo ascoltarli. Tutta la massa di illusioni e utopie politiche, artistiche, scientifiche e spirituali che si sono generate nella cosiddetta modernità sembrano arrivate al capolinea, sono finite nel vicolo cieco postomoderno della ideologia – camuffata da antideologia terminale – della comunicazione generale nell’universo reticolare imploso e del labirinto, con la sua falsa immobilità generata per rovesciamento dal falso movimento della modernità. Che maschera, dietro la demagogia sull’apertura a 360°, la realtà di una crescente chiusura di ogni spazio, tragica in termini umani, politici, geopolitici e persino di prospettiva di specie. Come l’ideologia di ogni altra struttura di potenza che l’ha preceduta, anche quella attualmente dominante ama autodescrivere il proprio dominio come quadro ultimo, insuperabile, elabora proprie ideologie funzionali (fine della storia, orizzontalità, interscambiabilità, superfici come unica dimensione possibile e altre descrizioni della vita e del mondo che – introiettate – sono funzionali al controllo delle vaste masse umane allevate di questa epoca). Per esorcizzare il fatto che, come ogni altra che l’ha preceduta, anche questa sarà a sua volta macinata nel frantoio della vita e del tempo, quando l’uomo insonne – o ricoperto di piaghe – si girerà dall’altra parte nel suo scomodo letto. Fino a che tutto questo verrà oltrepassato da altre forme e strutture di dominio con i soliti terribili e prolungati schianti attraverso i quali è crollato ogni altro impero, il tutto drammatizzato oggi dall’enorme numero di individui umani che popolano il pianeta e dalla devastante potenza distruttiva di cui sono adesso in possesso.
E’ così fin dall’inizio. Continui rovesciamenti politici, militari. Atene e Sparta che si alleano contro i persiani e che poi, sconfitto Serse, riprendono a farsi la guerra tra di loro fino a distruggersi e ad aprire la strada all’impero macedone. Nel secolo appena trascorso Stati Uniti e Unione Sovietica che si alleano contro il nazifascismo e poi, sconfitto questo, riprendono a farsi la guerra tra di loro. E così mille altre volte, nel corso del tempo. Ora tutto il movimento o l’illusione del movimento che sembrava caratterizzare la modernità appare deflagrato e depotenziato nel falso movimento della dimensione economica, finanziaria, tecnologica e pubblicitaria dispiegata. Mentre chi si presenta come antagonista appare il più delle volte imprigionato dentro la stessa logica e lo stesso schema, in un gioco minoritario e gregario che non può che alimentare sempre più lo stesso tipo di dominio che proclama di voler combattere. L’illusione del “progresso” si è rovesciata in una labirintica interscambiabilità totalizzante e diffusa, nell’immobilità della pozzanghera sovraffollata di miriadi di minuscole larve in movimento inerte e impazzito, con le loro traiettorie abrasive. L’illusione della “democrazia”, con tutta la sua enfasi iniziale sull’ apertura di possibilità in ogni campo, si sta bloccando in una morsa totalitaria di tipo nuovo, economica, tecnologica e militare, si sta rovesciando nel controllo planetario di masse sterminate di uomini che devono e possono soltanto consumare e moltiplicare ricchezze finanziarie altrui, che si spostano come nuvole di cavallette su ciò che resta del tessuto umano e vivente su questo piccolo pianeta abitato. Enormi possessori o collettori di ricchezze ed élite enormemente arricchite dal gioco circolare ed autoreferenziale economico, tecnologico e militare che possono comperare letteralmente – attraverso il meccanismo pubblicitario del condizionamento mediatico e il possesso e il controllo di esso – le strutture di governo di interi paesi, senza neppure più le labili mediazioni politiche del passato. Un gioco sempre più chiuso per il possesso delle risorse energetiche e ora anche genetiche e riproduttive, in una situazione in cui il rapporto della nostra razza con l’unico pianeta di cui disponiamo – portata avanti con impressionante cecità di specie – sta arrivando al punto di non ritorno. Questa macchina composita di dominio planetario, per proprie logiche interne, sta portando al collasso il nostro rapporto e il destino stesso della nostra specie su questo piccolo, sperduto pianeta che ruota nel silenzio e nel buio cosmico. Ci capita quasi ogni giorno di leggere sui giornali articoli di esperti che dibattono tra di loro sui recenti allarmi lanciati sulla situazione del nostro rapporto con il pianeta. Dove la cosa impressionante è che la natura del loro contendere non è se questo quadro allarmante sia realistico o no, ma se ci vorranno cinquant’anni oppure cento perché si arrivi al collasso. Di fronte a notizie e prospettive simili, di tale rilevanza di specie, dovrebbe succedere qualcosa di enorme nella mente dei singoli uomini, dei popoli e di chi li governa. Invece tutto pare continuare come se niente fosse, chi detiene il potere si guarda bene dal mettere in discussione la struttura di dominio di cui è espressione, le grandi masse allevate non escono dalla loro narcosi, in un’assuefazione generale con la catastrofe di specie che pare sempre più un aspetto caratterizzante di questa epoca e che mette i brividi.

Ma non voglio dare un’idea troppo cupa della nostra situazione e del nostro futuro. Come se i giochi fossero ormai fatti e il treno deragliato non potesse che correre ormai verso il precipizio. Può sempre succedere qualcosa di inaspettato, di imprevedibile. A patto che non si chiudano gli occhi su come stanno veramente le cose. Nascono qua e là embrioni di consapevolezza e gruppi umani che paiono avere coscienza della situazione e aspettative nei confronti della vita e del mondo e che sembrano aver capito che non si può giocare più nulla dentro il solito vecchio schema del rovesciamento antagonistico speculare dentro lo stesso gioco, che bisogna inventare qualcosa di completamente diverso per cercare di uscire da questa impasse epocale e che questo sarà il compito del futuro.

Allora proviamo a immaginare che il nostro uomo insonne – o ferito – col quale abbiamo cominciato, nel suo continuo girarsi da un fianco all’altro non stia sempre sveglio, ma che riesca di tanto in tanto ad addormentarsi, e che in questi brevi sonni riesca a fare addirittura dei piccoli sogni. Ma sì, facciamolo sognare un po’! Che cosa potrà sognare? Non uno di quei sogni dove gli uomini sono tutti buoni e vivono in armonia con la natura, gli altri e se stessi ecc… ecc… direi. Perché anche i sogni ne hanno ormai abbastanza dei sogni. Allora, vediamo. Che cosa potrebbe sognare? Ecco, facciamogli sognare che sta vivendo da qualche parte sotto la crosta terrestre, perché tutta la superficie del pianeta è spazzata da ondate immense di cavallette d’acciaio, generate da combinazioni genetiche sfuggite a ogni controllo, che passano divorando ogni cosa e oscurano il cielo. E’ tutto freddo, spurgano da sotto terra miasmi tossici generati da scarichi e odori fisiologici, prodotti da masse umane che sono riuscite a fuggire dalla superficie e ad ammassarsi nelle zone cave che si aprono sotto la linea dell’orizzonte, scantinati, rifugi antiaerei, metropolitane, altri spazi scavati con le unghie e coi denti per sfuggire alle nubi di cavallette che cercano di infiltrarsi anche sotto terra attraverso le griglie, i condotti.
“Ma come fanno a vivere là sotto tutte quelle persone se, sopra, ogni cosa viene divorata e distrutta?” ci chiederà qualcuno “Come fanno ad alimentarsi di cibo, elettricità, per mandare avanti le strutture sotterranee in cui vivono?”
“Non ne ho la più pallida idea! Il sogno non spiega. E’ così.”
Vengono ogni tanto da fuori, amplificati dalle cavità sotterranee, i rumori della devastazione che sta avvenendo sopra la linea dell’orizzonte. Si sentono, in un unico terrificante boato, i rumori metallici di miriadi di organismi viventi e di oggetti che si fracassano sotto l’urto sincronizzato delle masticazioni. Prima le cose tenere che si gonfiano sul filo della terra, frutti aerei, forme vegetali, coltivazioni umane, animali di carne che si spostano sulle strade delle città, uccelli ricoperti di piume. Li aggrediscono in volo, divorano le uova ancora all’interno dei loro corpi, mentre continuano a spostarsi ancora per un po’ nello spazio serrati nella capsula luccicante di mille e mille corpi metallici che li masticano in volo e poi passano ad altro. Le masse nere del fogliame notturno, la polpa fibrosa dei tronchi. Trapanano la corteccia, entrano fin nelle loro zone più segrete e concentriche. Divorano uomini e donne che sono rimasti all’esterno, sul filo delle strade o serrati nelle loro case e nei loro palazzi. Si sentono enormemente amplificati i rumori delle loro teste che esplodono. Le scatole craniche dei governanti e dei padroni del mondo scoppiano sotto l’urto di miriadi di mandibole d’acciaio che si conficcano nelle masse molli della loro materia cerebrale da tempo disattivata. Assalgono i malati distesi nei loro letti, negli ospedali, ancora attaccati alle fleboclisi, spolpano in pochi istanti i cadaveri congelati negli obitori. Si gettano contro le nubi, le divorano, le masticano, le fanno a pezzi. Cominciano ad attaccare le case, i palazzi. Si gettano dentro i contenitori delle immondizie, del vetro, conficcano i loro denti d’acciaio nei rifiuti umidi, fracassano le bottiglie. Aggrediscono le strutture portanti delle case di fango, di cemento, di metallo, di vetro, le antenne paraboliche delle televisioni sui tetti, i centri spaziali. Cominciano ad aggredire le superfici dei grattacieli, che oppongono resistenza per un po’, coi contorni tutti masticati contro la luce. Si avventano all’interno, nel loro midollo: ascensori, uffici, impianti elettrici che crepitano emettendo folgori, nel cozzo spaventoso di miriadi di teste metalliche che si scontrano avventandosi tutte assieme e da ogni parte contro le strutture degli ultimi grattacieli ancora in piedi, nel bagliore accecante sprigionato dai loro gusci sterminati che avanzano a testuggine nello spazio. Aggrediscono le auto abbandonate nelle vie, il manto stradale, i ponti sospesi, intaccando i grandi cavi d’acciaio che li tengono sollevati nell’aria. Li si sentono anche da lontano precipitare nei fiumi, nei mari, pieni di resti di masticazioni di navi che galleggiano semiaffondate. Masticano tutto ciò che resta di emerso delle grandi città costiere, si tuffano sotto il pelo dell’acqua per masticarne là sotto le fondamenta, i grandi pesci gonfiati da immondizie e escrementi, li sollevano fuori dall’acqua continuando a masticarli in volo, smembrati. Vanno a snidare i carnai in putrefazione nei cimiteri, gettandosi con stridori e cozzi elettrici contro le forme molli in disfacimento sotto il velo di terra. Si levano di nuovo in volo con le bocche ancora bagnate, le antenne sporche di liquami, lordate. Le grandi città crollano, i mari e gli oceani ribollono per l’agonia delle miriadi di corpi torturati e smembrati. Tutto il cielo è pieno di clangori e di grida e di corpi alati che volano ancora per un po’ semimasticati.
Cosa sta facendo intanto il nostro sognatore? Si sposta nei cunicoli della metropolitana, dopo essersi rifugiato là sotto assieme alle fiumane di gente terrorizzata che si è asserragliata nelle viscere della terra per sfuggire al flagello. Non sa da quanto tempo si trova lì. Non sa nulla, non ricorda nulla. Neppure il suo nome. Non ha padre, né madre. Devono essere stati divorati anche loro quando erano in superficie. E’ mezzo sdentato, non ricorda perché. Forse perché, prima di riuscire a fuggire infilandosi nel più vicino cunicolo della metropolitana, qualche cavalletta gli avrà sfondato la chiostra dei denti, venendo giù fulmineamente dall’alto come un proiettile, per cercare di entrargli nelle parti molli del corpo. Forse è proprio da quel momento che non ricorda più niente. Si sposta nei cunicoli, dorme per terra, mangia dove capita e quello che capita, durante le distribuzioni di cibo che ancora avvengono qua e là, mentre arriva da sopra il rombo delle teste d’acciaio che cercano di sfondare i condotti armati e di penetrare nell’intestino caldo della metropolitana piena di carne ancora vivente. Ogni tanto, andando qua e là tra le fiumane di folle che si spostano lungo le banchine e i cunicoli, incrocia una ragazza con un orecchio per metà masticato. Si mette a correre forte, quando la vede. Anche lei corre più forte quando lo vede. Si oltrepassano correndo sul tappeto di immondizie accumulate lungo i condotti, rasentando le zone fetide dove sono ammassati gli escrementi umani che ammorbano l’aria. Continuano a correre così per un po’, senza sapere dove andare, perché. Finiscono in zone sotterranee infinitamente lontane prima di rendersi conto della velocità del loro andare. Ritornano sui propri passi. Si incontrano di nuovo da tutt’altra parte, lontano. Salgono e scendono più volte, solo per l’emozione di incrociarsi su due scale mobili parallele mentre uno scende e l’altra sale, e di venirsi incontro mentre stanno fermi e con gli occhi sbarrati nell’aria, nella luce. Lui le sorride con la bocca sdentata. Lei sbarra gli occhi, arrossisce, perché nessuno le ha mai insegnato a sorridere, perché anche lei è orfana. Si perdono di vista per giorni perché, dopo ogni incontro, la loro corsa li porta così lontano che perdono l’orientamento, mentre da sopra le volte continua ad arrivare il rombo di miriadi di denti metallici che staccano a brani gli ultimi lembi d’ asfalto per raggiungere le zone umide annidate sotto di essi, spaccano i grandi tubi dei condotti fognari, si gettano a capofitto nelle nere acque succulente che corrono sotto terra. Si rivedono su un’altra scala mobile, si incrociano fulmineamente, perché il mulinare dei loro piedi in corsa sui gradini in movimento moltiplica la velocità della loro corsa.
“Che cosa ti è successo ai denti?” gli riesce a chiedere lei, all’improvviso.
“Non lo so. E a te che cosa è successo all’orecchio?” riesce a chiederle lui, farfugliando per l’aria che gli esce dalla chiostra dei denti sfondati.
“Non lo so” gli risponde lei.
Non si vedono per giorni e giorni, perché è bastato questo piccolo scambio di frasi per accelerare a tal punto il battito dei loro cuori da far correre all’impazzata i loro corpi fin nei cunicoli più lontani e mai visti prima.
“Come ti chiami?” le farfuglia lui la volta dopo, correndo giù da un’altra scala mobile.
“Non lo so” gli risponde lei “Nessuno mi ha dato un nome.”
“E tu come ti chiami?” gli domanda lei la volta dopo.
“Non lo so. Anch’io non ho un nome” le farfuglia lui.
Dalle volte arrivano intanto fragori sempre più forti, perché miliardi di denti metallici stanno trapanando gli strati di terreno per svellere i cavi elettrici che corrono sotto terra, masticano i loro rivestimenti di gomma provocando cortocircuiti che gettano nell’oscurità intere zone della metropolitana e fanno filtrare anche là sotto bagliori enormi, spaventosi, improvvisi. Si capisce che le cavallette in esplosione demografica abnorme stanno cominciando ad attaccarsi tra di loro per il possesso degli ultimi brandelli commestibili del pianeta. E che, quando non trovano più nulla sulla linea della loro corsa, cominciano a divorarsi persino tra loro. In alcune zone lontane della metroplitana le intercapedini armate sembrano sempre più sul punto di cedere sotto l’urto delle miriadi di proiettili di metallo che vengono giù a strapiombo dall’alto per sfondare le volte e gettarsi tutte assieme all’interno per consumare il loro ultimo pasto.
“Che cosa ti è successo?” le farfuglia lui, la volta dopo, con il cuore in gola, perché le gambe di lei sono tutte rigate di sangue, sgorgato evidentemente da qualche punto segreto del suo corpo, sotto ciò che resta della sua gonna, mentre si trova per la prima volta a salire qualche gradino sotto di lei sulla stessa scala mobile, una delle ultime ancora in funzione.
“Non lo so” risponde lei.
“Sono entrate anche qui dentro le cavallette?” le farfuglia ancora lui “Ti sono entrate nel corpo?”
“Non lo so” gli risponde ancora lei.
E’ girata verso di lui, che continua a guardarla dal basso, col cuore in gola, mentre la scala mobile continua a salire e si sentono venire clangori sempre più tremendi dall’esterno, e non si riesce a capire se le cavallette sono ormai riuscite a sfondare e hanno già cominciato a penetrare all’interno o se è solo il fragore di miriadi di corpi che si stanno fronteggiando e masticando tra loro. Non si capisce che cosa sta succedendo, cosa succederà: se le cavallette sono già penetrate là sotto, se riusciranno infine a penetrare là sotto o se non ne avranno il tempo solo perché si divoreranno prima tra loro.

“Che sogno è questo?” domanderà forse qualcuno, a questo punto “Questo non è un sogno, è un incubo!”
“Ma non vedete cosa sta succedendo? No, no! E’ un sogno! E’ un sogno!”

Intervento letto al convegno “Ripensare la Modernità”, Mosca, ottobre 2002.

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mariasole ariot
mariasole ariothttp://www.nazioneindiana.com
Mariasole Ariot (Vicenza, 1981) ha pubblicato Anatomie della luce (Aragno Editore, collana I Domani - 2017), Simmetrie degli Spazi Vuoti (Arcipelago, collana ChapBook – 2013), La bella e la bestia (Di là dal Bosco, Le voci della Luna 2013), Dove accade il mondo (Mountain Stories 2014-2015), Eppure restava un corpo (Yellow cab, Artecom Trieste, 2015), Nel bosco degli Apus Apus ( I muscoli del capitano. Nove modi di gridare terra,Scuola del libro, 2016), Il fantasma dell'altro – Dall'Olandese volante a The Rime of the Ancient Mariner di Coleridge (Sorgenti che sanno, La Biblioteca dei libri perduti 2016). Nell'ambito delle arti visuali, ha girato il cortometraggio "I'm a Swan" (2017) e "Dove urla il deserto" (2019) e partecipato ad esposizioni collettive. Ha collaborato alla rivista scientifica lo Squaderno, e da settembre 2014 è redattrice di Nazione Indiana. Aree di interesse: esistenza.