Macron: il grande management a capo dello Stato
di Julien Lumière
traduzione di Davide Gallo Lassere
Solo le circostanze eccezionali della campagna presidenziale paiono poter spiegare l’ascensione di Emmanuel Macron. Quando fondò il movimento politico “En Marche !” poco prima di abbandonare il governo, le attenzioni erano infatti rivolte a destra, verso Alain Juppé, la cui esperienza, calma e spirito conciliante diffusi dai media promettevano il successo alle primarie e in seguito alle presidenziali. A sinistra, invece, ci si preparava alla sconfitta, dal momento che non era immaginabile che François Hollande rinunciasse alla sua rielezione né che Manuel Valls si presentasse alle primarie come candidato del rinnovamento. Ora, entrambe le cose sono avvenute, a beneficio del candidato di “En Marche !”. Quanto a Marine Le Pen, la certezza che sarebbe passata al secondo turno fu la sola a non venire mai smentita. Ma la situazione divenne ancora più disperante per il candidato Macron quando Fillon vinse a sorpresa le primarie della destra e del centro: delle riforme economiche brutali accompagnate da un conservatorismo morale e culturale che raccoglievano di fatto l’adesione non soltanto una larga maggioranza degli elettori della destra gollista e liberale, ma anche di una parte dell’elettorato del Front National scettico riguardo all’ispirazione keynesiana del programma di Marine Le Pen.
Che ciò sia stato frutto di calcolo o meno, è stato François Hollande a mettere in cammino Macron verso la sua successione. In primo luogo, a causa della sua rinuncia a ripresentarsi – fattore che ha meccanicamente attirato una parte dell’ala destra del PS nel campo dell’ex ministro dell’economia. E poi attraverso la candidatura di Vincent Peillon alle primarie, riesumato direttamente dall’Eliseo dalla sua pensione svizzera con lo scopo malcelato di privare Manuel Valls – un mediocre Bruto della V° Repubblica – di una parte di voti cui avrebbe potuto ambire.
E tuttavia, esattamente come Fillon con le primarie della destra e del centro, Benoît Hamon non si aspettava di vincere le primarie della sinistra. Queste due vittorie decretano spettacolarmente il fossato abissale che separa sempre più le logiche d’apparato dalle attese della base. Se negli Usa, le primarie sono una macchina per sgretolare i candidati dei piccoli partiti, in Francia sono servite a sgretolare i grandi partiti eleggendo i loro piccoli candidati. Il paradosso delle primarie è che hanno promosso dei candidati che i loro partiti non avrebbero mai scelto, ma che, agli occhi degli elettori, li rappresentavano meglio: François Fillon in primo luogo, il cui programma economico di choc e la cui difesa della famiglia e dei valori cristiani rispondono alle aspirazioni dell’elettorato di destra deluso dal quinquennio di Sarkozy. E Benoît Hamon, il cui progetto propone degli effettivi avanzamenti sociali (come il reddito universale) integrandoli a delle riforme realmente applicabili all’interno del quadro dei Trattati europei e della situazioni economica della Francia (come la riforma fiscale). Entrambi, però, furono abbandonati dai loro partiti: Hamon apertamente, in favore di vergognosi tradimenti che si sono ammantati del dovere repubblicano di contenere Marine Le Pen; Fillon più perfidamente, in occasione della rivelazione degli impieghi fittizi da parte del giornale satirico “Le Canard enchainé” che i partigiani di Nicolas Sarkozy e Alain Juppé hanno strumentalizzato per tentare invano di marginalizzarlo. Senza questa fughe di notizie – di cui pare essere artefice l’area di Macron – la vittoria del candidato alle primarie della destra e del centro non sarebbe mai stata indubbia. Ma questi affari hanno rivelato che se François Fillon era il candidato degli elettori delle primarie, non era di certo il candidato del partito “Les Républicains”. Inoltre, l’importanza attribuita a queste scappatelle di poco conto, perlomeno se comparate all’enormità dei fondi privati raccolti in favore di “En Marche !”, è sintomatica della crisi politica e del discredito gettato sul personale politico tradizionale, sui suoi piccoli privilegi, le sue prebende e i suoi intrallazzi tra amichetti. Si potrebbe quasi dire che nei paesi anglosassoni, ci si spaventa per la mancanza di onestà e probità; in Francia, invece, le si tollera finché non rivelano dei privilegi conquistati sulle spalle del popolo oppresso. Gli anglosassoni sembrano infatti propensi ad accettare di essere sfruttati e asserviti purché ciò sia fatto con onestà; i francesi, al contrario, accettano di essere imbrogliati purché non si sentano sfruttati né asserviti.
Di fronte a un Benoît Hamon abbandonato da Hollande, tradito da Valls e il cui programma ambizioso, solido e innovatore è stato rivisto malamente in corsa e reso irricevibile dai media, Mélenchon è apparso come l’ultima boa di salvataggio. Rifiutando di allearsi con Hamon e con i Verdi in vista di una candidatura unica a sinistra, per riuscire nella sua campagna Mélenchon ha dimostrato di attribuire maggiore importanza al successo dei suoi meeting che al passaggio della sinistra al secondo turno. È persino riuscito a farsi proiettare in ologramma per circondare il successo del movimento “La Francia ribelle” di un’atmosfera irreale imbevuta di nostalgia: un programma economico costruito sulla base di una Francia e di un mondo precedenti agli anni 2000, un discorso la cui desuetudine di stile e di toni confina con il grottesco e – ciliegina sulla torta – delle evocazioni della patria che persino De Gaulle non aveva osato, memore di Vichy. Tutto ciò è avvenuto come se di fronte al disastro annunciato, gli elettori di sinistra abbiano cercato di inebriarsi per un’ultima volta al suono di appelli vuoti alla ribellione, scanditi in una lingua ormai dimenticata. Dal punto di vista della sinistra, le campagne presidenziali di Mélenchon stanno infatti alla socialdemocrazia come gli ultimi rantoli stanno a un corpo agonizzante. Dal suo punto di vista, invece, si tratte di altrettante occasioni per recuperare il tempo perso sulla sua poltrona di senatore al Palais du Luxembourg. Nel mezzo delle due ultime campagne, Mélenchon non si è minimamente preoccupato di elaborare un serio programma di governo, né di ricostituire un partito di sinistra alternativo al PS in liquidazione. Quanto al Partito Comunista Francese che si è alleato al “Parti de Gauche” nel 2009 è entrato da allora in una fase di declino costante.
I timori di un secondo turno con Marine Le Pen alimentati da una raffica di sondaggi in stile borsistico hanno trasformato l’elezione in un concorso di bellezza, dove, come diceva Keynes, non si sceglie il proprio candidato favorito, ma colui che si presume possa risultare il più appropriato a ottenere il suffragio degli altri concorrenti per affrontare al meglio il candidato frontista al secondo turno. Così, di fronte alla minaccia di un secondo turno Le Pen-Fillon, gli elettori di sinistra si sono comportati come degli speculatori alla vigilia di un crac: non potendo più sperare in grossi profitti, ci si è limitati a evitare il peggio. L’attivo “Francia ribelle” (France insoumise) ha così attratto gli investitori, e sebbene la speculazione sia durata a lungo, come con il “Front de gauche” nel 2012, è finita per scoppiare in una bolla. Tra tutti i titoli in circolazione, l’attivo Macron, ancorato al Tesoro, si è rivelato il più sicuro agli occhi di una parte della borghesia, delle classi medie cosmopolite, ma anche di certe frange delle classi popolari stordite da un modello sociale che glorifica la competenza aldilà del genere, della classe e della razza. Ed è così che, dopo otto anni di marasma economico provocato da una crisi finanziaria di cui il settore bancario francese è un elemento cruciale, dopo cinque anni di presidenza Hollande detestata da tutti, un giovane banchiere, consigliere di Hollande all’Eliseo, ministro dell’economia del governo Valls, ispiratore di leggi che non solo sono passate in forza contro il parere del Parlamento, ma che hanno provocato delle contestazioni, degli scioperi e delle manifestazioni inedite nella storia sociale recente, accede alla presidenza della Repubblica.
Se l’americanizzazione della vita politica ha pietosamente fallito con le primarie, essa ha avuto ben altro esito grazie al ruolo determinante giocato dal finanziamento privato nell’ascensione del “Mozart della finanza”. La solo differenza con gli Stati-Uniti è che qui la grande borghesia non si è imbarazzata né con le pesantezza della logica dei partiti né con le incertezze dello scrutinio delle primarie. Si è incaricata direttamente di lanciare il proprio candidato creando la struttura e il personale politico conforme al perseguimento dei suoi interessi. Il rinnovo della vita politica francese passa così per il finanziamento non più mediato dell’amministrazione degli affari generali della borghesia grazie alla borghesia stessa. In questo rinnovo, Hollande funge da punto di transizione. Grazie al suo portamento bonario, al suo debole profilo, al suo stato d’animo indifferente agli attacchi permanenti e alla sua sempreverde impopolarità, ha installato ai vertici dello Stato un modo di governo che riconduce Sarkozy stesso a un’altra epoca. Se Hollande, prima ancora di Macron, ha fatto saltare la separazione destra-sinistra, è perché con lui e in lui, tutto il personale politico marcia al passo degli azionisti dello Stato francese e delle istituzioni tutelari dell’Unione europea: ex segretario generale del PS, non ha mai esitato, per approvare delle riforme dell’agenda neoliberale europea, non solamente a negare apertamente il programma con il quale è stato eletto, ma a ridurre al silenzio a colpi di 49.3 [decreto legge, che permette di legiferare evitando il voto parlamentare] la sua propria maggioranza e infine a compromettere il futuro stesso del suo partito. Hollande ha segnato la storia della V° Repubblica, inaugurando l’era dei manager al vertice dello Stato. È in questo senso che Macron è veramente l’erede di Hollande. O meglio, costituisce il sogno di Hollande: senza partito, senza esperienza politica, senza visione, passato dal settore privato e pronto ritornarvici in caso di insuccesso, come un alto dirigente passa da un’impresa all’altra, il cui unico progetto consiste nel far saltare gli ultimi paletti che ancora limitano il libero sfruttamento del lavoro e la libertà di movimento del capitale globalizzato.
Che più della metà dei candidati investiti per le legislative da parte de “La République En Marche !” (questo il nuovo nome del movimento) non abbiano alcuna esperienza politica dimostra che non si tenta nemmeno più di concedere un minimo di potere agli eletti dal popolo. Votate per chi vi pare! – gli si dice – posto che riceva l’investitura di un partito che non è guidato da nessun eletto e che non sia l’espressione politica di nessun altra volontà politica a parte quella dei suoi mecenati. Macron lo dice dal 2015, dal momento in cui cominciò ad alzarsi il vento della protesta contro le leggi sul lavoro: “Il mio auspicio, è che ci si possa spingere più in là”. Con il 43% soltanto degli elettori iscritti che hanno votato per lui, però, deve sperare che anche una più grande maggioranza di francesi sia disposta a seguirlo.
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Logicamente, per una volta dopo decenni che la sinistra esprime un candidato minimamente credibile (al netto di tutte le infelici scelte di Melenchon, effettivamente tendente alla retorica repubblicana-nazionalista), l’intelligencija deve premurarsi di demolirne il risultato. E così, il 19% di un candidato sostenuto da Front de Gauche e PCF diventa la semplice “boa di salvataggio”, non già la scelta di un’ipotesti governativa diversa (e non ha alcun senso dire che la gente ha votato Melenchon perché il PS non è più di sinistra; non si vede per quale altro motivo si dovrebbe cambiare la propria scelta elettorale). Intanto da noi la sinistra annaspa tra entusiasmanti 0,0001 e 1,5%, mentre da chi dovremo aspettarci «un programma economico costruito sulla base di un mondo SUCCESSIVO agli anni 2000» arriva un’idea rivoluzionaria, geniale, finalmente innovativa: il centro-sinistra. Bene così. Avanti con le riforme.
Neppure io condivido del tutto la posizione espressa dall’autore del pezzo, quando in forma manicheista considera la proposta di Hamon perfettamente adeguata ai tempi e Melenchon una sorta di relitto del passato. Pero’ Mélenchon sta già distruggendo quello che in parte ha contribuito a costruire. Si era alleato con il Partito Comunista Francese, e ora lo ha mollato. Non vuole fare il partito, ma il movimento. Pero’ ha avuto un successo elettorale da partito parlamentare di peso. Per me si sta delineando un’altro episodio dell’impotenza della sinistra di costruire alleanze e strategie efficaci sul piano parlamentare. Insomma, come tu dici, sarebbe triste se poi in Francia con un 19% di voti, la sinistra finisse per pesare come l’1,5% di casa nostra.