Una lettura di “Albedo”
di Chiara Donnini
Su Albedo di Sergio Nelli, Castelvecchi 2017.
«Ma non abbiamo ancora risolto l’incantesimo di questa bianchezza né trovato perché abbia un così potente influsso sull’anima; più strano e molto più portentoso, dato che, come abbiamo veduto, essa è il simbolo più significativo di cose spirituali, il velo stesso, anzi, della Divinità Cristiana, e pure è insieme la causa intensificante nelle cose che più atterriscono l’uomo!…». Ismaele si interroga sulla sua ossessione per il mostro bianco, Moby Dick, che intravede e insegue tra i flutti del vasto mare. La balena, la sua bianchezza, è al tempo stesso il sublime e l’orrido che l’abisso dell’inconoscibile e dell’irrazionale ci permette di scorgere attraverso il suo incessante movimento.
Albedo è questa bianchezza. E Albedo è anche il nome della comunità terapeutica dove si rinchiude volontariamente David, artista trentenne, dopo un coma etilico avvenuto al culmine del suo disorientamento. Albedo è allo stesso tempo hortus conclusus che protegge, abitudine, limite con cui farsi scudo, e taglio, squarcio attraverso cui gettare luce su se stessi, intravedere la vita che ancora è possibile nonostante tutto. Ad Albedo approdano i naufraghi, quelli colpiti da una piccola o grande catastrofe (a David è morto il padre in un incidente automobilistico) dopo la quale “ricomincia una trama sbatacchiata, un cencio zuppo che attraversa il tempo come un oggetto magico”.
Sono tanti i personaggi che girano intorno a David, che, come lui, hanno subito un trauma e annegato la paura in una dipendenza, ma la narrazione è David e David è la narrazione, poiché niente di ciò che ci viene raccontato è davvero esterno alla sua coscienza. I cambi di registro della prosa sono le sue discontinuità interiori; il tratteggio degli altri personaggi scaturisce dalla sua capacità di giudizio; i ricordi sono suoi, le riflessioni, gli interessi per l’architettura, il disegno, la letteratura anche; la scrittura si fa lirica, prende il volo sorretta dal levare della sua anima, e precipita nella materia al suo battere. David è lo sviluppo ideale di una di quelle fotografie folgoranti che componevano Il Primo mondo (Gaffi), precedente lavoro di Nelli.
In Albedo non succede quasi nulla, la vita è scandita da ritmi e riti simili a quelli monastici, ognuno è chiamato a confrontarsi con il rigore e con l’abitudine, che è tanta parte della vita e nella quale può nascere la pace come l’inquietudine. Nel limite i “ragazzi interrotti” riscoprono il gusto del lavoro manuale, del cibo, della natura, del contatto umano, “E insieme alla rinuncia degli appetiti, mi sento vasto in questa ristrettezza che mi concede l’insperato, ciò che, forse, non ho mai incontrato prima”. David a suo modo prega persino, “leggi le poesie come preghiere, disse”. Ma il male oscuro si muove sempre sotto la superficie da cui una volta è scaturito. “Sono in trappola” pensa David “eppure vedo come se avessi preso un acido. (…) Se apro bocca non so nemmeno se torna la sintassi, se la mia voce è regredita o aliena. (…) L’unica cosa che di questa condizione si potrebbe salvare, in uno stato di equilibrio, è che i fiammiferi possono sembrare stelle e le secchiate d’acqua onde di un mare agitato.” È di nuovo la bianchezza della balena. Anche la follia, che se ne sta nascosta in ognuno di noi come un ragno in un buco, può essere però albedo.
Ma in Albedo David non impara solo a convivere e a gestire “disagio, disordine, disarmonia, dissociazione, disperazione, disastro”. Egli sente nascere potente il desiderio, che è materia interiore intorno alla quale si cristallizza la vita, è la condizione che permette di vivere pienamente il qui e ora, poiché è confine tra volontà e pulsione, “tracima, si fa sentire, si rappresenta”.
E da ultimo per David arriva inaspettato anche l’incanto dell’amore da custodire e di cui prendersi cura, l’amare che è proiezione verso il futuro e spinta a edificare. Ed è proprio l’incanto dell’amore che apre di nuovo uno spiraglio di chiarità, l’amare che “a volte è come la puntura di un insetto malefico/benefico. Là dove la pelle brucia, si gonfia, si sciupa e duole, gemma un incanto luccicante, batterico…”.