Cannes70: due film e una questione
di Lorenzo Esposito
“I don’t watch Netflix”. La risposta perentoria con cui Abel Ferrara in Alive in France (Cannes 2017, Quinzaine des réalisateurs) rimbrotta il fanatico fan che lo assilla all’uscita dal concerto della sua nuova band rock/blues/romantic è sufficiente a disinnescare giorni di discussioni montanti e aleatorie su quello che, oltre a essere un falso problema (le piattaforme online cambiano o stanno cambiando la porzione di schermo cui aspirano le immagini e gli spettatori e dunque anche il monolitico riassestamento museale di tutti i Festival del cinema? Sì, e allora?), rischia di essere – o lo è apertamente – l’unico modo che i festival stessi hanno per non discutere mai di ciò di cui, loro malgrado, sono ancora e tuttavia fatti: i film, il cinema. La strategia è chiara tanto quanto dovrebbe essere trasparente l’intensità con cui l’immagine nonostante tutto (disseminazione, surplus, inevitabile perdita di senso e sensi) rifugge da se stessa, in qualche modo resistendo all’ondata liquida e opaca della parola sempre più spesso ridotta a pura trovata promozionale: semmai si depotenzia l’immagine dei grandi film e dei grandi cineasti – ironico sberleffo nei confronti della massa informe delle suddette tattiche o chiacchiere (che fra 15 giorni, dopo Cannes70, tutti giustamente e per fortuna dimenticheranno).
A un altro ammiratore altrettanto aggressivo che con pulsione nipponica lo stringe in un assedio fotografico senza costrutto (clic clic clic), Abel Ferrara impone una pausa dura e severa, pregandolo di concentrarsi e di provare a capire, cerca di cogliere ora sul mio volto l’assenza del volto stesso, gli dice, improvvisamente calando una maschera impenetrabile da attore consumato che lascia l’entusiasta fotografo sospeso sull’abisso di un silenzio stupefatto. Filmare non vuol dire vedere se prima non si riflette su cosa mostrare e perché (Ferrara su questo resta uno dei pochi a viaggiare sul binario che da Rossellini giunge a Godard). Anzi, non appena il sapere assoluto (Ferrara è tranquillamente un classico) entra in scena, l’istinto di sopravvivenza passa per la sua sottrazione violenta, la messa in questione di sé e della supposta statura di cineasta, o di ciò che si suppone sia la bella immagine (le scuole di cinema, dice Abel, sono zero, a diciannove anni dovresti andare dall’insegnante e sostenere di essere un genio e costringerlo a lasciarti filmare, non stare lì vagheggiando cosa vuol dire girare bene). Dunque I don’t watch Netflix vale quanto un eventuale non vado al cinema (o ai festival o non leggo libri): nessuno snobismo, ma barbarico intervento sul reale che, cambiandone l’abbrivio, improvvisamente lo illumina. Continuare a fare film? Intanto Ferrara fonda una band driller killer che si aggira per l’Europa col vecchio filmmaker fantasma cantante compositore chitarrista che vaga da solo per le strade della Francia invitando sconosciuti allo spettacolo. Nessuno come Ferrara incarna meglio questa lucida e selvaggia presa di posizione che, al contrario della frammentarietà cui allude e si addebita, sembra un avanzamento a grandi passi laterali (la camminata di Ferrara è una danza jazz, come se barcollasse sull’orlo dell’abisso senza escludere anzi costringendosi a mosse violente verso il fondo) e annesse reincursioni letali in superficie. Chiedersi che cos’è l’immagine (cinematografica), incontrandola nel punto dove sembra sempre vicina a sparire, è l’unico aspetto strutturalmente ideologico cui il regista stesso tuttavia fa mostra di non voler mai aderire (ricordare l’apoteosi autoriflessiva e implosiva del finale di New Rose Hotel). Eccolo sul palco il cineasta, canta I’m a bad lieutenant e rilancia estratti dai suoi film reiniettandoli in forma sonora, mentre al suo fianco si affollano fantasmi sessuali e tales dal sottosuolo, compreso lo spogliarello sempre più erotico della moglie corista alla fine del quale lui la carezza al microfono e la dona al pubblico con un cassavetesiano struggente “my wife”. Cos’è il cinema? Solo quello fatto nel momento in cui lo si fa (come avviene, dice Ferrara, quando dai il benvenuto a una città come New York, che non esiste, esiste solo nel momento in cui la si filma, e la sua realtà sarà solo quel momento).
In verità i film più interessanti o intensi sono ancora quelli che lottano per liberarsi e sabotare le logiche narrative, non solo in quanto ricerca ottusa (e spesso altrettanto insulsamente programmatica di una sceneggiatura di ferro) dell’incomprensibile, ma proprio nel collezionare quei momenti di trasparenza attraverso cui l’immagine mette in dubbio saperi identità memoria tendendo di continuo verso l’opaco o l’invisibile. Non altrimenti si potrebbe affrontare un film come Jeanette di Bruno Dumont. Giovanna D’Arco, giovinetta rivoluzionaria, interroga i cieli in forma di musical, capovolgendo i termini della chiamata o destino spirituale fra belati di pecore al pascolo, frescure boschive e torrentizie e una partitura metal rock che graffia l’aria e incita a sua volta allo sconvolgimento del corpo. Tutte le fasi demoniache di una vocazione ribelle sono già sussunte e introiettate e non resta che dimenare testa e capelli (come un chitarrista metal), chiamando in causa Dio e dando vita a un appello infinito, Giovanna prenderà la sua decisione, che piaccia o no. E la decisione, filmata da Dumont con scorza straubiana e operata sotto una luce abbacinante, è tutta puramente politica, sino a coinvolgere la Francia contemporanea (“i francesi non ci sono più” dice la pastorella amica di Jeanette non ancora diventata Jeanne e che vorrebbe invece spingere la popolazione alla rivolta contro il giogo inglese) in un circuito che dal Quattrocento passa per il Novecento (il film è ispirato da due testi di Peguy, Mystère de la charité de Jeanne D’Arc, 1910 e Jeanne D’Arc, 1897) e appunto illumina, per chi vuole vedere e intendere, la crisi odierna (“Parler de Jeanne D’Arc c’est parler de la France”, così Dumont). L’identità messa in crisi e colta nel punto della sua massima combustione è alla ricerca di una filmicità famelica, dove l’infanzia di una nazione non è separabile dalle intemperie del set (compreso il lavoro folle sulla dizione e il cantato di una bambina) e da quelle di un cineasta che lotta per tenere lo sguardo sul piano di un’asettica di assi bressoniani, perché Jeanette sta mutando, sta per esplodere, e ogni taglio d’inquadratura, ogni colpo di vento potrebbe essere l’ultimo.
Il cinema ha sempre incanto nella notte di una stanza. Mi piace il silenzio dopo la prima immagine. Il tempo del cinema che fa obliare la giornata di lavoro. Un tempo magico. Ho ascoltato lingue diverse in versione originale. Tempo onirico.
A casa ho dvd preferiti: à bout de souffle, La rivière sans retour, La fille à la valise, La piscine, 37 degré le matin, Sailor et Lula, Cria cuervos, Les yeux noirs, Fanny et Alexandre…