Europa vista dalla luna: intervista a Steven Brown dei Tuxedomoon
Tales from an european journey: Steven Brown e l’Europa dei Tuxedomoon
di Mirco Salvadori
traduzione a cura di Andrea Aguzzi
da Sud n°50
Sembrerà strano chiedere ad un americano nato in Illinois e residente in Messico cosa rappresentava il vecchio continente per chi, negli anni a cavallo tra i ’70 e gli ’80 lo vedeva da oltre oceano. Eppure è una domanda che giunge quasi spontanea, se pensata dopo aver conosciuto Steven Brown, la musica e il lungo percorso dei Tuxedomoon, una formazione che incarna la purezza dell’avanguardia cresciuta in un’Europa vissuta come terra ritrovata, forse mai del tutto abbandonata.
Mirco, prima di rispondere alle tue domande vorrei solo condividere alcuni pensieri sul tema più ampio riguardante il vecchio continente. Ho sempre creduto nel ruolo fondamentale degli artisti, lo stesso rivestito dai re, gli eserciti e le chiese nella creazione della futura Europa. Tra il ‘700 e l’800 del primo millennio, nel vostro continente sono vissuti Goethe e Byron e Shelley e Keats e Wagner, per citarne alcuni. Questi uomini attraversavano l’Europa, le Alpi, i fiumi e le valli spesso a piedi, prima ancora che tale luogo esistesse ufficialmente. Si potrebbe dire che già covava un ideale nelle menti dei grandi pensatori e artisti. Inconsciamente stavano tessendo un futuro basato sull’ identità europea. Già a quel tempo le frontiere per loro non esistevano: i trovatori, i protagonisti della commedia dell’arte e le piccole compagnie teatrali si muovevano costantemente, senza dimenticare gli innumerevoli pittori espatriati. In un certo senso i Tuxedomoon, con umiltà, hanno seguito il loro esempio come europei della seconda e terza generazione sradicata dall’Europa.
Per molti di noi, estimatori della prima ora, ascoltare brani come In A Manner Of Speaking o The Cage, Les Six, A Piano Solo, Egypt, Time To Loose, Soma, ecc. – tracce che ho scelto d’impeto, a memoria – rappresentava una sorta di salto indietro nel tempo, quell’ascolto ci portava a respirare l’atmosfera satura di frenesia artistica imperante dentro gli indefiniti confini di una mitteleuropa sempre vista come ricettacolo di passioni. La vostra musica ci immergeva nel fumo dei caffè letterari parigini e nella frenesia dei circoli lettarari del primo ‘900. Voi eravate coscienti del potenziale immaginativo scatenato dalle vostre composizioni, era quella la via idealmente percorsa dai Tuxedo o il vostro fine era altro.
Tu fai riferimento alla natura paradossale di un’intervista ad un americano che parla di Europa. Dire che un gruppo di musicisti e artisti provenienti da San Francisco è riuscito a trasportarvi nella Parigi fin de siècle e nel glorioso passato mitteleuropeo può suonare assurdo. Poi però penso ai Rolling Stones, gli inglesi che hanno introdotto milioni di persone, negli Stati Uniti e in tutto il mondo alla musica afroamericana del ventesimo secolo. Oppure i Beatles che si sono evoluti da “I wonna hold your hand” alle tecniche in studio di Stockhausen. Per molti di noi il primo contatto avuto con Stockhausen e la tape-music è arrivato attraverso interviste con i Fab Four. Ecco, forse abbiamo bisogno di condotti o di filtri per elaborare i nostri sogni e i nostri desideri nascosti. Altri esempi potrebbero essere Philip Glass, Steve Reich e Terry Riley, che trasformarono il mondo attraverso il proprio suono usando stili impensabili come per esempio la musica minimalista orientale di Bali e non solo.
A volte il termine “straniero” “étranger” “outsider” ci fornisce solo il giusto contatto per apprezzare qualcosa che non potremmo altrimenti percepire. Un esempio di questa torsione o cambiamento di percezione provocato dallo “straniero”, anche se negativo, è il cosiddetto “Malinchismo”, qui in Messico.
Malinchismo si riferisce all’idea comunemente diffusa in questa terra, che qualsiasi cosa straniera sia migliore o preferibile a qualsiasi cosa nazionale, sia essa formata da uomini o oggetti.
Il nome deriva da “la Malinche” la donna indigena che è diventata amante di Hernan Cortez. La donna mayana che ha preferito l’europeo alla propria gente.
Certamente siamo stati immersi nella musica europea per lungo tempo prima di arrivare in Europa. Ricordo di aver usato Schoenberg per una colonna sonora di un film super 8 realizzato al liceo e ancora, al San Francisco City College ho conosciuto Blaine (Reininger), assieme andavamo a vedere le mostre sui futuristi e amavamo ascoltare i Kraftwerk, Bowie e Eno, per dire.
Che aria si respirava nella San Francisco fine anni ’70.
San Francisco, a metà degli anni settanta, era ancora immersa nel crepuscolo dorato degli anni Sessanta. Ho vissuto in un comune del distretto di Haight; gay, uomini, donne e cani tutti vegetariani e tutti talentuosi artisti a tempo pieno.
Ci siamo formati come tutti, in quei tempi, all’interno di questa comune dove ho avuto la ventura di diventare un membro del gruppo chiamato Angels of Light. Figli e figlie di Duchamp o Breton che hanno lavorato a rendere la vita quotidiana un’opera d’arte, anche grazie alle loro produzioni teatrali. Nessuno di noi andava al negozio all’angolo senza indossare qualche costume o altre stravaganze. Dal lato politico gli Angels erano sostenitori della cultura “free” di San Francisco. Credevamo che tutta l’arte doveva essere libera. Gli Angels non facevano mai pagare un biglietto e per farne parte non potevi avere un lavoro normale (un’influenza del situazionismo?) o essere coinvolto in qualsiasi cosa che comportasse un pagamento. E così quando ho iniziato a suonare con i Tuxedomoon in bar o in locali dove si facevano pagare ho dovuto lasciare il gruppo. Erano tempi inebrianti.
Il Punk ha aperto i portali, ha rotto la musica commerciale che ci ha tenuto in scacco per anni. E anche se in un primo momento fu difficile, fu grazie a questa ribellione culturale che la creatura Tuxedomoon poté crescere.
Che ne pensavate del movimento di protesta europeo di fine anni ’60, aveva lasciato traccia nella San Francisco psichedelica di quegli anni?
Il movimento studentesco e quello dei lavoratori del ’68 si era diffuso oviamente in tutto il mondo. Per quanto riguarda il suo impatto su San Francisco negli anni ’70 però, la mia sensazione è che la Bay Area si fosse già reinventata tutto senza l’aiuto di Parigi… le comuni, le cooperative, gli hippies i movimenti neri e quelli delle donne e poi i gay, tutto era già accaduto negli anni ’60! C’era uno zeitgeist vero. Ecco il perchè del nome “Holy Sixties”. A Berkeley si, loro erano più in linea con quello che stava accadendo in Europa in quel momento.
Quale è stato il vostro primo contatto con la cultura europea contemporanea e cosa vi ha spinto ad attraversare l’oceano.
Il mio primo contatto è avvenuto attraverso la musica e il cinema: Kraftwerk, Bowie, Eno, Fellini, Pasolini, Fassbinder. I loro messaggi parlavano di un altro spazio e del tempo, qualcosa di diverso e nuovo. Qualcosa di più serio e interessante degli USA. Winston (Tong) e Bruce (Geduldig) erano già stati in Europa come duo, l’agente di Winston a Parigi è diventato l’agente europeo di Tuxedomoon e via, ci siamo diretti verso l’Europa che per noi era come un altro pianeta. Quando abbiamo deciso che era ora di lasciare San Francisco pensavamo di avere 3 opzioni: Los Angeles, New York o l’Europa. Abbiamo scelto quest’ultima in parte incoraggiati da Winston; in un modo incredibilmente ingenuo, quasi infantile, siamo saliti sopra un aereo e abbiamo iniziato a muoverci senza piani prestabiliti, siamo andati… e siamo rimasti.
Come si immaginava Steven Brown questo continente, la sua cultura e come lo ha realmente trovato una volta sbarcato dentro i suoi confini nei primi anni ’80.
Il primo anno trascorso a Londra e poi a Rotterdam fu quanto di più lontano dalla scena californiana ci si potesse immaginare: freddo e grigio… persone e paesaggi. Penso che in qualche modo la mia natura malinconica ne fosse felice. Ma alcuni di noi si lamentavano molto, desiderando il calore della California.
Ricordo che durante il nostro primo giro in Olanda eravamo in un furgone e cercavamo il posto in cui avremmo dovuto suonare (un centro giovanile sponsorizzato dal governo, sconosciuto negli Stati Uniti). Abbiamo chiesto informazioni ad una ragazza in bicicletta che ci ha detto di seguirla. Le siamo stati dietro per qualche chilometro, abbiamo seguito quella ragazza su una bici per qualche chilometro e siamo arrivati alla nostra destinazione grazie al suo aiuto. Questa prima percezione degli Olandesi e dell’Olanda è stata confermata nel corso degli anni. Naturalmente ci sono molte altre storie in altri paesi … ma un’altra volta? Un altro posto? Forse…
Che mi dici della nostra penisola, quella che mi sembra sia come una vostra seconda casa.
Mia madre era italiana. Il suo cognome era Fuga. L’architetto del XVIII secolo Ferdinando Fuga è un parente lontano. L’Italia è diventata una seconda casa, sì. Ogni volta che visito il vostro Paese non vorrei più andarmene. Qui si ncontrano nuovi amici, si impara la lingua e si conoscono sempre nuovi luoghi. La bellezza fisica dei paesaggi, la storia, l’arte… inebrianti.
Due sono le domande che volevo porti da tempo, questa occasione mi permette di farlo. Quale secondo te, tra tutti i lavori dei Tuxedomoon, é quello pensato e ideato con modalità contenuti ed intenti cari al vecchio continente.
La risposta ovvia a questa domanda è il poco conosciuto “Les Six” dal cd Joeboy in Messico.
La seconda ed anche ultima domanda della nostra chiaccherata: Luigi Tenco.
Un’estate dovevo fare la cover del disco di un cantautore italiano degli anni sessanta. Ho chiesto per i suggerimenti. Penso sia stata Velia Papa ex agente italiano dei Tuxedomoon e direttore del Festival di Teatro Polveriggi che mi ha fatto conoscere questo cantante. Alla fine dovevo scegliere tra Gino Paoli e lui. Mi piacevano entrambi ma ho scelto Tenco perché è il cattivo ragazzo dei due. Mi piaceva la tensione e la tematica delle sue canzoni… e naturalmente “suicide is sexy”.
Come in tutte le intervista canoniche il finale è destinato al tempo a venire, tuo e dei Tuxedo. Ce lo sveli?
Cinema Domingo Orchestra è un progetto che ha le sue radici nella Bruxelles dei primi anni novanta con il vecchio amico Alain Martel, una collaborazione continuata qui in Messico negli ultimi 15 anni. Siamo un gruppo di 4-6 musicisti che compongono e realizzano le colonne sonore per film muti poco conosciuti. Quello che è iniziato come intrattenimento fai da te con gli amici, è diventato un progetto professionale che ora coinvolge festival e teatri in tutto il paese. L’anno scorso siamo stati commissionati per la seconda volta dall’Istituto Goethe del Messico per mettere in musica gemme silenziose recentemente restaurate e poi suonare per le loro prime nazionali. Il 2 novembre di quest’anno, per il Giorno dei Morti, ci esibiremo con il film italiano Rapsodia Satanica di Nino Oxilia del 1917 che vedeva la diva Lyda Borelli come protagonista. Sorprendente simbolismo di mixaggio cinematografico e immagini preraffaelite con la storia di Faust in versione femminile, decorazioni art nouveau e sezioni dipinte a mano.
Ensamble Kafka è un quintetto inaugurato nel 2010 dopo aver messo in musica il film documentario El Informe Toledo del regista Albino Alvarez. È stato nominato per un premio accademico messicano. Julio Garcia è il fedele compositore e il mio partner in Kafka. Suona l’oud, la jarana, la chitarra. Gli altri strumenti sono Tuba, Trombone, Tromba e io con il sax e il clarinetto. La nostra è musica contemporanea messicana. Mentre giochiamo con i brani messicani tradizionali, il nostro obiettivo è quello di creare una nuova musica tradizionale. Abbiamo appena finito il nostro secondo cd. Lo pubblicheremo presto
Nel 2014 Blaine (Reininger) è venuto a Oaxaca per un mese e abbiamo composto e registrato Monte Alban. Pubblicato su Independent Recordings nel 2015, la musica è per pianoforte, violino, organo e sax.
L’estate scorsa, mentre eravamo a Bruxelles a fare le prove per il tour imminente, Peter Principle improvvisamente ci ha lasciato. Peter (Pierre) era la roccia dei Tuxedomoon. Ha creato il terreno su cui poter resistere, lui era il fulcro. Uno dei tre sul palco, quello che sosteneva tutto il lavoro.
Purtroppo ci ha abbandonati, rimaniamo Blaine, Luc (Van Lieshout) e io, continuiamo a lavorare insieme, come da quarant’anni a questa parte.
L’ultimo disco dei Tuxedomoon e l’ultimo registrato con Peter è Blue Velvet Revisited insieme al gruppo Cult With No Name. È una colonna sonora per un bellissimo documentario fatto oltre 30 anni or sono da Peter Brantz durante la realizzazione di Blue Velvet di David Lynch.
Senza nessun suono sincronizzato e con una bellissima fotografia questo film evoca la magia di Lynch in modo veramente originale.
Joeboy continua a viaggiare, Joeboy continua a suonare.
intervista pubblicata su Sud n°50