Il mio ’68
di Andrea Rényi
Nel primo numero del 2018 dello storico settimanale Élet és Irodalom (Vita e Letteratura) il giornalista ungherese István Váncsa (1949) tira le somme non prive d’ironia, del Sessantotto in salsa magiara: “Lo spirito più libero e il naturale ottimismo in qualche modo si sono infiltrati anche da noi, perciò ritenevamo i mamelucchi del regime dei cretini, e loro ogni tanto si rendevano conto di essere considerati dei cretini, quindi le loro facce tonte rispecchiavano incertezza, e nei momenti peggiori sghignazzavano imbarazzati.
Sta per scadere il loro tempo, pensavamo di loro, ma non nel senso che sarebbero stati cacciati, meno che mai rinchiusi, bensì che con la diffusione sempre più ampia dei beni materiali con il tempo si sarebbe estinto il capitalismo dell’homo homini lupus, ma anche il socialismo dell’homo homini spia, scalzati da libertà, serenità, tranquillità, dall’Arcadia. In cui sarebbero sopravvissuti i calabroni e le zecche, nonché i portinai con la faccia torva, le guardie operaie e i segretari provinciali del partito, ma sarebbero stati resi tutti innocui e riconoscibili dal disagio, perché non si sarebbero trovati tanto bene quanto sarebbe stato opportuno.“
Avevo sedici anni, nel 1968, e credevo in quei valori del socialismo che nell’Ungheria János Kádár la scuola ci impartiva. Per poter coltivare la fede facevo finta di non accorgermi che persino nella piccola fetta di realtà di mia conoscenza quello che vedevo e sperimentavo era ben lontano dai nobili propositi. In ogni caso mi sembrava poco cortese e poco propositivo disturbare i manovratori con le mie critiche, anche perché da noi si stava comunque meglio che nell’imperialismo ormai in piena decadenza e sull’orlo del baratro – come ci descrivevano il mondo occidentale a ogni piè sospinto. I moti studenteschi negli Stati Uniti e nei Paesi dell’Europa occidentale davano manforte a questa rappresentazione: i giovani si ribellavano al capitalismo, noi non eravamo che l’avamposto, mancava poco e il mondo intero avrebbe sposato le nostre idee e il nostro modo di vivere. E questi giovani ribelli suonavano anche una musica irresistibile, così travolgente che persino i censori ungheresi dovettero arrendersi di fronte agli originali, agli emuli nazionali e ai musicisti ungheresi che generarono una musica beat, rock o pop con caratteristiche uniche. L’invasione musicale era comunque inarrestabile grazie a Radio Free Europe, l’emittente finanziata dalla CIA che trasmetteva in ungherese da Monaco di Baviera; chi amava la musica non si perdeva mai l’appuntamento con la trasmissione intitolata Teenager Party del DJ transfuga ungherese Géza Ekecs, alias László Cseke.
Poi arrivò Alexander Dubček e con lui la Primavera di Praga, festeggiati entrambi con una certa sobrietà da mio padre nato in Cecoslovacchia e socialista dal volto umano fin da giovanissimo. I cambiamenti promossi dal nuovo segretario capo del Partito Comunista Cecoslovacco sembravano indicare proprio in questa direzione, del socialismo riformista. A luglio, in visita a Bratislava dai parenti paterni, firmai infatti di corsa una petizione a favore di Dubček e la sua primavera, la mia gioia sfrenata venne però subito offuscata dalle parole premonitrici della sorella di papà: «Non durerà, e la pagheremo cara.»
Ero già grandicella ma non avevo mai visto il mare, tranne il lago Balaton che i miei connazionali chiamano tuttora affabilmente il “mare ungherese”. Non pensavo ai mari delle civiltà in declino, i miei sogni si fermavano ai confini del Patto di Varsavia, e accolsi festante l’idea di un viaggio in Polonia, diretto a Varsavia e a Sopot sul Mar Baltico, con escursioni anche a Danzica e Gdynia. All’epoca Sopot ospitava anche un festival di musica leggera molto seguito nei Paesi del blocco sovietico. Il viaggio era organizzato da Expressz, l’agenzia statale di viaggi in gruppo per giovani, e l’interprete ungherese-russo-ungherese era Margit, la figlia ventunenne di amici dei miei genitori. Margit studiava letteratura russa a Mosca e avrebbe garantito per me in quanto minorenne e saremmo state anche compagne di stanza. Il russo era la lingua universale del blocco sovietico, lo si studiava a partire dalla quinta elementare, e se non c’era un interprete direttamente fra due lingue, nella fattispecie fra l’ungherese e il polacco, si rimediava con il russo.
Sapevo della svolta cecoslovacca, d’altronde era impossibile nascondere una trasformazione tanto clamorosa in un paese confinante con una numerosa minoranza magiarofona, ma non era noto, a me sicuramente e credo nemmeno alla grande maggioranza degli ungheresi, il cosiddetto “marzo polacco”, una breve stagione di opposizione studentesca guidata da Jacek Kuroń e Adam Michnik contro l’oppressione, la censura, per la libertà di stampa e parola, scoppiata l’8 marzo in occasione dell’esecuzione della pièce teatrale, a Varsavia, di Adam Miczkiewicz, Dziady (Antenati), del 1860, che ha per tema l’insurrezione polacca del 1830 contro l’occupazione russa. Il fuoco divampò e ci furono occupazioni d’università a Cracovia e a Lublino. Nulla sapevo della persecuzione sistematica dell’intellighenzia e dell’ondata di antisemitismo generata sia dall’origine ebraica di alcuni leader studenteschi come Michnik, sia dalla condanna di Władysław Gomułka, segretario del Partito Comunista Polacco, della posizione di Israele nella Guerra dei sei giorni. Secondo fonti attendibili circa tredicimila ebrei polacchi si videro costretti a lasciare il paese fra il 1968 e il 1972.
Il gruppo partì con un treno di notte accompagnato oltre che dall’interprete Margit e dalla guida, anche da un bellimbusto sui trentacinque anni che si presentò come addetto dell’agenzia. A Varsavia alloggiammo in un collegio universitario dove cercai invano le tracce degli studenti che lo popolavano durante l’anno accademico: era un arido deserto di povertà e disciplina. Per la prima volta vidi giovani con scarpe da ginnastica ai piedi, oggi e da molti anni va di moda, allora però era solo segnale inequivocabile di scarsa disponibilità economica. A Sopot il mare, freddo e quasi sempre burrascoso ma grandiosa novità per me, rendeva l’atmosfera gaiamente vacanziera. La sera prima della gita programmata per un’intera giornata a Danzica eravamo in un locale quando Margit ed io fummo avvicinati da due giovani che si presentarono come operai dei cantieri navali di Danzica. Ricordo ancora il contrasto fra i bei lineamenti del viso e i denti guasti del più giovane dei due, che si chiamava Janusz. Dopo qualche ballo e la stentata conversazione in russo ci invitarono insieme a tutto il gruppo ai cantieri navali. Ne parlammo subito anche con l’addetto dell’agenzia che concordò l’appuntamento e mi coricai incuriosita perché qualcosa mi diceva che quello sarebbe stato un incontro interessante. L’indomani visitammo Danzica, una splendida città tutta ancora da restaurare, ma l’addetto dell’agenzia fece in modo che della visita ai cantieri navali non se ne facesse nulla. Da allora tutte le volte, e sono state tante, che i cantieri navali di Danzica sono tornati alla ribalta, ripenso con rammarico a quel mancato incontro e al perché e al come era stato vietato.
Sul treno del ritorno a Budapest, la notte del 20 agosto, serpeggiava un certo nervosismo dovuto alle lunghe soste impreviste e senza spiegazioni da parte del personale ferroviario. L’addetto dell’agenzia non ci perdette di vista nemmeno per un secondo e a tratti mi sentivo quasi prigioniera. Arrivammo con diverse ore di ritardo a Budapest dove Margit e io fummo accolti dai genitori al completo, un evento rarissimo, perché di solito i nostri padri e le nostre madri si davano il cambio nell’espletamento dei doveri genitoriali. Erano sconvolti e il papà di Margit, uomo piuttosto prudente, sbottò e rivelò che la Cecoslovacchia era stata invasa poche ore prima dagli eserciti del Patto di Varsavia, che l’addetto dell’agenzia era un alto rango dei servizi di sicurezza, senza il quale il viaggio non sarebbe stato autorizzato, perché al Ministero degli Interni sapevano dell’imminente invasione, e che il nostro era stato l’ultimo treno ad attraversare la Cecoslovacchia. Di questo ebbi conferma anche pochi giorni dopo quando per tornare dalla Germania dell’Est a Budapest un’amica dovette attraversare la Polonia e l’Unione Sovietica, impiegando tre giorni di viaggio in treno. Ovvio che un uomo della sicurezza non vedesse di buon occhio l’incontro fra noi, studenti ungheresi, e i rappresentanti di uno stabilimento dove con ogni probabilità erano in fermento le idee che vennero represse a Praga con i carri armati.
Anni dopo, già in Italia e con qualche nozione di storia in più, cercai di approfondire il ’68, con particolare attenzione alle reazioni dei giovani occidentali alla soppressione della Primavera di Praga. Ci furono delle manifestazioni di protesta e quella volta, contrariamente alla posizione riguardo al ’56 ungherese, anche i partiti comunisti presero le distanze. Ma in linea generale condivido le parole di Guido Crainz in Autobiografia di una repubblica (Donzelli, 2009): “Esso è connesso a un altro aspetto, e cioè alla sostanziale insensibilità e cecità degli studenti italiani (e occidentali, con pochissime eccezioni) nei confronti dei loro coetanei dei paesi dell’Est. Negli «anni ’68», ha sottolineato Anna Bravo, è forte la sensibilità nei confronti degli oppressi, ma «non tutti gli oppressi hanno diritto al compianto (e neppure ai diritti democratici)». Dopo il ’56 ungherese e l’invasione di Praga la realtà dell’Est europeo non può essere ignorata, eppure «quell’enorme giacimento di sofferenza è il meno sentito dei mali del secolo». Un giovane movimento intellettuale che rivendicava a gran voce «l’impossibile» ebbe sguardi solo solo fuggevoli per altri giovani, per i quali «l’impossibile» era la libertà di parola e di stampa, di associazione e di voto.”
fotografia di Josef Koudelka, Praga 1968.