La poesia come ape operaia. Su Fatti vivo di Chandra Livia Candiani
nota di Giorgio Morale
Silvio Perrella in un articolo su Il Mattino (19, 5, 2017) a proposito di Fatti vivo, il nuovo libro di Chandra Livia Candiani (Einaudi 2017) nota che “Chandra Livia Candiani mentre scrive è come se pregasse; i suoi sono esercizi di armonizzazione tra quel che è passeggero e quel che resta e sta ‘sopra il disordine della realtà’. Scrivere versi pregando è per lei l’infinito inseguimento degli elementi primi, come la pioggia o la sete. È il tentativo di scrutare ‘il fondo/sereno delle cose’”.
Anche Antonio Prete su Il manifesto (21, 5, 2017) parla della poesia di Chandra Livia Candiani come preghiera: “I versi di Chandra Livia Candiani – ho vive in me le impressioni che hanno accompagnato la lettura dei precedenti suoi libri – ospitano gli oggetti, la loro aura onirica, la loro anima, circondandoli di un sentimento del tempo e trasformandoli in presenze intime… A uno sguardo che è di stupore e di preghiera, insieme. Il mostrarsi del mondo – del suo suono, del suo furore – è accolto in una parola che è insieme accoglimento dell’esistente e interrogazione di sé… La poesia è tutta ospitalità che fa rifiorire quel che accoglie, oggetto o ricordo, presenza umana o animale”.
Vorrei porre in evidenza due cose che emergono da queste citazioni. Innanzitutto il rapporto tra io e mondo, per il quale le “presenze intime” diventano “sentimento del tempo” e il “mostrarsi del mondo” diventa “interrogazione di sé”. Questo ritrovare se stessi nel mondo e scoprire nel mondo quel che si ha dentro di sé è un atteggiamento che Candiani ha portato a piena evidenza ne La bambina pugile e che viene approfondito in Fatti vivo: “sono buttata in tutto ferito, / in questo solo questo mondo”. È un atteggiamento che rende il poeta accogliente e allo stesso tempo partecipe delle gioie e dei dolori del mondo e che rende la poesia “cantico” e “preghiera”. Di accoglienza del mondo e di sentimento del tempo oggi c’è molta necessità, ed è questo che rende quella di Chandra Livia Candiani una poesia di cui il nostro tempo ha bisogno. Si tratta di una accoglienza che non arretra di fronte ad alcuni aspetti in ombra della realtà, di fronte al dolore e al male del mondo: “Il dolore degli altri / non mi sta in mano / e nemmeno in gola / più che altro sta nel petto”. Perciò la poesia di Livia Candiani esprime un desiderio di “aspirare / il cielo” ma anche di “farsi terra e polvere”. Senza opporre barriere e difese: “Lasciati bruciare”.
In questo atteggiamento c’è anche un risvolto etico e quindi pragmatico: “L’amore è diverso / da quello che credevo, / più vicino a un’ape operaia / a un tessitore / che a un acrobata ubriaco, / più simile a un mestiere / che a un sentire”. Siamo molto lontani dall’immagine del poeta e dell’uomo come acrobata tipico delle avanguardie novecentesche. Amare è un mestiere, e accogliere implica un’azione che è quella di raccogliere quanto è violentato e disperso.
Come ha detto Erri De Luca nel suo intervento alla riunione nazionale di Emergency, a Genova l’1 luglio 2016, “Il mio verbo moderno è raccogliere: un raccolto di vite che non abbiamo seminato, allegato, educato”. Realizzando il significato originario del verbo dire, in greco legein cioè raccogliere, Chandra Livia Candiani con la parola raccoglie questo che “Mio mondo / chiamano / mio mondo / essere senza mondo”. Il respiro del poeta, metonimia per dire la parola, “porta brandelli di mondo”. Ecco infatti che nei suoi elenchi Chandra Livia Candiani raccoglie “Abu faccia sbriciolata” e i nomi dei bambini morti annegati nel Mediterraneo, “lo sgombero visto da un bambino” rom e l’uomo che chiede “Dammi da mangiare / dammi da bere”, e perfino gli animali privati del loro ambiente naturale: “elefante, leone, tigre, orso bruno, lince, storione…”
L’auspicio è che possa verificarsi per il lettore quello che nella prima sezione del libro dice Il portone: “quelli che entrano / non usciranno uguali”. E che ognuno dei lettori raccolga queste “istruzioni per farsi vivi”, perché “Di guerrieri indifesi / ha bisogno il mondo, / di sacra ira / di occhi spalancati”.
Poesie tratte dalla nuova raccolta di poesie di Chandra Livia Candiani, Fatti vivo (Einaudi 2017).
L’amore è diverso
da quello che credevo,
più vicino a un’ape operaia
a un tessitore
che a un acrobata ubriaco,
più simile a un mestiere
che a un sentire.
Io amavo
un po’ con la memoria astrale
e un po’ con giustizia poetica,
ma l’amore
è più vicino a una scienza
che a una poesia,
ha delle sue regole di risonanza
e altre di respingenza,
ha angoli di incidenza
per profili alari e luce,
ma non ha regole per il buio
e l’assenza di ali.
L’amore è molto simile
all’insonnia,
non devi soffrirla
solo ospitarla,
lasciare che ti squassi
faccia di te un sistema nervoso
senza isolamento,
una corda tesa
di strumento musicale ignoto.
Essere temi musicali
non è una vocazione
ma una disciplina di spoliazione,
è farsi ossi
limati
dalle onde
goccia che si disfa
nel galoppante mare.
*
Il dolore degli altri
non mi sta in mano
e nemmeno in gola
più che altro sta nel petto
nella sua memoria
luogo schivo
che fa stazione
che scartavetra le fughe.
*
Mentre morivo
annegata di promesse
piombate al fondale
col cemento,
mentre deglutivo mare
non pensavo,
elencavo pezzetti di bene
scrostato dalla pelle:
le ombre salvifiche
le ciglia sotto il sole deserto
le labbra bambine
al capezzale del latte.
L’angelo africano
è un baobab
ha radici.
Mentre morivo
mi prendeva una nostalgia
che rapiva via
verso le rapide nuvole
e lui
l’angelo
teneva teneva.
*
E gli uomini della volta celeste
salivano e scendevano
uno spezzava il pugnale
contro la tua roccia
uno scavava con la zappa
fino al tuo serbatoio buio
metteva alla luce i reperti
li nominava
erano blu
uno scardinava il tuo uscio
chiedevi:
“Mi porti in un posto sorvegliato?”
Nessuno è invasore del paesaggio
piuttosto il paesaggio resta per loro
non si muove.
Legge interna dei dormienti
un silenzio scrive che dormi
scrive che ti alzi
scrive che voli.
Fino a qui.
Diritto marittimo
di aspettarti.
Quando una leggenda si sbriciola
gli occhi diventano sassi.
Tu ascolta il prodigioso
canta il nome
non lasciarmi in pace.
*
Dammi da mangiare
dammi da bere
dammi i soldi bui
dammi terra sotto i piedi
dammi le mani
e l’acqua per cancellarle.
Da dove vieni bruci.
L’acqua le mani
gli angoli acuti
per la città dei tuoi passi
ecco
spiccioli di alta e bassa marea.
Fame è misterioso
richiamo
alza e abbassa regge lascia
ti reggo mi lascio.
Dove sono i miei uccelli?
Dove sono i miei cervi?
Chi non canta sui rami?
Chi non salta tra i cespugli?
Dov’è il vento,
il mio pescatore di uccelli?
Dov’è il giardiniere
che sa far ridere i crisantemi
dove sono i passi freddi
delle mucche nella notte?
Guarda, quante mani ha la pioggia
la terra tigre d’erba sotto l’asfalto
gli inciampi nel canto degli uccelli
che scavalcano l’aria.
“Devi” dicono gli alberi
alla leggera forza che smalta il verde
nel nero del ramo in inverno,
guarda il cielo che non è di nessuno
deserto di rondini e rondini.
Mangia parole,
vive.
Dammi l’acqua
dammi la mano
dammi la tua parola
che siamo,
nello stesso mondo.