Paoletta
di Emanuele Kraushaar
Paoletta me la ricordo bene. Era mora e piccola. Era più bella delle altre di molte volte.
Anche era più silenziosa delle altre.
Era un giro avanti a tutte e io nel bosco col fazzoletto al collo mi ero innamorato di lei, e lei mi aveva chiamato con il nome di un altro e allora io nel bosco le avevo risposto che non ero lui, perché avevo paura che poi lui mi avrebbe fatto del male, perché io sempre avevo paura degli altri e soprattutto del dolore, che qualcuno mi spegnesse una sigaretta addosso, com’era capitato alle medie, o mi facesse girare tenendomi per i piedi sfiorando la polvere, i sassi e ancora la polvere con la testa, o mi dicesse che ero un verme schifoso coi capelli, uno più grande una volta mi aveva detto proprio così, che ero un verme schifoso con i capelli e poi si era gettato sul corpo di una mia compagna di classe e tenendola ferma sul pavimento le aveva sfilato i pantaloni, mentre uno più piccolo di lui le saltava addosso o forse il piccoletto era una mia allucinazione e io vedevo davanti ai miei occhi i lividi che si formavano come fiori sulla sua pelle; io comunque avevo paura di tutto, anche se Paoletta nel bosco voleva me, mentre gli altri erano intorno al fuoco e anche il suo ragazzo con le labbra enormi era davanti al fuoco, e lei mi chiamava col nome del suo ragazzo e faceva apposta confusione, forse anche lei aveva paura, ma lei aveva anche le idee chiare, voleva sfiorare le mie labbra, mettere la sua lingua nella mia bocca e poi tenere gli occhi chiusi per sempre, perché certi momenti uno vuole che non finiscono mai e Paoletta voleva stare appiccicata a me con le sue labbra sulle mie per sempre, per sempre voleva starmi attaccata e ramificare ogni cosa dentro e fuori di me, ma sempre con me accanto e in effetti lei non aveva più paura, o meglio forse aveva paura e anche freddo, ma non le importava più di tanto, stava scivolando verso di me alla velocità della luce che è la velocità di chi si innamora e non ha più tempo per nient’altro e non gli importa più nulla, io invece avevo iniziato a tremare un po’ per il freddo, un po’ per il pensiero del suo fidanzato e delle sue labbra enormi che mi avrebbero potuto risucchiare e per un attimo mi venne da pensare che quello mi avrebbe messo la lingua dentro la bocca e magari sputato e fatto urlare di dolore giusto per il gusto di farmi urlare, e poi mi avrebbe costretto a dire il nome di Paoletta più volte, e allora io avrei gridato Paoletta Paoletta Paoletta, magari l’avrei detto cento volte o anche duecento o all’infinito avrei ripetuto Paoletta Paoletta, perché il suo fidanzato voleva così, che ripetessi Paoletta e stessi in ginocchio di fronte a lui, tenendomi stretto tra le sue mani gigantesche come le sue labbra che ogni tanto si staccavano per fare uscire la lingua che mi leccava sui capelli e magari io per un attimo mi sentivo veramente un verme schifoso coi capelli, e avrei voluto dirgli che Paoletta aveva scelto me e scegliendomi nel bosco mi aveva chiamato con il suo nome, e quello avrebbe sfilato la cintura dai suoi pantaloni e avrebbe iniziato a frustarmi, ma la verità è che tutte queste paure erano racchiuse in una piccola parte del mio cervello che non contava quasi nulla, mentre Paoletta mi soffiava addosso il nome del suo fidanzato scambiando le nostre parti e così la mia voce usciva dalla bocca per dire che non c’era il suo fidanzato nel bosco, ma c’ero io, che il suo fidanzato era davanti al fuoco, e che lei stava parlando con me, allora Paoletta arrossiva nel buio del bosco e nessuno lo sapeva, lo sapevo io perché io la conoscevo da sempre e da sempre avevo gli occhi attaccati ai suoi; poi all’improvviso mi sono sentito come un piccolo insetto della terra, non un verme schifoso, ma un grillotalpa o un qualsiasi animaletto con le antenne: ero all’altezza dell’erba, mentre vedevo Paoletta sempre più lontana da me e irraggiungibile, con le mie antenne che le sfioravano la parte inferiore delle ginocchia ondeggiando avanti e indietro, allora dal fondo della terra dov’ero finito gridavo il suo nome e dicevo Paoletta Paoletta Paoletta, sperando che si abbassasse al livello dove mi trovavo io e diventasse anche lei un umido insetto della terra, e intrecciasse le sue antenne con le mie, ma Paoletta invece di scendere saliva sempre più in alto, anche se quello era il mio pensiero di lei, non era la realtà che invece era un bosco buio e senza contorni.
Paoletta aveva la pelle un po’ scura e portava i pantaloni corti, aveva le gambe sottili e una piccola vena verde e rossa si vedeva vicino alla tempia; mentre la stringevo a me, sembrava guizzare via oltre gli alberi più alti e la sua vena pulsava accanto alla mia, mentre intorno a noi non c’era più niente.