Due fratelli
di Monica Pezzella
La perrera è un cunicolo scuro. Come la gola umida e tortuosa di una grotta, a un certo punto si snoda in due corridoi perpendicolari a un’anticamera quadrata e vuota. Questa stanza ha i muri lisci e lucenti simili a scaglie di metallo e, negli angoli in alto, grate lunghe e strette, spesso intasate da polveri vecchie e ragnatele. Ai tempi in cui la perrera fu costruita, dovevano servire a fare entrare l’aria e lasciare uscire un poco di puzze ed esalazioni malate. È probabile però che già allora dalle sbarre non filtrasse che un vento pesante, carico di ceneri e suoni otturati, proveniente dai carretti e dal forno alle spalle del cubo di pietra.
Dentro, non c’è un posto migliore o peggiore di un altro. Le gabbie sono tutte uguali, perché all’interno non c’è nulla, disposte una di fianco all’altra lungo i corridoi in modo da occupare tutto lo spazio a disposizione. La perrera è come un alveare. Nelle celle tutto ciò che cambia – e cambia a gran ritmo – sono gli inquilini. Vengono, chissà da dove, e se ne vanno, tutti nello stesso posto. Non molto lontano.
In una delle gabbie del lato sud, quelle di fronte all’entrata, da pochi giorni ci sono due nuovi ospiti. Nel viso hanno qualcosa dello spinone e il pelo è duro come stoppa, di un grigio antracite, venuto fuori dal confuso mescolarsi di ciuffi bianchi e neri. Due fratelli.
Santo Ramirez si sveglia tutti i giorni alle cinque del mattino. Non abita troppo lontano dalla perrera. A quell’ora il giorno è ancora sbiadito, qualsiasi sia la stagione, e attraverso gli spiragli delle finestre in legno non di rado si ha l’impressione di scorgere la bocca del forno nel cielo viola, dietro gli strascichi di nubi. Ma è tutta un’immaginazione. L’inceneritore della perrera è una struttura bassa e tozza, un cubo, fatto a immagine e somiglianza della prigione, con una sola, grande bocca scorrevole e cigolante di lamiere. Lo stridìo della porta nel binario è l’ultimo suono vivo, ogni venerdì mattina. E il primo che Santo percepisce dopo essersi tolto i tappi dalle orecchie.
Santo Ramirez lavora alla perrera da tre anni e quattro mesi. I due fratelli arrivano giusto allo scoccare del suo quarantesimo mese di lavoro, in una giornataccia color seppia di fine ottobre.
La prima regola della perrera è “un cane per cella”, ma due celle vuote quel giorno non ci sono, perciò i due spinoni finiscono insieme nella stessa gabbia, ad annusare l’aria stantia con le barbe una di fianco all’altra infilate tra le sbarre.
Dopo aver chiuso la porta della cella, Santo strappa un foglio giallo e umido che per una notte è rimasto affisso su una sottilissima striscia di muro tra quella gabbia e la gabbia adiacente. Sul foglio c’è scritto: “In famiglia”. Significa che qualcuno è venuto a prendere l’inquilino precedente, liberando giusto un posto per i due fratelli. E per fortuna è giovedì, perché se l’indomani arrivasse il furgoncino con altri cani Santo non saprebbe dove metterli.
È sempre così. Sempre si arriva al venerdì, giorno dei forni, con un sovraffollamento.
Santo Ramirez ha sistemato uno sgabello in legno smangiato contro l’unico fazzoletto di muro libero. Le sbarre delle gabbie tappezzano lo sghembo cubo della perrera come carta da parati, ma il lembo di muro dove Santo ha messo il suo sedile è coperto solo da uno spugnoso strato di muffe, di cui può sentire distintamente l’odore. Gli si attacca al di dietro della camicia e resta infiltrato nelle fibre anche dopo il secondo lavaggio. È l’unico posto libero e Santo è un uomo che si accontenta. Lì seduto può vedere l’uscio che si schiude e si dilata man mano che Abdón ci spinge dentro la gabbia mobile. È una gabbia stretta e lunga, che scorre sopra ruote male oleate e fa un rumore come solo all’inferno. È la gabbia che serve a portare fuori i cani. Ogni venerdì mattina.
Santo rispetta sempre il rito, da tutti e tre gli anni e da tutti e quattro i mesi di perrera. Se ne sta lì sullo sgabello e aspetta che Abdón prenda la gabbia mobile dal deposito e la trascini sferragliando lungo il corridoio. Poi si comincia, in senso orario. Sui fogli attaccati alle sbarre sono indicati i giorni di permanenza di ciascun cane. Mentre percorrono il loro giro nel perimetro quadrangolare, Santo e Abdón si basano su ciò che c’è scritto sui fogli. Se c’è scritto “cinque” o addirittura “sette”, allora il cane va preso.
Qualche cane oppone resistenza e cerca riparo in un angolo giù in fondo, pur sapendo che ripari non ve ne sono. La maggior parte, però, è contenta di uscire, memore dei bagordi della sera prima. Questi ultimi non creano problemi. Con quegli altri bisogna usare il cappio.
Il cappio è un bastone molto lungo dalla cui estremità pende uno strangolo di alluminio intrecciato, simile a quello usato dagli accalappiacani. Molti inquilini della perrera conoscono già il cappio. È con quello che sono stati presi dal loro pezzo di strada. È attaccati a un cappio che sono stati spinti dentro la cella. Siccome quello strumento, se usato con durezza e per un tempo prolungato, lascia un segno ben visibile, un solco nei peli che al collo diventano più radi, come pressati, è facile per Santo e Abdón immaginare quali animali opporranno resistenza.
Il segno del cappio è come un marchio di ferocia.
I cani marchiati bisogna accalappiarli subito e sbatterli sul fondo della gabbia mobile. Abdón è più forte di Santo. È tarchiato, ma ha gambe e braccia possenti. È lui a usare il cappio, mentre Santo tiene aperta la porta di entrambe le gabbie, prima quella dell’una, finché il cane non viene tirato fuori, e poi quella dell’altra, quando Abdón lo spinge dentro, tenendolo a debita distanza col bastone rigido.
Il venerdì mattina i cani sono tutti uguali. Non è come la sera prima. Non c’è che da prenderli in un posto e metterli in un altro posto. Dopo, Santo infila i tappi nelle orecchie.
Il sabato è un giorno silenzioso. I cani che la mattina precedente sono stati caricati nella gabbia mobile non sono tornati. Tre quarti delle gabbie sono rimaste vuote. I due fratelli spinoni sono accucciati nel cono di luce che entra dall’uscio della porta principale, eccezionalmente aperta. Si respira un filo di aria buona, ripulita dal temporale. La ciotola in cui il cibo è stato lasciato a macerare rappresenta ancora un oggetto estraneo, minaccioso. Affondata nel buio profondo, sembra quasi troppo lontana, sperduta in un angolo inesplorato.
Santo Ramirez è seduto sopra lo sgabello smangiato. La sua sagoma somiglia a un totem stagliato per metà contro il cono di luce. Accanto alla caviglia destra tiene un sacchetto floscio, con dentro i biscotti avanzati dal giovedì sera. Ne prende uno e lo lancia dritto nella ciotola dei due spinoni. Si compiace di quella capacità prodigiosa che gli ha concesso in dote la noia. Infila due dita dentro il sacchetto e tira un altro biscotto che va a sbattere contro il bordo della ciotola e produce un rumore metallico. Santo può vedere i muscoli dei cani fremere sotto la pelle, nonostante guardino da un’altra parte, verso l’uscio socchiuso, con una tenacia che gli dà quasi fastidio. Quando il tonfo del biscotto si dilegua nelle grate insieme agli aliti malsani, i muscoli dei cani si rilassano.
“Non lo vuoi?” chiede Santo. Si rivolge indifferentemente a uno dei due spinoni.
Ogni volta che parla, un cane abbaia. È un meticcio grosso e spelacchiato, con una catena mozza al collo e un porro sporgente sul fianco sinistro. Sono tre giorni che sta in perrera e non vuol capire che non sarà Santo a tirarlo fuori da lì. O meglio, Santo, sì, proprio Santo lo tirerà fuori da lì. Tra cinque giorni esatti. Ma in realtà dalla perrera non uscirà mai.
Santo prende bene la mira, misura con calma il peso del biscotto nel pugno e lo tira nella ciotola del grosso meticcio spelacchiato. Quello corre, corre come se avesse annusato una succosa bistecca.
“Ma quanto sei scemo” mormora Santo.
Dopo quattro giorni, ai due fratelli spinoni comincia a essere chiaro che il tempo alla perrera gira sempre nello stesso modo. All’inizio non sembrava che un cubo scuro, ma con lo scorrere delle ore tanti piccoli anfratti si sono rivelati. È come se i volti degli altri inquilini fossero comparsi pian piano dalle ombre, svestendosi strato dopo strato di uno spesso velo nero. I due fratelli hanno individuato uno per uno i musi dietro il perimetro di sbarre e poi si sono guardati a vicenda con una specie di triste meraviglia, abbassando un poco le orecchie. Adesso è persino possibile distinguere l’odore di ciascun cane. Quello alla loro destra puzza di cipolle lasciate al sole. È un mastino magro come un chiodo, con le costole sporgenti e appuntite sotto la pelle tesa. Quella pelle che, da grigia qual era, si è fatta quasi bianca a forza di levigarsi e sbiadirsi sopra la magrezza. Il mastino è un tipo tranquillo. Neppure una volta lo hanno sentito abbaiare. In compenso però possono udire distintamente i tonfi delle zampe pesanti sulla pietra tutte le volte che si gira e rigira su se stesso prima di trovare la posizione più comoda – o forse meno scomoda – per il sonno. Anche quando dorme ha le palpebre pesanti, rosse e slabbrate, sempre umide.
Alla loro sinistra si intravede il dorso irsuto del meticcio spelacchiato. È un cane enorme e ha l’abitudine di grattarsi la schiena contro le sbarre. Ci si tuffa contro, come se volesse schiantarle, e invece tutto ciò che cerca è un po’ di sollievo dai morsi delle pulci. Questo puzza di cibo andato a male. Il pavimento della cella, lavato solo una volta con una secchiata di acqua sporca, è tutto inzaccherato di feci che trattengono l’odore del cibo in scatola e lo restituiscono due volte più puzzolente.
C’è poi un barbone di taglia media, nero come la pece e crespo come una spugna usata, dalla cui gabbia emana un forte tanfo di urina. Nessuno ha mai pulito lì dentro. Il barbone ha denti piccoli ma affilati e li mostra tutte le volte che gli uomini si avvicinano al suo nascondiglio. Se ne sta rintanato in un angolo. Sono due giorni, da quando è arrivato, che non tocca né acqua né cibo e non si alza neppure per fare pipì. Se la fa addosso e ci dorme dentro. Non vuole saperne niente, della perrera, e ai due fratelli viene il dubbio che abbia capito qualcosa che gli altri non sanno.
Il levriero, suo vicino di cella, emana uno strano odore di spinaci e verze, tutte quelle cose disgustose a mangiarsi, ma che davanti al camino di casa danno un senso di protezione e mettono addosso un sonno tranquillo. Il levriero è agitato. A ogni rumore proveniente dall’esterno scatta su a sedersi e comincia a piangere piano, come se ogni volta dalla porta dovesse entrare qualcuno apposta per lui. Poi si accorge che è solo un pensiero, perché la porta è chiusa e il rumore è passato come tutti i rumori di sempre.
Le gabbie vicino all’entrata sono riservate a due o tre cani di piccola taglia. Da tre giorni uno non si muove, non se ne sente neppure il respiro affannato per il caldo, un ansimare che, come un motore acceso, non lo ha mai lasciato dormine, persino di notte, tenendo svegli pure i suoi vicini di cella. Adesso è immobile, non si vede che l’onda scura e frastagliata del suo fianco disteso. Da quella direzione proviene un odore acido, uguale a quello dei liquidi depositati sul fondo dei sacchi di spazzatura.
I due fratelli si sono accorti che anche nella perrera c’è molto da scoprire e da studiare. Passano tutto il tempo con le barbe infilate tra le sbarre, una accanto all’altra come il primo giorno. E guardano in giro, persino divertiti. Proprio adesso c’è una riga di formiche dalla testa rossa che marciano a ritmo costante dalla loro ciotola a quella del mastino a quella del meticcio spelacchiato a quella del barbone, giù giù in fondo fino allo stipite della porta e poi su su fino alla grata intasata di polveri e puzze. Sembra quasi che portino un messaggio, come tanti fattorini dentro il filo di un telegrafo.
Anche nella notte ci sono un sacco di cose da guardare.
Nella notte, le ombre del meticcio spelacchiato e del levriero camminano sui muri.
Un giorno arriva il Flaccido. Il Flaccido è come circonfuso da una nube di petrolio e gas di scarico. Il pelo, originariamente lungo e bianco, è un groviglio appiccicoso e nero di grasso di pneumatici e sangue rappreso. Nella curva di una strada di campagna una motoretta gli ha spezzato la schiena. Era un sentiero giallo sterrato, di quelli con nient’altro che rovi da un lato e dall’altro, senza coni d’ombra: un serpente arroventato sotto il sole. La motoretta si è fermata cinquanta metri più avanti ed è tornata indietro fino al corpo contorto nella polvere. Il cane era grosso e ancora vivo. Non si poteva spostarlo. Subito è arrivato il furgone della perrera.
Quando lo portano nella cella, il Flaccido, che non ha più ossa nella schiena, si rigira per terra una o due volte come un verme, un bruco peloso. Poi non si muove più, a parte qualche ostinato tentativo delle quattro zampe che scivolano sulla pietra senza spostare il corpo di un centimetro. Dopo non molto gli artigli consumati non fanno che rimpastare una melma densa di cacca e pipì. Ormai assomiglia a un guanto o un calzino abbandonato sotto il letto. Un guanto o un calzino dimenticato da tutti.
Allo spuntare di ogni nuovo giorno, la luce si infila a stento sotto la porta della perrera e i due fratelli spinoni alzano le barbe e restano in ascolto. Il Flaccido emette un suono sottilissimo, una specie di lamento dentro a un sospiro. Un fischio che gratta e non si estingue per tutta la notte e tutto il giorno successivo e poi ancora una notte e poi altro tempo. Un tempo che si è come allungato e afflosciato da quando è arrivato il Flaccido. Le celle sono ingombre di escrementi e le ciotole, dopo il primo giorno, non sono più state riempite. L’acqua è evaporata, non restano che i cerchi concentrici del calcare sotto l’orlo. Una notte, in un intervallo pieno di un silenzio sospetto, uno dei due fratelli rizza un orecchio e gira gli occhi tutto intorno, alla ricerca della gabbia del Flaccido. Vuole proprio vedere se la schiena piegata come un guanto o un calzino si solleva e si affloscia nel respiro. Non ce n’è bisogno. Il Flaccido è vivo, ancora. Subito il fischio ricomincia.
A sera, Santo guarda Abdón che va avanti e indietro con una carriola dai bordi slabbrati. Lui ha messo fin da subito le cose in chiaro. Non vuole portare nessuna carriola. Quello è da sempre compito di Abdón. Si tratta di prendere i corpi dalla camera a gas o quelli dei cani deceduti in perrera, infilarli nelle borse di plastica nera e portarli al forno. Bisogna poi ripulire il forno. Tutto intorno alla perrera ci sono carretti pieni di ceneri e nell’aria una nebbia densa e grumosa. Quello di tirare i corpi fuori dalla camera a gas e portarli all’inceneritore è un lavoro che Santo non vuole proprio fare per via dell’odore. Preferisce svolgere il compito del venerdì, chiudere lo sportello della camera a gas su decine di occhi furibondi ed essere costretto a mettere i tappi nelle orecchie, ma non potrebbe mai sopportare di portarsi a casa quell’odore. Diventare come Abdón, Abdón che la gente evita con disgusto, Abdón con i vestiti nuovi impregnati di un fumo di arrosto andato a male. E sotto sotto un’esalazione dolciastra. Santo non può impedirsi di pensare che sia l’odore della paura. Ogni volta che inciampa in quel pensiero si sente stupido, anche un po’ sentimentale.
Una volta che Abdón gli scorrazza davanti con la carriola, coglie l’occasione per dirgli una cosa che lo tormenta da un po’.
“Per la gente siamo dei mostri.”
“La gente chi?” gli risponde Abdón, col fiatone e una punta di fastidio. “Non esiste la gente, esiste la maggior parte della gente, e per la maggior parte della gente noi non siamo nessuno.”
Santo guarda la nebbia densa e grumosa sputata dalla bocca del forno stagliarsi contro le striature rosa del cielo al tramonto. È come un arcobaleno color seppia, pensa.
Di nuovo giovedì. Il giovedì, Santo si trascina fino a sera con un macigno nello stomaco. Il giovedì sera è il momento di uscire a bere una birra con Abdón. Comprare due panini, anzi tre, anzi, meglio quattro. Quattro ciascuno. Non mangiarne nessuno per colpa del macigno sullo stomaco. Tornare in perrera e liberare i cani, ma solo quelli sul cui foglio c’è scritto “cinque” o addirittura “sette”. Il chiavistello fa uno scatto arrugginito. Santo e Abdón prendono i cani col cappio e li portano nel piazzale dietro i bidoni, alle spalle del cubo di pietra. Quelli che restano dentro assistono alla scena con gli occhi sbarrati, scodinzolano quando nelle narici arriva l’odore della salsiccia e uggiolano disperati quando la porta si richiude sopra il silenzio. I cani che Santo e Abdón liberano nel piazzale recintato corrono come pazzi lungo tutto il perimetro, spiccano balzi da circo. I più arditi si arrampicano con le mascelle aperte nelle maglie della rete. Quando Santo e Abdón prendono i sacchetti di carta e tirano fuori i panini, i cani si fermano e li guardano interdetti. Sempre uguale, pensa Santo. Si comportano tutti allo stesso modo. Si abbassa sulle ginocchia e comincia a scartare un panino. Toglie prima la carta oleata, poi il tovagliolo che il locandiere ha infilato dentro, ne fa una palla accartocciata e se la infila in tasca per evitare che i cani, nell’euforia della fame e della libertà, mangino pure quella. Che stupido, si dice. Domani è venerdì. Ma adesso è giovedì sera e il giovedì sera c’è un’ora dedicata ai panini. Gli ultimi panini. L’ultima cena. L’ultimo pasto dei condannati. Anche i cani della perrera sono condannati, rei di avere vissuto per strada, avere sporcato la strada, avere intralciato il passo, essere stati lasciati proprio lì, per strada a sporcare e intralciare il passo.
Santo scarta il primo panino. Il meticcio spelacchiato gli si avvicina. In quel momento lo può guardare per la prima volta negli occhi. È come se per la prima volta si incontrassero nel mondo fuori dalla perrera. Il meticcio spelacchiato gli annusa il dorso della mano. Santo lascia andare il panino e il cane lo mangia intero, masticandolo tutto nelle ganasce come se fosse un boccone solo. E mentre il cane mastica come un forsennato, abbassando il collo per far funzionare meglio le mascelle, quello che Santo gli vede negli occhi gli fa correre un brivido lungo la schiena. Gratitudine. Tutti allo stesso modo, pensa Santo. Intanto il mastino sta mangiando dalle mani di Abdón. Ingoia due panini contemporaneamente e a Santo viene voglia di rimproverare il compagno, perché non ne resta abbastanza per gli altri. Ma si frena quando vede le ossa sporgenti dai fianchi dell’animale. Tutta la cassa del suo corpo ansima di gioia e la grossa testa piatta si gira a guardarlo con le rughe che ricadono sugli occhi e il muso grondante bava.
Santo si volta e comincia a scartare un altro panino. Solo il barbone se ne sta in disparte, come se avesse capito qualcosa che gli altri non sanno. Santo lancia metà del panino con salsiccia nella sua direzione. Quello lo annusa con cautela e, un attimo prima che gli altri si fiondino sul pezzo di pane e carne, lo afferra e si gira di spalle a mangiarselo in tutta tranquillità.
I due fratelli spinoni, quelli che se ne stanno tutto il giorno a spiare dentro ogni anfratto con le barbe tra le sbarre, neppure all’aperto si separano. Si dividono un panino che Abdón ha gettato in un angolo. Uno dei due è più furbo e tiene per sé la salsiccia, mentre l’altro deve accontentarsi, con una soddisfazione non per questo minore, di masticare il pane impregnato di grasso. Sono contenti, quei due, pensa Santo. E d’altra parte anche in perrera sembrano aver trovato una loro felicità.
Quando i panini finiscono, Santo ha le tasche piene di olio, carte appallottolate e sacchetti strappati. I cani gli stanno tutti intorno. I due spinoni scodinzolano e gli leccano le mani. Gli leccano le mani per più di cinque minuti. È il momento peggiore. Non hanno più paura. Santo aspetta che si calmino, che si sentano del tutto soddisfatti, che smettano di ringraziarlo con le loro lingue ruvide.
Poi prende il cappio e li riporta dentro uno per uno. La luna, fuori, è più alta e lontana. Sembra voler allungare il tempo, voler compiere più lentamente il suo giro per rallentare l’apertura del sipario sul giorno nuovo. Venerdì.
Venerdì. Santo, seduto sul suo sgabello, aspetta che Abdón tiri la gabbia mobile fuori dal magazzino. Fin dalle prime ore del giorno il cielo è uggioso e striato di nuvoli bassi. Il vento porta l’odore ferroso della pioggia. Mentre la gabbia mobile sferraglia per il corridoio della perrera, le mani di Abdón sudano sopra i manubri di gomma, due tubi cilindrici smangiati dall’acido. Santo si mette subito al lavoro, vuole finire presto, prima che scoppi il temporale. Ci sono molti cani da prendere. A mano a mano che percorre il cerchio di celle, Santo strappa i fogli gialli, li appallottola nel pugno e li getta per terra. I due fratelli spinoni, non appena sentono l’odore dell’uomo che la sera precedente ha tirato fuori dalle tasche i succulenti panini e ha concesso a tutti un’ora d’aria, cominciano a muovere le code e a spingere le barbe in mezzo alle sbarre per leccargli le dita. Sono presi da una immotivata euforia. L’equivoco, che sempre rende il venerdì un motivo di festa, viaggia sul pavimento di pietra, sotto il fondo e tra le ruote della gabbia mobile, accolto da un generale scodinzolìo.
I primi cani che Santo carica se ne stanno tranquilli, ma come la gabbia mobile comincia a riempirsi cresce l’agitazione. Il mondo si rovescia. Gli animali digrignano le fauci e si mordono l’un l’altro, lanciano morsi nel vuoto. Sono reduci di giorni e notti di isolamento, tanta compagnia suona sospetta, ormai già quasi minacciosa. Lo spazio è poco e Santo deve prenderne il maggior numero possibile per risparmiare il gas. I cani più piccoli riescono a rintanarsi negli angoli in fondo, urtati di continuo dagli stinchi di quelli più grossi. Santo nota con rammarico che il mastino, per quanto se ne stia buono e contratto da una ancora incerta paura, occupa da solo metà dello spazio e raccoglie su di sé la metà dei morsi di tutti. Quando il giro finisce e la gabbia mobile sbuca all’aria aperta, la sua pelle tesa è già tutta lacerata.
La strada fino alla camera a gas è breve e dissestata. Durante il percorso, Santo infila i tappi nelle orecchie. Lo sportello è spesso, ma i cani gridano forte. Santo lo apre e spinge dentro la gabbia mobile. Richiude e aspetta. In genere quaranta minuti sono sufficienti. Non succede quasi mai di trovare un cane ancora vivo, ma qualche volta capita e Santo prega che la volta non sia quella. Quando riapre lo sportello, i cani non sono gli stessi che ha portato fuori la sera prima. È come se tra Santo e i loro corpi, uccisi da un veleno che li ha paralizzati lentamente e in piena coscienza, sporchi di vomito e sangue e ancora animati da movimenti involontari, ci fosse tutto lo spazio del mondo. Quello che è successo il giovedì sera non è mai successo.
Santo aspetta che arrivi Abdón a tirare i cani fuori dalla gabbia e metterli nelle borse di plastica nera.
Di primo mattino il cielo si apre a una pioggia leggera che quasi subito si trasforma in temporale. Un alito di vento allunga le dita sotto la porta della perrera. Solleva uno a uno i fogli gialli attaccati per gli angoli superiori alle sbarre delle celle. Sul foglio degli inquilini per i quali una telefonata è arrivata prima del venerdì c’è scritto: “In famiglia”. Il vento scuote i fogli, ci soffia sotto attento a non farsi udire. Si china a spiare i verdetti con i suoi occhi di fumo. Passa accanto a quella che è stata la gabbia del mastino diventato bianco per la magrezza, butta una sguardo nel vuoto, nella ciotola incrostata di calcare, sul pavimento ripulito delle feci e dell’urina. Percorre con le dita le sbarre dietro cui si agitava il levriero e si spinge fino all’angolo dove stava accucciato il barbone in un guscio di diffidenza. I fogli si sollevano e si riposano, nel nuovo silenzio della perrera. Quando arriva alla gabbia dei due fratelli spinoni, per l’ultima volta il vento solleva il foglio giallo con le dita umide e si sporge a guardare. Con una scrittura che andava di fretta, qualcuno ha scritto: “Uccisi”.
Roba tosta.