No taxation without representation

di Helena Janeczek

Dopo due anni d’attesa credevo che era fatta. Il decreto prefettizio firmato in data 12 aprile e notificato il 23 maggio dal mio comune di residenza, comunicava che mi è stata “conferita la cittadinanza italiana”. Ero così euforica che mi sono illusa di poter votare subito. “Deve aspettare il giuramento” m’hanno detto all’ufficio elettorale. Sono tornata a casa con la coda tra le gambe.
Ho intuito che non mi avrebbero chiamata prima delle votazioni. Nel frattempo è cambiata la giunta. Il nuovo sindaco s’è visto su tutti i manifesti accanto a Salvini. Mi tocca giurare fedeltà alla Repubblica, alla Costituzione e alle sue leggi, davanti a un primo cittadino che rispetta più le felpe verdi del suo leader che la fascia tricolore sul proprio petto. La casistica dei sindaci leghisti che hanno negato il giuramento a chi non sa leggere l’italiano è così ampia, ho scoperto, che a febbraio Alfano ha dovuto dichiarare inammissibile quell’arbitrio, mandando i futuri cittadini dal prefetto se il sindaco continua a fare ostruzionismo.
Nonostante questa via d’uscita, gli esempi di cronaca padana sarebbero perseguibili per legge (art.328 del Codice Penale: rifiuto o omissione di atti d’ufficio) se i richiedenti non arrivassero stremati all’appuntamento nella sala comunale. Cosa per cui può ascriversi un merito Roberto Maroni che, con le norme del “pacchetto sicurezza”, ha inasprito in maniera sintomatica sia le sanzioni per gli irregolari (con il “reato di clandestinità”, per dire) che innalzato drasticamente i balzelli sulla cittadinanza e il permesso di soggiorno. La Corte di Giustizia europea, interpellata su richiesta del Tar del Lazio a cui erano ricorsi Cgil e Inca, ha stabilito nel 2015 che il contributo è “sproporzionato rispetto alla finalità perseguita dalla direttiva ed è atto a creare un ostacolo all’esercizio dei diritti conferiti da quest’ultima”. La sentenza cita la carta d’identità che costa 10 € a confronto dei 30,46 € per il rilascio o rinnovo del permesso, più marca da bollo da 16 €, più 30€ per il kit postale, più la tassa che varia da un minimo di 80 € un massimo di 200 €. Con tali spese inevitabili per vivere e lavorare in regola, la cittadinanza diventa anche un calcolo di costi e benefici. Il contributo per presentare l’istanza è di 200€ a cui si sommano marche da bollo, certificati di nascita e buona condotta, con relativi costi di traduzione e legalizzazione, foto, viaggi al consolato, costi di spedizione, costi dei documenti rilasciati dal paese di nascita. Ho speso più di 300 € in totale, somma che sarebbe stata superiore fossi stata extracomunitaria. Un extracomunitario però deve rifare più spesso il permesso e alla fine ha più convenienza a diventare cittadino. Credo si spieghi anche così il dato Ismu che vede, nonostante tutto, le naturalizzazioni in costante crescita soprattutto tra marocchini albanesi e indiani, mentre i cittadini UE, principalmente rumeni, possono regolarizzarsi al costo di 200€ per il permesso di soggiorno illimitato.
Resta il fatto che un meccanismo selettivo basato su un esborso che al giorno d’oggi è una cifra enorme per gran parte degli italiani dalla nascita, trasmette una prima lezione d’italiano anche a chi stenta a spiaccicare due parole. “Governo ladro”, in sintesi. Lo Stato si accanisce sui deboli e onesti, contro i disonesti e prepotenti non alza un dito. Visione quasi identica a quella di coloro che in cima alla lista nera del lassismo mettono proprio gli stranieri. Come si fa a esigere il “rispetto delle regole” quando nessuno si vede rappresentato e tutelato nei suoi diritti?
La situazione più assurda tocca i figli d’immigrati. C’è una riforma approvata in ottobre alla Camera che aspetta il voto del Senato, dove è bloccata dall’ostruzionismo della Lega e probabilmente anche dal timore della sua impopolarità, pur essendo stata una promessa del governo Renzi. La legge è molto cauta nel rendere cittadini coloro che di fatto già lo sono, ragazzi non nati qui per per caso, ma anche cresciuti e andati a scuola. Ragazzi che “il loro paese” lo conoscono, e nemmeno sempre, grazie a qualche soggiorno di vacanze. Il risultato delle amministrative suggerisce che sarebbe meglio farsi sentire affinché non marcisca in parlamento.
“No taxation without representation” era lo slogan della Rivoluzione Americana: questa cittadinanza l’ho voluta anche perché è ingiusto non poter votare se da trent’anni e più si pagano le tasse. Ma è l’eredità di quella francese che mi emoziona saper implicita nel mio giuramento: quel “gli uomini nascono e restano liberi ed uguali nei diritti” con cui si apre la Déclaration des Droits de l’Homme e du Cityoen e al quale la Costituzione italiana si richiama. Esiste un diritto che non scade con il permesso di soggiorno, non si annulla o non si perde con un passaporto: il diritto più violato in Europa e dalle sue istituzioni, ma che per una democrazia è fondante.
E poi esistono le persone. Quel gruppo di adolescenti incrociato nella mia vietta, io che tornavo con le sigarette per l’attesa elettorale, loro che andavano al bar all’angolo diventato ritrovo dei ragazzi di periferia. Tutti maschi, originari di tre continenti – America, Asia e Africa – e tagli di capelli da tamarro. “Signora, non potrebbe molto gentilmente offrirmi una sigaretta”, mi chiede, con accento nativo, quello alto alto, nero nero, decisamente un bel ragazzo. E mentre ancora rovisto per cercare il pacchetto, già mi sento più leggera. Le elezioni sono una cosa, la realtà è un’altra.

quest’articolo è uscito a giugno 2016 su “pagina99” h.j.

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