da “Fermate”
di Paolo Maccari
C’era una volta un ragazzo, aveva meno di vent’anni e gli sembrava di vivere da tanto perché aveva vividissimi nella memoria molti ricordi, e, in particolare, la scansione precisa degli avvenimenti e dei pensieri. Non faceva confusione. Anche i parenti, gli amici, chiunque avesse visto da sempre, sapeva collocarlo esattamente com’era al tempo dei diversi ricordi.
Era, questo ragazzo, incapace di vivere. Più disastrosamente delle altre, lo perdeva la mancanza di volontà, quasi lo schifo a soffrire per raggiungere qualcosa che voleva. Il che contrastava con i grandissimi desideri che lo tormentavano. Provava a farne una questione di eleganza, e condannava gli sgomitatori. Si sentiva uno spirito raffinato, in un certo senso, e abbastanza garbato da non sottolinearlo, anzi da negarlo, mentre consolava uno sconfitto insultando Darwin.
Anche se aveva sviluppato una discreta scaltrezza nell’ottenere senza sforzo qualche piccola vittoria di tappa – qualche ragazza, qualche ammirazione di adulti e coetanei –, presagiva che i nodi e il pettine prima o poi si sarebbero incontrati. Stabilì che, meglio di evitare l’incontro temprando il carattere, fosse opportuno distribuire il dolore, e quindi anticiparlo, e iniziare a soffrire. Siccome era profondamente implicato in pensieri letterari, salutò la rateizzazione e i suoi presupposti come un esercizio di consapevolezza. Si profetava un futuro infausto, ed era piacevole ridurre gli altri a un branco svagato, trasumanante verso quello stesso funebre squallore che almeno, a lui, non lo avrebbe sorpreso.
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Un giorno, a questo giovane, venne in mente che, anche così, stava soffrendo troppo. In più non gli riusciva bene di esprimere le profonde convinzioni che aveva innalzato mescolando le sue esperienze dirette di dolore e sconfitta con le parole intonate degli scrittori che amava (e per giunta, alcuni di questi scrittori usavano parole altrettanto intonate e persuasive invitando alla danza); quando invece gli sembrava esagerato patire così a fondo senza nemmeno il conforto di un po’ di consenso, possibilmente entusiastico (veramente, lui credeva di meritare una sincera venerazione, però aveva imparato a spingere la sconsolata consapevolezza fino a temperare perfino le istanze più oneste). Infine, un’altra angustia aveva preso a insultarlo: la ginnastica del disincanto, a forza di praticarla, aveva iniziato a imbastardirsi e, da puro meccanismo di una mente concentrata, aveva tralignato nella carne.
La carne era giovane e in salute e trovò ripugnante il supplizio della continua perquisizione alla ricerca di un male tangibile che dicesse apertamente il male. Impermalosita, iniziò a tremare di quei brividi che la mente avversaria sembrava pretendere. Ma lo faceva per ripicca, sogghignando e ingrossando. Alleata di insipide pasticche pacificatrici, pensò di adagiarsi sugli allori con la bolsa quiete di un pollo in batteria. Il giovane iniziò a ingrassare e se fin dai primi ricordi il suo aspetto gli aveva fornito pochi argomenti per le vanterie, ora crebbe un disprezzo molto diligente nell’allacciare la sua anima guasta alle sue recenti trippe. Ci voleva dunque un rilancio ulteriore. Il giovane, che ricordo dopo ricordo e rinuncia dopo rinuncia planava verso i trent’anni, si organizzò. Lasciò che il corpo – e gli abiti, e ogni ammennicolo estetico – fossero dimenticati, da sé e dagli altri, e il suo unico obiettivo di stilista e personal trainer fu indirizzato verso la non vistosità, o meglio la non visibilità. Sempre di più, ciò che contava era la sua strategia di comportamento interiore.
L’accidia imperava sempre meglio mentre il giovane si occupava dei suoi sogni senza pensare quasi mai a tradurli in pratica, o anche solo in possibilità, ma piuttosto concentrandosi sulla loro autosufficienza e pertinacia nonostante la sua figura iniziasse a perdere colpi in maniera evidente rispetto ai suoi competitori. Naturalmente, un certo profitto derivava dallo screditamento sistematico delle qualità dei loro competitori, che proprio in quanto sviliti – nel basso e sozzo mondo dell’immoralità – andavano avanti e piacevano. Il mondo si stabilizzava progressivamente in un arena di nevrotici e truffatori, incapaci di giustificare le loro azioni come anche i loro impeti di volontà; non essendo però così poco raffinato da credere ancora di potersi concepire in una torre di privilegio, si immaginò perso nella moltitudine, trascinato dalla fiumana che non sapeva chi lui fosse, e quel che concepisse dentro.
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Una soluzione perfetta sotto tutti i punti di vista, una modalità di adempimento che gli parve sontuosa e in grado di vendicarlo per ogni sconfitta che gli altri o se stesso gli avevano inflitto, apparve un giorno all’orizzonte mentre era impegnato a sfrondare i suoi sogni dalle punte più puerili. Certo che doveva scrivere: ma non sarebbe stato un volgare romanziere, roba da geometri con le mani sporche di inchiostro, sbaffate di calcoli strutturali e di problemi di ritmo e di coerenza, e nemmeno poeta masturbatore che mugola la sua inadeguatezza quando tutti sono inadeguati e se tutti mugolassero il mondo sarebbe un sottofondo di lamenti, e nemmeno… e nemmeno… E nemmeno tutto: sarebbe stato, semplicemente e puramente, un diarista. Qualche stralcio brillante sarebbe apparso in riviste poco lette. Altri, li avrebbe riportati senza citare la fonte agli amici. Ma la sua grossa, la sua mastodontica comprensione della realtà, mirabilmente ottenuta da una posizione periferica, insospettabile, sarebbe apparsa soltanto dopo la morte, quando l’amico più fidato, a cui avrebbe detto di prendere i preziosi quaderni e farne ciò che voleva, li avrebbe pubblicati. Ecco a voi il testimone dei nostri tempi. Proprio lui. Certo, gli indizi c’erano, ora che lo sappiamo chi lo ha conosciuto li divulga, ne dà notizia, ma l’impressione… no: ma la commozione è comunque enorme. Ci aveva visto, valutato, giudicato e infine assolto per quella magnanimità quasi misteriosa che è dei grandi.
Che soluzione! Che pensata meravigliosa. Il diarista è anonimo, è segreto, è se stesso qualsiasi cosa gli succeda attorno, e ogni umiliazione che patirà, ogni suo insuccesso, privato o non privato, avrà spiegazione, e vendetta, nelle sue pagine veritiere.
Per qualche mese dopo la grande trovata non iniziò il diario, beandosi e godendosi la sensazione di aver trovato ciò di cui aveva bisogno. Poi, quasi baldanzosamente, iniziò. Le prime pagine che scrisse gli sembrarono al di sotto della sua intelligenza, ma comunque non erano male. E poi erano un inizio. Continuò, anche perché, si diceva, un’opera come quella contava anche nella mole, nel coraggio della minuzia.
Dopo ancora qualche tempo prese però a saltare l’appuntamento quotidiano con la scrittura. Il fatto è che scrivere interrompeva le fantasticazioni di se stesso grande diarista postumo, e la cosa risultava seccante. Con immenso terrore, ancora un qualche tempo dopo, si accorse che la pigrizia non risparmiava nemmeno quella pratica: scrivere il diario gli faceva sempre più fatica. Con immensa incredulità, e un piccolo incremento di disprezzo, si accorse che gli mancava una dote decisiva – che infatti nelle fantasticazioni non mancava mai –, e cioè l’impudicizia. Gli scocciava scrivere certi suoi pensieri o considerazioni sconce o troppo malevole. Se ne vergognava. Gli dispiaceva poi dipingere con troppo realismo, o troppo severamente, le persone che aveva intorno, e a cui comunque voleva bene. Come fare? Addio diario.
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Intanto i quarant’anni iniziavano ad annunciarsi e i suoi ricordi sempre stati precisissimi fino al tormento si illanguidirono e persero smalto. Anche le paure piano piano si lasciavano addomesticare e certe comodità pratiche sembravano quasi contendere la coscienza della malignità della natura. Il giovane ormai non lo era più, aveva una bella pancia e godeva nel vedere calmati anche i suoi coetanei, che dopo vent’anni, anche loro, seguivano il suo esempio, e si arrendevano, e lasciavano che la vita non li soddisfacesse compensando con qualcos’altro. Certo, ancora un po’ lo indispettivano le passioni che percepiva lontane da un vero e certificato scacco, le agitazioni che gli apparivano troppo gonfie di malcelate richieste a se stessi di restituire un’immagine privata di grottesca giovinezza, e perciò doveva dominarsi di fronte alle piccole fissazioni per i motori, o il cinema, o l’adulterio. Ma vedeva bene che erano compensazioni e indulgeva. La sua indulgenza, che era una novità piacevole, gli donava una ricarica morale che si traduceva in una blanda e satolla pontificazione: “Sono compensazioni, quelle che a voi paiono priorità, obiettivi irrinunciabili: compensazioni. Credo di averlo scritto da qualche parte, sapete, che sono tutte compensazioni. Non c’è niente di male: le illusioni diventano compensazioni. Il meccanismo è questo. Aspettate, un’altra birra non la volete? Cameriere, due birre per i miei amici e per me… portami una coca zero, con ghiaccio e limone, per favore”.
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Da Fermate, Roma, Elliot, 2017
Allegoria dell’implosione sarebbe il perfetto sintetico titolo per questa sua belle sequenza narrativa
La lettura del racconto è stata per me piacevolmente feroce, poiché ricalca in maniera quasi inquietante un momento e una forma mentis a me particolarmente prossimi; nel momento in cui sto scrivendo ho venticinque anni. Il costante esercizio della consapevolezza che porta a profetare un futuro infausto, la presunzione di “ridurre gli altri a un branco svagato” che si muove verso “lo stesso funebre squallore” che, anticipando il dolore, non ci stupisce, sono parole e lame che mi frugano dentro. Aggiungerei che tale esercizio di consapevolezza e dolore diviene la stessa nevrosi che ci accompagna, di cui (azzardo) si parla nella poesia “Premure” (da “Mondanità”), dove diviene l'”affetto affilato, doloroso/come un ago di siringa”: nonostante una corrispondenza d’immagini, per me è stata bianca disperazione, ovvero “annegare/in un filo d’aria,/macerare/su uno spillo di vita/trafitti dal sole”. Vi sono, oltre a queste, molte e altre dolorose, ma felici, corrispondenze, e forse è per il potere sanatorio o consolatorio che possiede la letteratura, per questa sua capacità sottile e potente di gettare un ponte tra le sponde di due dolori che hanno le stesse vibrazioni, che sono felice, perché il ponte è stato gettato, il dolore condiviso e, seppur a fatica, epurato. Bravo Paolo Maccari, non ti conosco bene come autore, ma mi hai infilzato a fondo con pochi, rapidi affondi. Concludo però dicendo che, data la mia età forse ancora illusa, non condivido l’esito del racconto, terribile e inquietante per i presupposti, non credo sarà sempre la malattia dei nervi che “ti cambia/che è il contrario dei vent’anni dell’emozione pura”. Forse mi illudo, e l’illusione è per gli sciocchi, ma credo che, nella tempesta, dobbiamo trovare il nostro equilibrio, continuare a gettare ponti, lasciare che la cortina di polvere di questo mondo ogni tanto si diradi, avere il coraggio degli illusi o degli innamorati o dei venticinquenni.