L’altra Cambridge. Un Massachussets quotidiano tra confessioni e traslochi

di Eloisa Morra

Misi piede a Cambridge la prima volta per inseguire un amore; avevo da poco compiuto vent’anni, autunno inoltrato: foglie fradice affogavano il porch della casetta di East Cambridge condivisa con il figlio d’un rifugiato iraniano (con cui, ricordo, discutemmo a lungo sull’origine della pasta Alfredo) e con Brad, un ricercatore della Divinity School che passava il giorno a pensare a Adorno e Marx. L’inclinazione del pavimento della cucina rendeva affettare un avocado per l’insalata un’impresa ardita, e qua e là le pareti del soffitto rivelavano buchi: quando chiesi di cosa si trattasse mi venne risposto che in inverno i topi si infilavano nelle condotture alla ricerca di un cantuccio caldo, e chiunque fosse sano di mente teneva a portata di mano uno spray da passare nei muri per scampare all’invasione.

 

Me ne andai due settimane più tardi convinta d’aver mancato un mistero (beata illusione, il civile New England dai mattoni rossi!); mai avrei immaginato che anni dopo sarei finita a stare per un bel pezzo in quello scrigno cremisi a prima vista molto meno accogliente del suo equivalente britannico. In quella che sarebbe a lungo rimasta per me la vera Cambridge avevo passato, complice una genitrice dalle manìe fieramente esterofile, estati di traballanti panting sul Cam e fish and chips divorati all’ombra dei castagni del Queen’s College, senza contare l’incontro con quello che nell’immaginario di me bambina fu una specie di San Pietro venuto a consegnarmi le chiavi della città, Stephen Hawking, che — accompagnato dalla moglie — per poco non scontrammo passeggiando sul Bridge of Sighs.

Niente di tutto questo nell’omonima del Massachussets. Bomboniera riottosa, l’altra Cambridge si nasconde alla vista del visitatore improvvido; ci sono i tour estivi con le guide in rendigote e maniche a sbuffo, certo, dove la città sembrerà offrirvisi senza troppi preamboli, come la vicina Boston: civile, ordinata, non troppo grande da non esser attraversata in pochi giorni, europea al punto giusto da non lasciar spaesati. Il sole, i cortili della “casa New England standard” e l’erba fluo dell’Esplanade faranno il resto, e il turista cuor contento se ne andrà scambiando la bigiotteria per il gioiello. «Decoration» mi ammonì durante quel primo viaggio lo Shakespeare improvvisato nel Brattle Theatre da una compagnia studentesca «is nothing but a danger, meant to trick and trap the viewer». E così è: Cambridge va vista in autunno, quando gli strati di trucco si fanno da parte per lasciar spazio al suo volto naturale — e, come per le donne davvero belle, in versione scarmigliata piace ancora di più. Ci sono giorni precisi, momenti addirittura; uno di questi è the moving day, poche ore di fuoco tra il trenta agosto e il primo settembre.

Ogni anno si avvera la legge della grande transumanza per cui un buon terzo della popo- lazione (giovani assistant professors, studenti d’arte, finanzieri freschi di MBA) se ne va, diretta verso New York o magari in Europa, per far posto ai loro equivalenti più giovani e indomiti. La cosa più sensata da fare, sempre che non si sia parte in causa, è lasciare la macchina a casa e uscire con qualche amico per dare inizio a un vagabondaggio all’insegna della serendipity. In ogni angolo di strada, davanti alle case, i traslocanti avranno immancabilmente lasciato ogni tipo di oggetti, più spesso senza nessuna indicazione, a volte con post-it colorati: FREE STUFF!, GIFT, PLEASE TAKE! Frugando tra le cassette della posta vi troverete davanti un campionario che spazia dal feticcio infantile (vecchie collezioni di Donald Duck, adesivi) all’innominabile (strisce depilatorie, confezioni di preservativi), se vi va bene qualche vecchia edizione Einaudi lasciata da qualche studente di italiano. «Ma chi vuoi che vada a prenderle, le cose per strada?», mi chiesi perplessa la prima volta che assistetti a questo spettacolo; invece è proprio in queste occasioni che Cambridge si rivela per quel che è, per cui a rovistare tra i divani Ikea e le carcasse di materassi rovesciate alla bella e meglio sulle staccionate delle townhouses si alternano la studentessa in shorts e il professionista in tenuta da casa, magari qualche dottorando dell’MIT in cerca di qualche reperto informatico d’antan. Raramente si torna dal giro a mani vuote e senza cogliere qualche dettaglio inusuale, come se la vita degli ignoti ex propri- etari avesse impregnato quegli oggetti, e quel dono inaspettato non voglia per caso dirci qualcosa.

Del resto nel paese del consumismo, dove il fatto che un qualcosa sia free la rende auto- maticamente di valore nullo, l’altra Cambridge sembra essere uno dei pochi posti rimasti a restituire all’aggettivo il suo significato originario, dotando i suoi abitanti d’una capacità d’imprimere una forma alla propria esistenza sconosciuta ai normali esseri umani. C’è il dottorando che scopre il suo vero orientamento sessuale e di botto va a vivere col nuovo amore, chi cambia il suo indirizzo di studi da legge a neuroscienze; chi, come la mia amica Heléne, decide di abbandonare un posto in università per lavorare in un centro di Yoga. «Ancora un anno e potrò avere finalmente il diploma da insegnante, poi potrò crearmi uno spazio tutto mio», mi assicura, e non stento a crederle: si fa presto l’occhio a riconoscere l’accademico in borghese nei calembours poliglotti del barista, o dal libro d’analisi che il bottegaio ripone al lato della cassa.

Non di rado, nei pomeriggi d’autunno, capita di sedersi al caffè per bere un sidro caldo e trovare lo sconosciuto che ti racconta la sua vita con sincerità quasi sfrontata (salvo poi sparire per sempre). Mai come in questa città sembra di salire su «a stage where every man must play a part», nel bene e nel male: ogni incontro sembra quasi una prova, il che genera in chi ci abita un misto di euforia, ansia da prestazione, e quel senso di solitudine irrimediabile che spinge a parlare senza vergogna. Agli exploits confessionali si fa poi il callo, tanto più se si frequentano l’MIT o Harvard. Apparentemente così diversi — aereo e futuribile il primo, impettita nella sua crimsoness la seconda (cremisi il foliage e gli iconici mattoncini, come pure le toghe per la graduation affittate a prezzi esorbitanti)—, questi due mondi in miniatura sono abitati da fantasmi comuni.

Me lo fece capire lo studente più bravo di un mio corso di italiano a Harvard, che una volta mi prese da parte per dirmi: «I don’t fit in», seguito da un monologo sconsolato; quando sento questi discorsi mi limito ad ascoltare in silenzio, e mi viene sempre in mente Eliot, che un secolo fa sedeva proprio su quei banchi: «There will be time, there will be time /To prepare a face to meet the faces that you meet; /There will be time to murder and create,/ And time for all the works and days of hands /That lift and drop a question on your plate; /And time yet for a hundred indecisions, / And for a hundred visions and revisions, /Before the taking of a toast and tea». Non lo sanno ancora, ma a differenza del senex-puer Prufrock saranno proprio i dubbi vissuti e presi di petto ogni giorno per quattro anni in questa strana città dai mattoni rossi a sbalzarli fuori dal campus, avviati a sentieri imprevedibili.

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