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Vivisezione di un sentimento – estratto da un romanzo in divenire

di Francesco Borrasso

Mi cadono queste ore di attesa sulla schiena, sulla lingua la scia della sigaretta e del suo fumo, i lividi sotto gli occhi che mi fanno da penitenza, e tutto questo momento sembra una fotografia scattata distrattamente, da qualcuno che stava pensando ad altro.
Brucia come una ferita aperta, quella giornata in cui appena sveglio vidi mia sorella piangere quasi fino a strozzarsi nello schermo di un computer; mi chiamava dalla Cina, nostro padre era deceduto da un mese e lei mi cercava risposte e al contempo mi riempiva di domande, così tante che me le sentivo ingombrare sotto la pelle.
“Non ce la faccio, non ce la faccio a restare qui, devo tornare a casa.”
Mi diceva, con le parole distorte da quella potenza acquosa disordinata che le cadeva via dagli occhi, che le impasticciava la lingua e le colorava le guance come se fossero state esposte al fuoco.
“Tu lo sai che papà avrebbe voluto che tu partissi, la Cina e i tuoi progetti, lui per te voleva questo e il meglio adesso, per te, è questo. Torni qui, torni adesso, e per fare cosa? Mamma cade ad ogni passo, lascia macerie ovunque, dammi il tempo di rimetterla a posto, prenditi i giorni buoni e quelli meno buoni, e poi torna, torna forte, torna come sai fare tu.”
Parole che scapparono veloci dalla mia lingua, come un ballo folle, come qualcosa che si amalgama con te e quando se ne va ti lascia il vuoto, e quando è assenza senti l’arto che manca, il pezzo fantasma. Smesse le lacrime, riposte e custodite, costruito un sorriso, una forza di denti bianchi e stretti e viso steso, quella mattina, dopo quella videochiamata, corsi al cimitero. Il viale gonfio di lapidi, l’erba ai lati della strada, un cane che steso all’ombra si stiracchiava incurante della vita e della morte, disobbediente alle leggi buone della società che impongono rispetto a chi si rivolge al dolore senza mostrare barriere. Per qualche secondo mi sembrò di sentire delle voci che non c’erano, voci ricordi e voci di me bambino che componevano il nome “papà”, corse sul cemento, con un pallone tra i piedi e lui in porta, passi sulla sabbia, passi appena attenti dentro il mare che lui mi insegnò a conoscere, quel mare dove lui, con quella mano dietro la schiena, mi face capire le leggi della fisica e del voler bene. Un cielo pieno di lividi era sul punto di rompersi, ma io non ascoltavo niente, guardavo la lastra di marmo, sopra c’era il tuo nome, la tua foto che così poco ti somigliava; ho bestemmiato senza contegno, ricordo la lingua impastata e i muscoli delle spalle tesi.
Quando suona la sveglia io sono già in piedi, sul tavolo della sala da pranzo: due tazzine vuote, dei biscotti, la moka sul fuoco; apre gli occhi e si mette seduta di soprassalto, come se quel suono quasi metallico fosse per lei un richiamo alla fretta, le sue giornate ragazzine, quando doveva correre a perdifiato giù per le scale di casa, perché era in ritardo.
“Buongiorno.”
Le dico, mentre sta ancora cercando di mettere a fuoco la stanza.
“Ciao.”
Risponde, e adesso cadono sulle sue labbra tutte quelle ore in cui è stata indecisa, tutte quelle volte in cui doveva scegliere e ha preferito rimanere ferma, perché ogni scelta avrebbe condizionato e lei non voleva condizioni.
Un’alba slavata viene via dalle vetrate della finestra, i netturbini si affaccendano sotto, in strada; il brusio del frigorifero, due passi che si avvicinano, Sofia entra in questa giornata con la faccia piena di sonno.
“Ciao piccola mia.”
Le dico, lasciandole un bacio docile sulla guancia.
“Ho fame.”
Mi dice, mentre si mette seduta, lasciando andare il suo corpicino sulla sedia di legno.
Le nostre prime ore sono state una separazione di vetro, ti guardavo per ore, respiravo sulla lastra trasparente, mentre tu, in una culla, circondata da altri neonati dormienti, parevi sorridermi, volevo credere che mi stessi sorridendo. La prima volta che ti ho tenuta al petto il terrore di poterti rompere con una stretta più forte era un pensiero che non riuscivo in alcun modo a mettere da parte; devi aver percepito la rigidità di quel primo abbraccio, quando impacciato, in piedi, immobile, nel corridoio di quell’ospedale, eravamo due figure schiacciate dalle luci bianche che piovevano dal soffitto, smussando angoli e cancellando sfumature. Eri leggera, Sofia, eri inconsistente come l’aria, ti ho avvicinata al battito cardiaco che in quei momenti doveva essere furioso, e tu, con quei rumori toracici, devi averci giocato, devi averci cercato un codice morse, in cui forse provavo a dirti che ero felice, oltre la paura, l’incertezza, oltre Ginevra e la mia invidia verso di lei, che sembrava già aver capito la maniera di montarti e smontarti.
“Vuoi un po’ di latte?”
Mentre le faccio questa domanda, Ginevra esordisce a voce bassa, lasciando sulla fronte di Sofia una carezza che trema.

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mariasole ariot
mariasole ariothttp://www.nazioneindiana.com
Mariasole Ariot (Vicenza, 1981) ha pubblicato Anatomie della luce (Aragno Editore, collana I Domani - 2017), Simmetrie degli Spazi Vuoti (Arcipelago, collana ChapBook – 2013), La bella e la bestia (Di là dal Bosco, Le voci della Luna 2013), Dove accade il mondo (Mountain Stories 2014-2015), Eppure restava un corpo (Yellow cab, Artecom Trieste, 2015), Nel bosco degli Apus Apus ( I muscoli del capitano. Nove modi di gridare terra,Scuola del libro, 2016), Il fantasma dell'altro – Dall'Olandese volante a The Rime of the Ancient Mariner di Coleridge (Sorgenti che sanno, La Biblioteca dei libri perduti 2016). Nell'ambito delle arti visuali, ha girato il cortometraggio "I'm a Swan" (2017) e "Dove urla il deserto" (2019) e partecipato ad esposizioni collettive. Ha collaborato alla rivista scientifica lo Squaderno, e da settembre 2014 è redattrice di Nazione Indiana. Aree di interesse: esistenza.