Venezia 74 – Un caso di Realtà Virtuale
di Lorenzo Esposito
Quando due anni fa Tsai Ming-liang presentò a Venezia l’inquadratura fissa intitolata Afternoon, dove un regista e il suo attore feticcio (Tsai Ming-liang stesso e Lee Kang-sheng), installati nel quadro bucato di una casa diroccata, consumano una delle ossessioni amorose più sconcertanti e appassionanti della storia del cinema, l’ingenuo accostamento fatto dai più con certa tendenza museale dell’ultim’ora era già di per sé disinnescato dall’ambizione tutta umanistica e apocalitticamente intrecciata all’annuncio del cineasta taiwanese di non voler fare più ‘film’.
Semplicemente ci si ritrova in un acquario: due voragini nel muro, oltre le quali si increspano, battute dal vento e dalla luce, le cime degli alberi che declinano in profondità in quella che sembra una foresta, o una valle, o un sistema di colline. I due attori parlano, ridono, piangono, ricordano, restano in silenzio (cioè, più che altro, Tsai Ming-liang parla piange si dimena disperatamente e Lee Kang-sheng protrae i suoi proverbiali silenzi in una zona molto vicina, vicinissima al disumano…). E se allora ci si poteva domandare che cinema fosse questo e se alludesse a ciò che fa sempre del documentario l’ipotesi più ambigua possibile di quello che di solito ci affrettiamo a indicare come il nostro rapporto con la realtà, la domanda si complica sensibilmente oggi di fronte al ritorno di Tsai Ming-liang sul medesimo set per girare, sempre con Lee Kang-sheng, un’opera-film di Realtà Virtuale, cinquantacinque vertiginosi minuti intitolati The Deserted (Venezia 74 organizza addirittura un Concorso in VR quest’anno, con breve tragitto acquatico in vaporetto e isolotto del Lazzaretto dotato di postazioni per visione con casco secondo il metodo degli stand-up, installazioni e appunto film veri e propri).
Ma restiamo ancora un poco su Afternoon. L’inquadratura fissa, che per l’appunto non ha nulla di museale, è semmai ulteriore inganno, che gioca al suo interno un movimento irrefrenabile, vibrante fra l’elettricità delle circuitazioni cromatiche e gli smottamenti del cuore (senza contare la testa dell’operatore che ogni tanto compare nel plan; senza contare l’ambiguità con cui Tsai Ming-liang stesso, da oggetto del film, accede, all’inizio e alla fine, a quella ulteriore di soggetto-regista – il cut d’avvio e, prima di chiudere, l’ordine: “Aspettiamo che cali la luce”). Il cinema agisce in una zona che precede (e poi forse concede) i suoi autori. In Afternoon il fatto incontrovertibile è che il metodo di Tsai Ming-liang, partire sempre da un campo lungo e progressivamente stringere e stringere fino ad arrivare a un primo piano infinito e bagnato dalle lacrime, qui è genialmente rovesciato, l’inquadratura unica e la vita privata messi in campo sono subito da sé un primissimo piano, ingannevole e ambiguo come può esserlo solo la vita privata (privata di cosa poi?), e le figure possono allora sostare in un campo medio/lungo, col volto in ombra, che ingaggia la sua battaglia con ciò che si vorrebbe svelare ma che forse è già malinconicamente svelato, strenua difesa contro il visibile.
The Deserted riparte da qui. Il set è, come detto, la stessa fila di edifici abbandonati e diroccati immersi nella foresta taiwanese. La prima inquadratura mostra Lee Kang-sheng su un divano vittima dei suoi leggendari problemi alla schiena e al collo (filmati a lungo da Tsai Ming-liang a partire da The River), che regola con le dita una sorta di macchinetta elettrica che lo punzecchia sulle spalle per mezzo di piccole terminazioni nervose. Sulla destra la grande attrice Lu Yi-Ching (anch’essa nel ruolo leggendario di madre in molti film di Tsai Ming-liang) sta cucinando e bollendo qualcosa. Sul fondo, oltre le mura scrostate e bucate, verdeggia la foresta. Tutto ciò, al di là della tecnica, funziona come forma di riconoscimento che reimmette lo ‘spettatore’ in un processo di familiarità con i film di Tsai. L’impressione è quella di trovarsi in un abisso o, di nuovo, nel fondo di un acquario (acqua, pioggia, umidità, riflessi scorrono ovunque). Ma siamo in un’esperienza di Realtà Virtuale e dunque il visitatore può cambiare il proprio punto di vista e per esempio guardarsi alle spalle, oppure auto-dronizzarsi con panoramiche palmo a palmo del pavimento o del soffitto: ecco allora l’inizio di un corridoio, alte mura grondanti liquidi e muffa, la foresta di fuori… Da qui in poi ogni singola scena-inquadratura ci pone al centro dell’azione (pur con differenti posizionamente all’interno delle stanze): ma il fatto è che il viaggiatore virtuale può decidere di non guardare. Letteralmente. Non guardare guardando altrove. Virtuale implica significa finanche avvicina l’invisible? Forse. Intanto implica, dato l’aggiornamento difficile della tecnica in questione rispetto alla morbida intensità della pupilla, un vero e proprio accecamento. L’occhio, cui il casco dona l’onnipotenza di una visione a trecentosessanta gradi, è in realtà costretto a uno sforzo continuo di continua messa a fuoco e di abitudine ai salti nel vuoto e alle oscillazioni abissali di prospettiva. Scordatevi di poter cogliere i tratti dei volti o la precisione dei dettagli; accettate la vostra nuova vita grandangolare e concentratevi a camminare lo spazio…
Nella scena successiva vediamo Lu Yi-Ching aggirarsi in un piccolo orto, mentre Lee Kang-sheng si prende cura delle piante. Tutto intorno una giungla di alberi e colori: verde, rosso, blu. Poi Lu Yi-Ching lascia la casa, la si vede camminare in strada e scomparire, ma alle nostre spalle c’è già un’altra donna più giovane vestita di bianco che da altri palazzi spellati osserva la strada dall’altro lato. Da questo momento in poi Lee Kang-sheng rimane solo in una sorta di dimensione parallela (non diremo virtuale per ciò che attiene al narrative), un quasi-sogno dove la giovane donna sembra prendere il posto della madre, si aggira come un fantasma nelle stanze vuote, siede allungandosi sulle mura mentre una rana le striscia sul vestito, fa sesso con Lee Kang-sheng in una grande vasca battuta dalla pioggia e dove Lee galleggia nudo giocando con un grande pesce (il pesce diventa la ragazza?). I due si baciano e lentamente spariscono nel fondo come ombre d’acqua. Se state guardando questa scena o se volete non guardarla sappiate che intorno a voi e alle vostre spalle le mura a strapiombo e la foresta giganteggiano. Poi. Lee e la ragazza sono sdraiati su un materasso. Cominciano a ridere. Lei si alza e lascia la stanza sempre ridendo. Di nuovo è resta solo, non smettendo mai di ridere. Di nuovo nell’altro lato della stanza grandi buchi sostituiscono le finestre e mostrano la foresta. Ultima inquadratura. La stessa camera dell’inizio, ma stavolta siamo fuori sul terrazzo. Lee sta cucinando e si siede a mangiare. Dietro di noi scende una notte calma a proteggere la foresta. Parte una canzone, “Passion eyes”, titolo forse più giusto per questo eccezionale caso di Realtà Virtuale.