La canzone + 1 poesia sugli alberi

di Andrea Inglese

 

Io la prima cosa che vorrei fare

la prossima cosa che vorrei fare in tutta la mia vita

è la canzone non scrivere una canzone

dopo alla fine di tutto saprò anche scriverla

ma per la canzone bisogna innanzitutto farla

nella voce come un braccio che si muove

che si alza così alzandosi muovendosi inquieta

in una voce magari mia quasi riconoscibile

magari ancestrale o nuovissima del domani

in un primo tempo potrà essermi familiare

la voce con che parole non è chiaro,

se ci vorranno della parole in cima

alla voce se ne saranno come il tessuto

motivi vegetali di parola adornando una voce

somigliante ma forse no la voce

è ormai portata fuori altrove

è la voce che io ritrovo

nel paesaggio un paesaggio inerme

anche senza fiori ma con la voce

dei muri dei cancelli delle barriere

con una voce comunque

e ci sarà anche una semplice precauzione

da prendere

nella canzone deve entrare

la musica una qualche forma musicale

io non conosco nulla non ricordo di flauti

non posseggo memoria di solfeggi di note

disegnate o lette ma la musica

dovrà entrare al momento opportuno

non dovrà mai lasciare

la voce questo è il destino

la sfida piscologica

di ogni canzone

la parte disumana certo

 

La canzone che ho voglia

di costruire con un voce del tutto nuova

(è importante che non sia la mia voce

ma una voce impropria inappropriata)

giorni fa l’ho pensato che costruire va bene

(guardando tutte le cose a terra

e questa riunione di polveri tra le cose

sono sempre buste pelli che hanno perso

materie fragili nutrienti pelli stracce)

basta in fondo

che sia la voce la mia

ma abbastanza nuova da sorprendermi

come nel corso di una lunga prostrazione

quella voce cavernosa che viene da lembi malati

da cose interne da organi pochissimo ricordati

organi antichi a cui non diamo ascolto

più vecchi di noi della piccola narrazione a nastro

di coscienza minuziosa che si parla ogni giorno

(con la coscienza parlante io mi tengo

aggiornato su di me come sacco d’organi

globale guardandomi al massimo i piedi

di tanto in tanto o le ginocchia)

 

Organi sì ne esistono anche in me

molti dei quali sconosciuti

che ora hanno tutto un male specifico

da cui nasce appunto una sanissima e bella voce

che io costruisco per una canzone qualsiasi

ma una canzone di grande stanchezza

mentre di nuovo provo a correre

ho costantemente terreni da attraversare correndo

nella più completa stanchezza ma sempre

come per un lavoro di perlustrazione sportivo

lungo parapetti di autostrade o fiumi

ma almeno cantando con la canzone in bocca

tutta polmonare ma anche di testa

perché va composta secondo equilibri tonali

che sono per me misteriosi e quindi

dentro l’azione del cantare la canzone

io vengo nuovamente al mondo

come sostanza musicale aria vibrante

mi accordo con la coscienza universale

planetaria l’essere pienamente collassato

che ci attende alla fine della ricreazione

là dove finisce la violenza umana

su tutto quanto ormai

l’ha subita e non può più

per esaurimento di risorse compassionevoli

subirla il grande cadavere terrestre

questo ossario gigantesco e loquace

non mi spaventa più dal futuro

perché la mia canzone viene come la poesia

bella ossia sempre al presente

(come cose monocrome gesti

che sono solamente se stessi)

 

La canzone se è poetica deve farsi grande

con una voce morta è essenziale

il punto fonetico oltretombale l’antico

raspio delle corde interne ma sorto

da sepoltura da lontananza da buio

incalcolabile perché solo da morta la voce

muove

e ha cose veramente da dire

forse che i vivi vanno ascoltati ancora?

avete provato a farli parlare i vivi?

non è forse il problema del canto

il problema numero 1 di ogni canzone

quello di sospendere la parola dei vivi

che vengono in fondo alla vostra giornata

che sarebbe stata serenissima nel silenzio

dei passi delle mani che si lavano degli uccelli

che si posano ovunque lungo fili o rami o cimase

eravamo perfettamente irresponsabili e allegri

in quel gran silenzio di spostamenti

quando sono arrivati i vivi a spiegarci

ci sono cose urgenti della nostra epoca

della nostra arte i vivi sono vivi per questo

per occuparsi con foga della propria epoca

hanno straordinarie idee sull’epoca e sulle tante

cose urgenti da fare l’epoca è una serie di cose urgenti

che tutti a modo loro devono sbrigare e per questo

bisogna ascoltarli fino all’ultimo sospiro i vivi

come una lunga insonne corale prolusione

che bisogna ascoltare seduti senza neppure

soffiarsi il naso

 

Non vogliono fare niente qui

(né i gabbiani né gli impiegati)

non c’è spazio per rimediare

possiamo sciogliere i vecchi gruppi di discussione

si canta e basta si suda e si canta

cominciamo così comincio oggi

da solo per adesso una canzone esiste

con le sue parole non mie non loro

la canzone ha parole personalissime

qualcuno dovrà pure ascoltarle

tendete l’orecchio

 

La canzone forse ha la voce squillante

tutta la voce forse dev’essere piuttosto

cristallina aurorale sciamanica infantile

ma le parole allora questo dev’essere certo

almeno le parole devono essere cosa di morti

parole venute dai morti o che i morti

avrebbero potuto dire ma da morti

non le solite parole dei vivi che tornano

quando sono già morti proprio

le parole della massima stanchezza

quando il corpo ormai esausto può anche

con o senza l’accordo dei dottori vivi

e dei preti benedicenti e dei testamenti biologici

quando il corpo muore e il vivo è morto

allora forse

forse davvero

gli si potrebbe dare non a torto

gli si potrebbe concedere tutta l’attenzione possibile

quando si mettesse a parlare

perché essendo morto non ha più

quella stronza urgenza dei vivi di fare

le cose per l’epoca e di spiegarle per bene

anche al vicino di casa anche

sul pianerottolo

c’è sempre un infernale pianerottolo

dove un vivo annuncia all’altro vivo

come va il mondo

che la televisione da sola

non può fare tutto

 

qui avrei voluto mettere altre parole

un’immagine ad esempio una foto muta

che funzionasse come un’allegoria

ma non medievale piuttosto barocca

cosicché il lettore c’incappasse

come in uno strato di pece che rallenta

e sporca il passo presto verrà il momento

ma non tutto deve essere letto la prima volta

delle immagini assenti ad esempio

è naturale che sfuggano all’interpretazione

 

Sono stanco sono stanco sono stufo – dice la canzone

mi hanno usato sono brutto mi hanno usato

mai abbastanza – di dentro e di fuori –

ci volevano provare vi prego

fatelo di più di me ancora

usate il comodo vostro ai tempi

abusavate di tutto che bello

quando mi sfruttavano da sopra

e da sotto ero stufo ero brutto ero stanco

c’è ancora qualcosa da prendere

da fare usatemi anche solo

per sesso non qualificato

da me libero emancipato non servo

non mi uso mai fino in fondo

datemi ancora del tempo

cosa c’è

da leccare lavare ripetere a ruota

con la mente falsa la lingua robotica?

 

Fate di me un po’ quel che volete – è come un ritornello

ma fatelo con mani delicate di vecchie masturbatrici abili

fatelo con i piedi di vecchi feticisti abilissimi

appena si parla di piedi e mani io spesso ho un’erezione

mai con le metafore di zampe

è una cosa sconsiderata insignificante

ma a suo modo spia di qualcos’altro

più grande di me – io spero che l’inconscio

un giorno il mio inconscio

almeno lui faccia carriera

a me non è andata bene per via anche della poesia

che è proprio dei poeti maledetti che sono stronzissimi

anche tra loro ma non più degli altri

gli stronzissimi non poeti hanno già quasi ovunque

preso il comando del mondo

anche se non ti fanno leggere la loro poesia

tu sei comunque vessato dalle loro stronzaggini economiche

hanno conquistato tutto nell’economia

e ti fanno mangiare tempi economici da qui

al duemila & cento – facciamo la pace dico qualche volta

quando credo in dio quei quattro o cinque minuti

di stordimento

appena mi rialzo però

dalla caduta sul verglas già non mi sembra vero

che sarebbe bello prendersela con uno solo

 

Adesso canto la canzone

canto la canzone della poesia

la poesia è piena è sempre piena

quando tutto il mondo anche selvaggio

il mondo d’alberi di cervi di nottole di minerva

tutto il mondo wild

è vuoto

la civiltà scorre via dalle mani

ma guarda che mani che hai!

sono mani da madamigella

non sono mani vere non sono mani bio

la poesia è italiana ne facciamo a bizzeffe

ne facciamo di poesia tonda

ma è spesso difficile

è complicata da tutte le maniere

la poesia arriva ultima

quando tutti i lettori sono partiti

rimangono i lettori ammattiti

e leggiamo assieme nel fuoco del clavicembalo

(bruciamo per il nuovo anno freddo

bruciamo un clavicembalo)

io canto la poesia ma la poesia canta me

dentro di me aumenta descresce la poesia

è anche una poesia italiana ma senza dialetto

con il canto civile dell’incazzatura economica

canto malgrado il vento contro

qui vogliono stare tutti come stavano prima

ma il prima è quello dei sogni

non sono mai stati bene prima

e vogliono pure ritornarci

ma prima dove?

come siete mai stati prima vi siete visti

com’eravate prima?

ditemelo un po’

di quale cazzo di prima state vaneggiando?

ma le damigelle e i damigelli

vogliono velluti e scarpette in pelo d’oca

ma l’oca è completamente spelata

ma non implume

parliamo come si mangia e come si beve

soprattutto parliamo di bere

 

qui è normale che la canzone s’interrompe

s’interrompe sempre alla fine

nel silenzio solitario della pagina

chi mai avrà letto la canzone fino al punto

ultimo sconfortante senza il messaggio?

nella canzone ad un certo punto

come sempre è mancato il messaggio finale

 

 

Vorrei parlare d’alberi.

La vita degli alberi non è preoccupante.

Quando vedo gli alberi in lontananza, anche in inverno,

gli alberi ischeletriti, gli alberi graficamente fatti,

per sottili nervature, per scheletrini, ma coesi,

come se un contorno esistesse,

un contorno di piuma, un contorno di fiamma,

sono alberi, però, visti da lontano.

 

Sono alberi visti in lontananza,

da una finestra,

con una vista che sorvola,

uno sguardo che si distende nello spazio,

lo spazio è distensivo, è ampio, sembra

illimitato, nello spazio che vedo,

con il mio sguardo sbatto, finalmente,

sulla linea d’orizzonte (sollievo!).

 

Sulla linea d’orizzonte, come prove dell’orizzontalità

del mondo, della sembiante orizzontalità del mondo,

ci sono cielo e terra, il cielo è il biancore che sale,

il biancore è come un gas, un gas colorato, un vapore,

e sale moderatamente, costante, fino all’azzurro,

nell’azzurro poi tutto è azzurro, come fosse una perfezione,

anch’esso un gas, ossia qualcosa di colorato ma immateriale,

questo colore immateriale dell’azzurro, non a caso lo dicono

anche i poeti, è perfettissimo, per la sua uniformità,

è pulito, non ha macchie, di tanto in tanto, non ora,

un aereo, che è un pezzo meccanico silenzioso, se visto

da abbastanza lontano, sembra scivolare, ruzzolare dentro

tutto l’azzurro dolce, ma in modo calmo, senza scalfirsi,

mentre sotto il biancore, anzi, già sprofondati nel biancore

gli alberi ischeletriti dell’inverno fanno testimonianza,

e la terra sappiamo che esiste, una terra, qualcosa che precede

le case, che precede i cubi di cemento, i cubi di mattoni con sopra

incollato fermo l’intonaco, gli alberi propongono

a loro modo, per il mio sguardo, una prima soluzione:

più sono lontani, come fluttuanti dentro il biancore, più sono

di una calma strategica, di una sicurezza pacifica, e in nessun modo

riescono a preoccuparmi, sia per la loro capacità di attendere

in quella forma nuda, in quella condizione dura, spogliata, miserevole

di capillarità esposta, come un segmento di vene sfoderate

dai tessuti di carne, e messo sotto la luce del sole

a seccare, ma non provano orrore di loro stessi, né noi di loro,

talmente ci separano a piccoli colpetti morali

dalla nostra quotidiana preoccupazione.

È quindi uno sguardo propizio, mai antiquato,

quello che può scivolare fino alla linea di orizzonte

sbattendo sulla separazione tenue ma indubitabile

tra terra e cielo, con la testimonianza vegetale autorevole

di quegli scheletri affusolati, in attesa, nel biancore.

 

Ma questa condizione, di vedere alberi, per poterne parlare,

almeno in forma poetica, ossia intima, tra me e me,

dal momento che il secondo me, di solito, non esiste,

perché io parlo agli altri, anche se il pensiero che ci attraversa,

come quello delle cose da fare, il costante pensiero delle costanti

cose da fare – che non vengono mai elencate né contate

una volta per tutte, come fossero parte di un insieme chiuso –

le cose da fare non hanno tregua, né cominciamento né fine,

entrano tutto nel pensiero di notte come di giorno,

e forse anche questo è un parlare tra me e me, ma non

sufficientemente intimo, perché il secondo me si affaccia

stordito, sempre più stordito, sono le cose che parlano

da sole, che mi parlano di loro stesse, mi riempiono

di preoccupazioni di loro stesse, perché queste cose

sono fantasmi, sono solo fantasmi di cose

che attendono l’incarnazione, piramidi rovesciate,

con la punta aguzza su di me, e tutto il corpo, la larga base

rivolta verso il soffitto, queste cose, scendono giù come dallo stretto

collo di una clessidra, quasi una ad una, per incarnarsi, entrare dentro

un gesto, un fare, un’azione, le cose sono da fare, incarnare, buttare

fuori, o non so, sono come delle anfore di creta, che uno lavora al tornio,

all’inizio sono come pasta molle, come terra umida e malleabile,

e farle le cose vuol dire formarle, dare loro la coesione della terracotta

formata fluidamente al tornio, anche se l’analogia si ferma,

non si sa dove sia il momento del forno, dove le cose fatte si cuociono,

forse è il tempo delle conseguenza la cottura, tutto ciò che abbiamo fatto

attende il suo tempo di cottura, e l’uscita imprevedibile dal forno,

se frantumate o combuste, o della solidità giusta,

ma quando parlo di alberi il me che viene in ascolto

è un me sfaccendato, che non deve ubbidire alle cose,

perché gli alberi non sono cose, non portano le solite

preoccupazioni, sono un’immagine propizia,

perché ancora esistono immagini senza preciso governo,

senza preciso algoritmo, supporto tecnico, automazione,

immagini sorgive, senza esagerare con gli entusiasmi,

ma quello che da una finestra può essere visto

e quello che una finestra può far trascorrere

uno sguardo lontano, uno sguardo verso le lontananze,

sono immagini non governate, salvo il quadro

della finestra, che è un punto a favore.

 

[Immagine di Tacita Dean]

 

 

 

5 COMMENTS

    • Grazie Valerio, ma potrei anche rovesciare la formula: potrebbe essere una virulenza metafisica attraversata da una sbronza di Bukowski.

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andrea inglese
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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.