Nudi come siamo stati – Ivano Porpora
Capitolo I
Questa è una storia vera. È l’ultimo tentativo che faccio per venire a capo dei miei pensieri: per catalogarli, farli rientrare come un gregge che mi è scappato di notte.
Non so il numero dei capi, né il nome; non so quali strade possano aver preso, e se ci sono burroni, buche, strettoie, scorciatoie. La notte preme, sembra una coperta, non piove mai. Ci sono nuvole ma non piove, fuori. Il cielo è nero, duro, forte, il vento a volte soffia ed è capace di tirare giù rami; tutto fuori. Qui dentro devo cercare di sfrondare fatti minimi che allora, al tempo in cui tutto successe, mi apparivano fondamentali; cercare il filo che collega me, Anita, Arsène. Il filo che collega un territorio, perfino, fatto di campi coltivati e casotti piantati a forza in mezzo al nulla, finestre che sembrano ogive e imposte di alluminio, ringhiere, parcheggi vuoti e riflettori dello stadio sfondati da una pallonata, macchine sciolte in mezzo all’asfalto, rimane quasi solo una pozza bruna, spighe bruciate dal sole, mosche che son morte cercando di bucare una zanzariera; e questo cazzo di caldo che non esce mai di casa, mai, nemmeno se fa notte.
Questa è la storia di noi tre: i protagonisti di questo mondo, posso dirlo con certezza, siamo noi tre, io grosso e largo e moro, lui magro e bianco di capelli che pare quasi albino, lei, oh, quasi tutto; ma c’è stato un momento in cui avrei giurato saremmo diventati quattro, o cinque; forse anche sei. Devo cercare di capire quale sia stata la realtà, quali le triangolazioni che se ne sono create; quali le linee di fuga. Il nesso delle cose, ecco cosa manca: perché a parlare di quanto accaduto mi sono accorto che decine di incongruenze saltavano agli occhi. Il nesso delle cose non è l’amore, né l’odio, non sono le emozioni né le tragedie, né tutte le volte che mi son dovuto tenere la pancia perché ridevo che sembrava esplodessi; sono i fatti, bum bum bum.
Ho dovuto prendere un calendario del 2005 che Anita aveva appeso all’ingresso, tutto sporco di appunti e disegnini, e scritte, e buchi perché c’erano state attaccate puntine.
Accanto a diverse date, a tratti con la sua grafia, a tratti con la mia, numerose A. Credevo significassero solo Arsène, pensa te.
Sono nato il 12 marzo del 1967 a Viadana, in provincia di Mantova, la potete riconoscere al volo perché è là dove il Po forma la sua conca più bassa; parte di quanto è scritto vi si svolge. Qui ho rotto vetri, preso pugni, dipinto staccionate, dato pugni, dipinto murales all’interno di case abbandonate o in un macello o in una fabbrica che poi andò a fuoco, son rotolato giù da una scala scheggiandomi una vertebra, ho disfatto la cancellata di una ditta di vernici durante un incidente; mi sono rotto ossa, grandi e sottili.
Qui ho sempre vissuto, tranne qualche anno di università; conservo in solaio alcuni libri, a volte è così, come dire, così dolce prenderli in mano con la certezza che li riaprirò domani, tornerò ad aggiornarmi. Ma qui, senza averli più riaperti, morirò: la cappella dei Rovina ha un posto vuoto sulla cui visione mi incantavo, da bambino, quando andavo a trovare mamma. Guardavo le diverse foto, sillabavo i diversi nomi; cercavo di capire perché alcune date fossero cosi lontane, altre ravvicinate, quelle di mamma vicine lo sono state sempre troppo. Questione di densità, mi sarei detto poi; o questione di fortuna. Poi davo un occhio alla cappella vicina, sull’angolo, con qualche lettera caduta giù e visi illeggibili; prendevo un fiore dai nostri, lo mettevo di là.
Dove vivo e son vissuto finora avere nome e cognome non è completamente indicativo: si entra a far parte in modo sistematico e vincolante d’una genealogia e d’un territorio. Il mio stesso nome, Severo, l’ho sempre visto in senso più topografico che altro.
Ma mi disperdo nei dettagli, qui come nel parlare.
Comprendere la morte, e come si sia ficcata nella mia vita, così, a forza, come un parente sgradito che d’un tratto ti trovi a dover accompagnare per un lungo viaggio, o comprendere questa botta assurda che mi ha lasciato le ossa esposte al sole è uno degli obiettivi che devo perseguire.
È un compito arduo, e in questo momento di compiti ardui ne ho troppi – appendere un quadro è un compito arduo, rispondere al telefono è un compito arduo, allacciarmi o slacciarmi le scarpe. Tutto è difficile, ora, tutto nel mondo è difficile, chi mi telefona mi rompe i coglioni: tutto mi riconduce in qualche modo al mio rapporto con la morte e con la vita, troie entrambe, che han deciso di prendersi gioco di me. È come se fossero sempre state tra i miei compagni di giochi, quale delle due fosse la fata buona non so, sorridevano entrambe, vatti a fidare. Solo so che non è il morire fisico che temo, ma quel morire dentro che già più volte mi ha colpito.
Chi la scrisse, Non si puo morire dentro? Tenco? È uno dei pochi ricordi di mia madre che ho assemblato nel tempo – ricordi di prima e seconda e terza mano, ricordi mezzi di lei, parole dette su lei o ascritte a lei: lei che stende le lenzuola sui fili stesi nel terrazzo della casa vecchia e canta; mio padre che sente squillare il telefono, la chiama. Io sono da qualche parte a giocare, forse, o forse a guardare incantato il moto dei riflessi che l’acqua d’una bacinella componeva sul soffitto, una barchetta di carta rolla.
Non si può morire dentro. Chiunque abbia scritto questo verso sapeva di mentire e lo faceva. E allora scrivo, e Dio maledica le mie parole, se serve, ma me le dia.
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Mah…
Ciao, Ivano. E’ sempre bello leggerti. Ma me le dia. Sì. Un caro Salutissimo.
Massimiliano Damaggio