Interférences #15 / Il romanzo come arte. Intervista a Lakis Proguidis sull’Atelier du roman

[Da oggi, presento anche su NI dei pezzi mensili pensati in origine per il sito alfabeta2 e per la rubrica Interférences: interventi di taglio e tema variabilissimi, ma accomunati da interazioni (anche inattuali) con fenomeni francofoni e francesi di società, arti e scritture.]

a cura di Andrea Inglese

A. I. – Sei direttore da 24 anni di una rivista intitolata L’Atelier du roman, nata a Parigi all’inizio degli anni Novanta e che, da allora, non ha smesso d’interrogare, difendere, esplorare le ragioni della scrittura romanzesca al di là di ogni frontiera storica e geografica.

Una delle caratteristiche principali di questo progetto intellettuale è la sua attitudine militante, che rivendica una netta distanza nei confronti del discorso e del gergo accademici. Coerentemente con queste premesse, L’Atelier ha sempre privilegiato la forma del saggio rispetto a quella dello studio specialistico. Quali sono state le circostanze e le motivazioni che hanno accompagnato in Francia la realizzazione di un tale progetto? E per quale ragione vi è un intellettuale, un saggista, insomma uno scrittore greco all’origine dell’avventura? Mi sembra importante conoscere anche un pezzo della tua storia personale, almeno negli anni che precedono la nascita della rivista.

L. P. – Io vengo dalle scienze esatte. Ho esercitato per una decina d’anni la professione d’ingegnere dei lavori pubblici. Ma, fin dall’adolescenza, sono stato un lettore di letteratura, e soprattutto di romanzi. Pensavo che i romanzi mi aiutassero a comprendere la mia epoca. Verso la fine degli anni Settanta, mi sono a tal punto innamorato dell’opera di due romanzieri, Milan Kundera e Witold Gombrowicz, che ho deciso di cambiare vita e di dedicarmi completamente alla letteratura. Il punto comune di questi due scrittori è stata l’esplorazione, romanzesca ovviamente, di un’esistenza umana minata dal pensiero astratto – o, se vogliamo, dall’ideologia –, prodotto tipico del XX secolo. Data la mia formazione e la mia vita di allora, ero nelle condizioni giuste per rendermi conto che avevano ragione. Di questo percorso parlo approfonditamente nel mio ultimo saggio, Rabelais – Que le roman commence !, pubblicato all’inizio del 2017 (Pierre-Guillaume de Roux).

L’idea di fondare L’Atelier du roman ha iniziato a prendere forma in me alla fine degli anni Ottanta. In quel periodo, scrivevo un saggio sull’opera romanzesca di Witold Gombrowicz. Gombrowicz si lamentava spesso nel suo Diario della scomparsa dei “caffè letterari” nella vita letteraria che stava emergendo in Francia e altrove nel corso degli Cinquanta. Mi sono detto allora che un caffè simile, ossia un focolaio di dialogo estetico, poteva rinascere sotto forma di rivista letteraria. L’idea fu accolta con entusiasmo da alcuni amici che, come me, assistevano all’epoca a un seminario sul romanzo che Milan Kundera teneva all’EHSS di Parigi, un seminario cosmopolita.

È del tutto evidente che se Gomobrowicz si lamentava della scomparsa dei caffè letterari non era per nostalgia. Deplorava il fatto che il discorso sull’arte, nel suo tempo, abbandonasse lo spazio pubblico per rifugiarsi negli istituti universitari, nella ricerca supposta scientifica e nei convegni e altri dibattiti di specialisti, ossia di persone risolutamente orientati verso ciò che viene oggi chiamata, senza vergogna, “l’industria del sapere”.

L’Atelier du roman è stato fondato nel 1993. Noi scrittori, che alimentiamo le sue pagine, cerchiamo di dire che un abisso invalicabile separa “l’industria del sapere” (i soldi) dal dialogo estetico (il piacere), al quale è consacrata la rivista. Da una parte, c’è il concetto; dall’altra, l’affetto. Parlo di affetto artistico. Dell’affetto che è proprio dell’essere umano. Di quell’affetto che è presente tra gli uomini e che, per questo, non sarà mai analizzato, quantificato, digitalizzato.

Per quel che riguarda la mia origine, chissà, è forse la lingua di Omero che mi ha reso così refrattario alle potenze dell’astrazione che minacciano attualmente sia l’arte che il commento estetico.

A. I. Siamo confrontati a questo paradosso. Da un lato, il romanzo sembra aver vinto la battaglia per l’egemonia nel mercato editoriale. La sola cosa che potrebbe davvero vendere è il romanzo, la sola cosa di cui gli editori sono ghiotti è il romanzo. Ognuno, oggi, ha diritto di scrivere un romanzo. D’altra parte, più il romanzo si generalizza come prodotto, più l’estensione delle sue frontiere si riduce. La sua forma e la sua lingua si ammansiscono e si codificano secondo le norme dei diversi sotto-generi. Il nostro comune amico (e redattore di lunga data della rivista) Massimo Rizzante citava in un numero recente dell’Atelier questa frase di Alejo Carpentier: “Il romanzo, per me, comincia laddove finisce il romanzo. Appena la gente inizia a dire che non è romanzo, è proprio a questo punto che il romanzo comincia”. Siamo ancora in grado di udirle queste parole?

L. P. – Tutti i miei lavori, L’Atelier du roman incluso, consistono principalmente nel dimostrare che il romanzo è un’arte vera e propria, come la musica, il teatro, ecc. Il romanzo come arte, quindi, è coinvolto quanto le altre arti dal paradosso che tu menzioni. Le opere degne d’integrarsi, di diversificare e di arricchire la storia dell’arte alla quale appartengono e dalla quale traggono legittimità sono rare – come sempre – con la differenza che oggigiorno, per snidarle, devi andare a frugare nell’Himalaya di una superproduzione che si vorrebbe artistica. In questo, i nostri pretesi artisti, così come coloro che di professione si occupano della commercializzazione delle loro opere, non fanno che applicare la legge dell’economia della sovrabbondanza: noi offriamo, il cliente (il drogato) lo fabbrichiamo di conseguenza – d’altra parte, anche i pubblicitari debbono pur vivere, no? Da ciò l’importanza, oggi più che mai, della critica e del dialogo estetico. Insisto su questo abbinamento, perché di critica o, per essere più precisi, di commenti promozionali ne abbiamo a bizzeffe. È il dialogo estetico che diventa sempre più raro. Perché? Perché un tale dialogo presuppone degli individui liberi e autonomi, ossia delle persone che non sono connesse 24 ore su 24 all’attualità.

Quanto all’idea di Alejo Carpentier, ne vedo chiaramente l’utilità. Serve per poter distinguere la creazione dalla creatività, la forma unica dalla fabbricazione in serie, l’opera innovativa dalla doxa. Ma Vargas Llosa parla in qualità di romanziere. Un critico che prende sul serio il suo lavoro non può ignorare l’ontologia dell’arte di cui si occupa. E se è critico letterario, non può evitare di interrogarsi su ciò che unisce, attraverso i secoli, tutte queste opere che hanno fatto la loro apparizione come “non romanzi”.

A. I.Una delle caratteristiche dell’Atelier è senz’altro questa scommessa nel dialogo tra individui liberi e autonomi, un dialogo che si realizza evidentemente nella rivista, attraverso delle discussioni intorno a degli autori (Bulgakov, Perec, Sciascia, ecc.) o a un’opera particolare (Pastorale americana di Roth, Rosie Carpe di Ndiaye, Tworki di Bieńczyk, ecc.) o a delle tematiche (filosofia e romanzo, la francofonia letteraria, l’industria culturale). Ma questo dialogo è anche nutrito da incontri conviviali a scadenza regolare nei caffè di Parigi e anche da appuntamenti più strutturati come Gli incontri di Thélème. Ci puoi parlare più precisamente della forma che questi dialoghi hanno preso nel corso degli anni?

L. P. – Quello che è estremamente difficile di questi tempi è far capire che il vero dialogo – amoroso, politico o estetico – presuppone la presenza fisica degli interlocutori. Lo scambio di messaggi, d’informazioni e di conoscenza per via elettronica non costituirà mai un dialogo. I dibattiti, così apprezzati dai media, tra avversari di cui si conosce già il pensiero non hanno niente a che vedere con il dialogo. Sono delle contese. Ai convegni, simposi e altri incontri, non si dialoga, si giustappongono monologhi. Ho quasi vergogna a dirlo, ma le persone che vogliono condurre un dialogo estetico devono aver costruito qualche legame affettivo tra di loro. È di scambi, di gusti e di piaceri personali che parliamo di fronte a opere artistiche. Non siamo in una competizione economica, sportiva o di altro tipo, dove non ci sono che vincitori e vinti.

Dal momento che ci occupiamo del romanzo, dobbiamo far incontrare le nostre letture, senza escluderne nessuna, senza eliminarne nessuna. L’unico vincitore al termine di un vero dialogo estetico è l’opera d’arte in questione. È l’opera che impone l’amicizia tra i suoi diversi ammiratori. E chi dice amicizia, letteraria o d’altro tipo, dice scambio tra corpi. Altrimenti siamo nel virtuale, ossia da nessuna parte. È così che l’opera d’arte meritevole s’inscrive durevolmente nel tempo e può apparire sempre sotto una luce nuova, per la nostra più grande felicità.

Ecco perché tutte le manifestazioni dell’Atelier du roman si caratterizzano per questo spirito di amicizia. Di amicizia letteraria, intendo. Cosa che non ha niente a che vedere con le relazioni che possono unire i membri d’un qualsiasi gruppo di pressione – di quelli che proliferano vertiginosamente ai giorni nostri. L’amicizia letteraria si coltiva. E, per quanto mi riguarda, cerco di porre questa amicizia al di sopra delle divisioni politiche, nazionali o di altro genere.

Una di queste manifestazioni è quindi l’incontro annuale di Thélème. Si svolge all’abazia di Seuilly (in Touraine) il primo week-end di ottobre e deve il suo nome all’abazia che, secondo Rabelais, il re Gargantua ha costruito per frate Giacomo, volendolo ringraziare dei suoi straordinari servigi durante la guerra contro il re Picrochole. Sul frontone di questa abazia si poteva leggere: FAI QUELLO CHE VUOI. In accordo con questa iscrizione, abbiamo scelto come argomento permanente di questi incontri la Libertà. Ogni anno undici scrittori e una quarantina di persone, che vi partecipano attivamente, parlano della libertà. Ma non parliamo mai della stessa cosa. Ogni anno, infatti, tocca a un nuovo scrittore proporre la visuale a partire dalla quale discutere della libertà. Va da sé che gli scrittori invitati – ogni volta è un gruppo nuovo – non arrivano con un testo già scritto, ma con degli appunti. Vengono per discutere. Scriveranno il testo in seguito. Per il numero de L’Atelier du roman che farà da eco all’incontro al quale hanno partecipato. E un’altra cosa va da sé: non andiamo certo nelle terre rabelesiane per parlare senza bere. D’altro canto, è risaputo dalla più lontana Antichità che non c’è miglior mezzo per costruire un’amicizia letteraria durevole che il vino…

A. I. Mi pare che tu abbia a lungo considerato che non soltanto l’invenzione del romanzo è strettamente legata alla storia dell’Europa, alla sua grande ricchezza di lingue e culture concentrate su una superficie geografica relativamente ristretta, ma che la buona salute di una cultura europea dipende anche dalla vocazione polifonica e critica del romanzo. La cultura europea, infatti, si costruisce grazie a un dialogo cosmopolita, ma anche attraverso i malintesi, le contaminazioni, l’interrogazione libera e insolente delle identità nazionali e del loro passato. Il direttorio finanziario che dirige le istituzioni europee, da un lato, e i nostalgici delle identità nazionali “stagne”, dall’altro, non sembrano più lasciare molto spazio a un’idea di Europa… Si può parlare ancora oggi di una cultura europea e del ruolo che il romanzo potrebbe svolgere nella sua creazione?

L. P. – Non lo so. Condivido in ogni caso la tua affermazione. Riguardo all’Europa (dall’Atlantico agli Urali) lo spirito e la coscienza politica sono stretti tra la cupidità che genera la mondializzazione e l’idiozia che coltiva il nazionalismo. E questo non da eri. Nel mese di dicembre, vent’anni fa, è morto a Parigi Cornelius Castoriadis. Qualche mese prima aveva dato a Praga una conferenza intitolata “Un rinascimento democratico o la barbarie”.

Non so se si possa “parlare ancora oggi di una cultura europea e di un ruolo che il romanzo potrebbe svolgere nella sua creazione”. Quello che però so con certezza è che il romanzo è consustanziale all’Europa (dall’Atlantico agli Urali) come la tragedia fu consustanziale all’Atene democratica. Il suo ruolo? Continuare ad essere ciò che è stato per cinque o sei secoli. Il ruolo della critica? Continuare a valorizzare il legame profondo tra “Europa” e “romanzo”. E quindi continuare a interrogarsi sulla necessità estetica, spirituale e storica di questo legame. Del resto, è soprattutto per rispondere a questo compito che abbiamo intrapreso i nostri incontri annuali, di cui il primo, nel 1999, s’intitolava “Romanzo: un’arte dai molteplici nomi”. È possibile trovare gli articoli dei partecipanti di questo incontro nel numero 22 della rivista (“C’era una volta l’Europa”, giugno 2000). Si trattava di riflettere sul fatto che le differenti lingue europee hanno ognuna il proprio nome per indicare il romanzo. Diciassette anni fa, ecco ciò che si poteva leggere, tra le altre cose, nel pezzo d’apertura del numero in questione:

Quelli che fanno l’Europa ?

Sono questi pochi eruditi gioiosi, questi scrittori e traduttori, che un anno fa hanno messo in comune per due giorni dizionari, letture, opere e lavori, conoscenze, gusti e preferenze a partire da una sola parola: romanzo. Perché lo chiamiamo, noi Francesi, roman, i Polacchi, powiesc, gli Islandesi, skáldsaga e gli altri Europei diversamente?

Romanzo, non è un nome qualsiasi. Designa l’arte che è consustanziale alla nascita dell’Europa, alle sue contraddizioni e malintesi, alla sua storia multidimensionale e multietnica, ai suoi itinerari nazionali sfasati, alle sue incomprensioni, le sue rotture, la sua polifonia, la sua cacofonia, la sua unità profonda, unità tessuta malgrado le guerre, le lacerazioni, i disastri e le cadute, malgrado le frontiere.

A. I. Uno degli aspetti affascinanti de L’Atelier è il suo rapporto con l’attualità. Non fate alcuno sforzo per mostrarvi aggiornati con le novità editoriali, le nuove mode letterarie, o i dibattiti intorno ai premi; ma nello stesso tempo vi è uno sguardo spesso polemico e caustico nei confronti della società contemporanea e dei suoi miti. Sapete essere nel contempo inattuali e inopportuni. Non è per nulla facile costruire questa “giusta” distanza con l’attualità. Come ci siete riusciti? Come si può sfuggire alla dittatura dell’attualità, senza rischiare di assumere la posa dello scrittore che osserva con sprezzo e sdegno confortevoli la decadenza dei tempi?

L. P. – Facciamo una distinzione: c’è l’attualità del mercato e l’attualità della creazione. Mi sembra che con la seconda abbiamo mancato di rado l’appuntamento. Le opere d’arte sono rare. Non si fabbricano su commissione e, soprattutto, non si moltiplicano per il fatto della moltiplicazione vertiginosa delle persone che si autoproclamano artisti (pittori, poeti, romanzieri, ecc.). Ciò detto, noi non voltiamo le spalle a quella che viene considerata oggi l’attualità. Al contrario, quest’attualità ci interessa moltissimo, in quanto vi cogliamo i segni dell’instaurazione di rapporti nuovi dell’uomo con il tempo. Il primo di questi segni, il più inquietante, è il rifiuto del passato, e questo avrà come conseguenza immediata la sterilizzazione totale della stessa attualità: da istante misterioso all’interno del tempo vasto, essa si ridurrà a somma di avvenimenti fortuiti. Odysséas Élytis diceva : “un giorno il passato ci sorprenderà con la forza della sua attualità”, il che vuol dire che se l’attualità vuole essere vissuta come un tempo umano, ossia un tempo aperto al caso e all’imprevisto, deve portare affettuosamente nel suo seno tutto il passato.

Sì, non è facile “sfuggire alla dittatura” dell’attuale, così come domina ai nostri giorni. Certo, non smettiamo di far dialogare nelle pagine de L’Atelier du roman le grandi opere del passato con il nostro presente. Ma questo non è sufficiente. Bisogna anche riflettere sul fenomeno di questa mutilazione del tempo e dei pericoli covati dall’uomo che soccombe al suo fascino. Uno dei nostri incontri – L’Atelier du roman, n° 73, marzo 2013 – aveva per titolo : “La guerra del Tempo e dell’Attualità”.

A. I. Vorrei concludere questa intervista con almeno una domanda sul tuo ultimo saggio Rabelais – Que le roman commence ! Nel tuo sforzo per definire un’estetica del romanzo, fai leva su una categoria per te centrale e che è stata pertanto trascurata dall’immensa produzione accademica intorno al romanzo, ossia il “riso romanzesco”. Quale sarebbe la specificità di questo ridere?

L. P. – Sento spesso intorno a me lamentele sul fatto che l’uomo di oggi perde il sentimento del tragico. Quando le riflessioni di questo tipo sono intrecciate con i discorsi che teniamo con i nostri simili su ogni cosa e il suo contrario, ciò non ha alcuna importanza. Si vuole solamente dire che bisogna prendere la vita sul serio, che la vita non deve essere vissuta come una festa illimitata. Per contro, quando sono i giornalisti, i professori di filosofia e altre personalità delle arti e delle lettere che tengono questo genere di propositi è sconfortante, in quanto prova l’abissale mancanza di cultura delle nostre supposte élite. Il sentimento del tragico e il suo correlato, la catharsis, corrispondono a un mondo scomparso da due millenni. Ovvero un mondo dove l’uomo si sente intrappolato da forze che sovrastano la sua comprensione. In seguito, e per secoli e secoli, il tragico è stato rimpiazzato dalla salvezza cristiana – dalla supposizione che il Creatore ci ami. Ma già da quattro secoli l’uomo, proclamandosi “maestro e possessore della natura”, ha preso il timone dell’universo e del suo proprio destino. Allora, in questo mondo nuovo, nuovo per l’esistenza, la sola cosa che tiene, esteticamente parlando, è il riso romanzesco. È il riso dell’uomo che si scopre intrappolato dalle sue stesse opere. È il riso che l’uomo indirizza a se stesso. Questo riso non viene dall’alto – da Dio o da Satana – né dai suoi pedagoghi, dai suoi profeti o dai suoi cinici professionisti. Viene dalle profondità della sua anima, e subito vi ritorna. Si tratta di auto-ironia. Ma questa autoironia non riguarda gli individui presi isolatamente, ma è l’autoironia della nostra civiltà nel suo insieme. Evidentemente, questo riso romanzesco non esiste in sé. Una grande arte lo porta nel suo seno, lo nutre di sé e lo trasmette attraverso le epoche e i continenti. Di quest’arte, della sua storia, del suo nocciolo estetico, parlo appunto nel saggio che hai citato.

*

Interférences 15 è apparso su alfadomenica del 28 gennaio.

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.