Una zona un po’ onirica nella nostra storia
di Antoine Volodine
traduzione di Federica Di Lella
Lisbonne, dernière marge è il romanzo di Antoine Volodine che preferisco tra quelli che ho letto. Sono molto contento che, con il titolo Lisbona, ultima frontiera, sia stato pubblicato in Italia nell’eccellente traduzione di Federica Di Lella. Ringrazio Federica e le Edizioni Clichy per il permesso di riprodurne qui un brano. a.r.
E poi, come l’eruzione di una lava trattenuta per mille anni, per centoquattordici anni, per ottocento generazioni o per una sola, il tempo non contava, non era mai stato misurato in quel modo, un pozzo scavato fino alle viscere materne della terra e del passato resta semplicemente un pozzo, una voragine la cui profondità non aumenta anno dopo anno o, se aumenta, lo fa di pochissimo, o comunque in maniera incongrua, è un crepaccio assoluto e nero le cui dimensioni hanno come unità di riferimento solo il caos, e poi grida caotiche, allucinazioni caotiche di tempo e di spazio, squarci caotici in cui pochi mesi orribili valgono secoli, e quindi lei (Ingrid) avvertiva e sentiva tuonare dentro di sé quel fango mugghiante e caldo emerso dagli antri più inesplorati della società, emerso dalle oscure gallerie comunicanti con le cavità inconsce della sua mente, e quindi quella lava tanto faticosamente repressa e oppressa le affiorava di colpo alla coscienza e fino al bordo interno delle labbra, e terribilmente amara e sferzante, cocente e imperiosa, esigeva di colpo di essere eruttata all’esterno e di esprimersi in modo libero e schietto, e poi: E tuo padre, Kurt, ti ricordi di tuo padre? Nemmeno tu, eh, proprio come me, riesci a ricordarlo? Abbiamo vissuto tutti e due schiacciati dalla sua assenza e istupiditi dalla negazione della sua esistenza, come nelle famiglie franchiste spagnole alla fine degli anni Trenta, quando, a quanto dicono, al riparo dallo sguardo sbigottito dei figli, si ritagliavano via dalle foto le facce degli zii e dei padri repubblicani, quando ci si accaniva, fra le preghiere, l’acqua santa e gli scialli neri che sapevano di sacrestia, che sapevano di corpi mal lavati di monache, quando ci si accaniva a inventare per loro, per quei rampolli effeminati, un mondo senza zii e senza padri, in cui continuavano a respirare o ad arrancare solo militari, bottegai e preti, e tutti e due ci siamo ritrovati in un’atmosfera altrettanto ottenebrata dieci anni più tardi, dopo la sconfitta della Germania eterna, e non abbiamo potuto sfuggire alla stessa subdola lobotomia, e allora anche qui da noi la gente ha iniziato a puntare le forbici verso la propria foto, a puntare l’avida lama delle cesoie verso la propria faccia, nelle città devastate si sentiva echeggiare il clicchettio di quelle autocensure e di quelle automutilazioni, la nostra infanzia era cullata dal cicalio delle macchine che cucivano le cicatrici, e sentivamo gli hitleriani sanguigni e consanguinei estirparsi dal codice genetico e dalla memoria e dall’intimo della loro stessa carne, già infiacchita dalla socialdemocrazia e dalla birra, ogni traccia di possibile compromissione con il passato compromettente, e tutt’a un tratto gli zii in uniforme della Wehrmacht negarono di aver mai vissuto un qualsivoglia slancio di entusiasmo per un qualsivoglia Führer, e negarono i geloni che ogni inverno gli spaccavano le dita sul fronte bielorusso o ucraino, e negarono di aver dipinto in caratteri gotici cartelli destinati a indicare la qualifica o la categoria degli uomini e delle donne impiccati a balconi pericolanti o a rami di tiglio, di colpo zii e padri non riuscirono più a ricordare le frasette elementari che li avevano aiutati ad affrontare il freddo e le battaglie, e che li avevano aiutati ad alimentare il loro odio durante gli interminabili anni del Terzo Reich millenario, e tutt’a un tratto non sapevano più se avevano saputo o no dell’esistenza dei campi della morte, di colpo la parola sterminio e l’espressione soluzione finale suonavano come vocaboli sconosciuti e anche decisamente stravaganti e del tutto estranei alle loro orecchie, e negarono di aver attraversato l’Europa con gli stivali tirati a lucido e poi di essere tornati indietro in colonne spaventose, coperte di polvere e di piaghe incancrenite, negarono tutto e di colpo, quando eravamo ancora quasi in fasce, venivamo a sapere che non c’era stato niente di speciale nelle nostre città, che non era accaduto niente di spettacolare nelle nostre capitali ancora ammorbate dalla puzza di bruciato della disfatta e del crollo, no, chi vi ha raccontato queste idiozie? niente di niente, la vita era scandita solo dagli incontri amichevoli fra zii e zie oppure fra vicini, dal caffè macchiato della merenda e dal tranquillo ticchettio dell’orologio, venivamo a sapere che non stavano ricostruendo nulla, che tutto era sempre stato così, cristianodemocratico e atlantista e socialdemocratico, di una calma e di una mollezza e di una noia timorose, languide, infinite, e a parte questo venivamo a sapere che c’era stata una zona un po’ onirica nella nostra storia, di importanza trascurabile del resto, a giudicare dalla tranquillità con cui gli adulti ne smussavano gli spigoli e ne cancellavano le sbavature ineleganti, e constatavamo che in quell’abisso incolore i nostri padri e i nostri zii si erano dissolti, la guerra non era esistita, i vaneggiamenti nazionalsocialisti non avevano preso forma, non erano andati oltre lo statuto insignificante di chiacchiere da caffè di filosofi isterici, non avevano mai fatto irruzione nella realtà e non avevano mai dilagato per le strade tedesche né negli animi tedeschi, il Terzo Reich era stato solo una variante più o meno segreta di una fiaba apocrifa dei fratelli Grimm, e neanche i nostri padri e zii erano mai esistiti, né le loro mogli o le loro future spose, né la nostra infanzia, ancora troppo piena di macerie, ancora troppo vicina ai crateri delle bombe e ai convogli pieni di storpi e ai filmati raccapriccianti su Dachau e Bergen-Belsen, e tu non avevi mai avuto un padre, Kurt, nemmeno tu, anche solo l’idea che fossi in qualche modo legato all’Obergefreiter Wellenkind che aveva perso una mano e un occhio nel centro di Berlino, quell’idea era diventata aberrante, come un brutto pensiero nato da un sogno, che al risveglio cerchiamo di dimenticare o almeno di non comunicare a chi ci sta accanto, e i concetti stessi di padre e madre si svuotavano di senso, ormai si basavano solo su una convenzione linguistica, si erano trasformati in mere costruzioni verbali alle quali era impossibile prestare fede, l’Obergefreiter Wellenkind non aveva nulla di reale, nessuna nascita, nessuna infanzia e nessuna giovinezza, e la sua giovane moglie, che probabilmente sotto sotto aveva esultato all’epoca della notte dei cristalli e che forse non aveva mostrato grande riluttanza a sbraitare ritmicamente Sieg Heil! quando glielo avevano chiesto, la sua giovane moglie allo stesso modo perdeva adesso ogni sostanza materna, si era scarnificata di ogni possibile infanzia e giovinezza, e di quel lungo periodo restava solo il ricordo di qualche conversazione insignificante davanti al caffè macchiato pomeridiano, oltre alla vecchia pendola tirolese scampata al disastro, che con la sua presenza e i suoi cinguettii era la dimostrazione che il disastro non era accaduto, e anche tu, Kurt, ti preparavi a scomparire in quello spazio bianco né accecante né doloroso né definibile in alcun altro modo, in quel nulla assoluto, inconcepibile e inconcepito, per emergerne a tua volta adulto e senza memoria, e, quanto a me, anch’io facevo quasi nello stesso momento, all’inizio degli anni Cinquanta, l’esperienza di quel silenzio, e lo sai, Kurt, ne siamo emersi feroci come lupi, in campi diversi, tu lupo adulto dell’ordine socialdemocratico e io lupa adulta della rivolta contro tutte le porcherie nauseabonde dell’Europa, ma, che lo vogliamo o no, siamo dello stesso sangue, io e te, e io ricordo questa assenza di memoria, e il rumore dei cantieri della ricostruzione che non ricostruivano ciò che era stato distrutto e sconfitto e coperto di vergogna o di sale, perché niente era stato distrutto, perché le camionette e i carri armati degli Alleati erano lì da sempre, e da sempre l’odore di cipolla dei soldati francesi e le esalazioni delle colonne britanniche o americane in marcia impregnavano l’aria, e niente e nessuno era stato coperto di vergogna, e, siccome tutto era chiaro e senza zone d’ombra, mio padre aveva sempre lavorato in un’azienda elettrica, sembrava addirittura un po’ assurdo immaginare che un giorno potesse essere nato, che avesse avuto un’infanzia e poi l’età per andare sotto le armi e per acclamare un eventuale Fürher, no, mio padre aveva lavorato ininterrottamente come radiomontatore, era venuto al mondo davanti a una catena di montaggio, non era mai stato padre, il modesto Gefreiter Vogel non era mai stato sballottato su un carro bestiame diretto al fronte russo, e non era mai stato costretto a tornare indietro a piedi, chilometro dopo chilometro, dalle bombe sovietiche, e non era mai stato ferito all’anca in Polonia, no, il Gefreiter Vogel era sempre andato al lavoro zoppicando, e sua moglie non aveva mai sentito sfilare la Gioventù hitleriana, né era corsa a unirsi al corteo, l’uno e l’altra avevano sostenuto da tempo immemorabile i principi e gli obiettivi dei cristianodemocratici e dei socialdemocratici, confondendone le diverse sfumature all’ora del caffè macchiato, e, stammi bene a sentire, Kurt, mio bel mastino, siamo veramente dello stesso sangue, io e te.
E disse:
«Non ti preoccupare, nel libro tutto sarà indecifrabile e deviato su percorsi indecifrabili, anche la nostra infanzia».
Antoine Volodine, Lisbona, ultima frontiera, traduzione di Federica Di Lella, Edizioni Clichy, 2017, p. 256.
è il romanzo di Volodine che preferisco anche io. Stupisce si sia aspettato tanto per tradurlo; meglio tardi che mai