Performative arts today – parte seconda
di Giorgiomaria Cornelio
Seconda parte
Il 2 febbraio si è tenuto, presso il Trinity College di Dublino, l’evento “Performative Arts Today: Like the Grave of a Stone, Like the Cradle of a Star”, luogo eletto a raccolta di “vicinanze, avvicinamenti, concatenazioni, carteggi, disgiunzioni, proposte d’etimo, corrispondenze tra l’Italia e l’Irlanda ordite nel segno del sasso e della stella, del labirinto e del tappeto.” Trovate la prima parte del compendio qui.
Un secondo momento della giornata è stato dedicato al teatro come studio della polifonia scientifica e come passe-partout a rimedio delle mortificazioni settoriali. L’incontro, tenuto dal regista e direttore del Minimo Teatro Maurizio Boldrini a partire dalla sua “Lezione su Carmelo Bene” (Nazione Indiana si era già occupata di questo volume), è stato introdotto da un intervento di Gianluca Pulsoni (ricercatore e giornalista del Manifesto) indirizzato a restituire il timbro degenere di Carmelo Bene oltre le demarcazioni geografiche. L’opera di Bene è pressoché ignorata nei paesi anglofoni dove pure il suo studio sulle partiture shakespeariane andrebbe a costituire un’indicazione fondamentale per superare la rivisitazione consolatoria e mortifera di testi oramai sepolti nel repertorio delle rappresentazioni storiche (perdipiù spesso diluite in riletture sociali del tutto incoscienti della scrittura di scena). Proprio sulla necessità di una orchestrazione dello studio riflette Maurizio Boldrini, rivolgendosi così agli ascoltatori della sua “lezione”:
“[…]Spero che anche i “teatranti” possano ricavarne qualche indicazione utile a interrogare il loro personale fare. Mi appello principalmente ai “sarti finiti” in ambito medico, antropologico, matematico, fisico, architettonico, politico, ingegneristico affinché si trovino a convegno e inizino finalmente ad orchestrarsi. Ciò che ha indicato Carmelo Bene è troppo importante perché sia esiliato nell’ambito artistico o peggio sia ricoverato nelle teche asettiche dei capolavori. Al termine di questa lezione spero rimanga appunto almeno questo: il complesso operativo di Carmelo Bene non può essere ridotto al solo ambito teatrale. È lunghissimo l’elenco di coloro che insistendo su un ‘genere’ hanno indicato, più o meno coscientemente, nuove possibilità di lettura e di edificazione umanistica e scientifica, anzi, proprio loro, con la sapienza dell’arte, hanno mostrato, tra l’altro, che è necessario farla finita con questa distinzione categorica tra l’umanistico e lo scientifico.”
Nella sua introduzione, Gianluca Pulsoni ha fatto riferimento ad una sua conversazione con l’antropologo Piergiorgio Giacchè (a dieci anni dalla morte dell’autore di Nostra Signora dei Turchi), di cui di seguito pubblichiamo un frammento a proposito della “morte dell’attore”, anche come attestazione di un altro modo di guardare all’opera di Bene (marcando così il timbro di questo dialogo monologante tra Boldrini e Giacchè/ Pulsoni):
Sono dieci anni che Carmelo è morto. Ma la morte non c’entra con la fine, che è invece assoluta. La morte fa subito pensare alla memoria, all’eredità, a ciò che resta di qualcosa o di qualcuno che invece è finito e – in qualche caso raro e per così dire fortunato – “ha finito”.
Io preferisco festeggiare il suo compleanno, il natale o la sorgente di qualcuno che tutto sommato ha appena compiuto settantacinque anni, anche se “ha finito” di vivere e di operare. Il natale però vale ancora per gli altri come apertura, curiosità, interesse che in ogni senso è ancora lontano dalla “fine”.
Di Bene ci sono ancora molte sue opere (film e video e dischi e libri…) che, viste dalla parte della nascita e non della morte, non sono un lascito o un deposito ma un regalo da scoprire e riscoprire. Non sono resti da conservare ma tracce da inseguire, finché sembrano spingerci “oltre” a dove noi siamo. La commemorazione in mortem spenge queste tracce invece di valorizzarle; la morte è più consolatoria della fine ma molto meno rispettosa. Infine, consegna – alla terra e non alle persone, alla memoria e non alla fruizione – opere che sono ancora in vita; la morte seppellisce nel tempo e nel luogo tutto quello che è nato ed è finito in Carmelo e per Carmelo, che ancora ci riguarda ma non ci appartiene.
Le tracce di CB ci portano molto più avanti di noi stessi e del nostro tempo. Quando guardo o ascolto le tracce di visioni e suoni, di parole e pensieri di CB, non posso negare che la sua fine è al di là del mio sguardo e perfino del mio stesso fine.
Più concretamente e semplicemente: il suo teatro resta senza classificazione e ancora è di là da venire, il suo cinema dà la sensazione di qualcosa di ancora inattuale. La sua voce “eidetica”, il suo canto “poetico”, il suo gesto “mancato” sono intuizioni ancora da interrogare e inseguire.
Non ha avuto maestri né allievi Carmelo Bene, non ha fatto metodo ma soltanto merito. C’è qualcosa nella sua arte di vivere e vita dell’arte che pare coniugarsi soltanto al “futuro anteriore”, un sarà stato che è difficile da tradurre negli altri tempi presenti e passati, tutti imperfetti; e – per proseguire con la grammatica, lo stesso modo verbale di Bene è ancora più imperativo e ottativo che congiuntivo (il modo verbale del teatro, secondo Victor Turner, legato al “come se” del teatro della rappresentazione, da Bene odiato con ostinazione ma anche evitato con cura).
Il suo teatro – come lui ha detto – non è più tolemaico ma copernicano: la rappresentazione è morta davvero da tempo e non ha più né senso né un fine. Il suo è il teatro dell’irrappresentabile, com’è a suo avviso, il solo vero teatro.
La sua rivoluzione copernicana è ancora di là da venire eppure c’è stata? In verità si può dire solo usando il futuro anteriore: “sarà stata!” e molti sono in grado di testimoniare questo passaggio nel futuro di una volta.
Alla lezione su Carmelo Bene ha fatto seguito la presentazione del film “Nell’insonnia di avere in sorte la luce” di Giorgiomaria Cornelio e Lucamatteo Rossi, secondo capitolo di una ipotetica “trilogia dei viandanti” inaugurata nel 2016 da “Ogni roveto un dio che arde” come proposta di cinema che s’apre in immagini proprio laddove decide di disabitare i luoghi certi della sua circoscrizione, tra attrito, inviluppo e divagazione. Cos’altro resta da fare, per il cineasta e per lo spettatore, se non rifiutare le galere del finito, che guardano al cinema come a un’ora d’aria dello sguardo? Cos’altro, se non proporre un voto di stupefazione e “d’incredulità verso l’onnipotenza del visibile”? (come quando, nel 1732, fuori dal cimitero di Saint-Médard la folla in rivolta pose un cartello alle porte in sfregio alla tirannia del sultano che aveva bandito l’accesso ai Convulsionari: “Per ordine del re si vieta a Dio di compiere miracoli in questi luoghi.”)
Di seguito, pubblichiamo tre tavole dall’atlante di preparazione del film, in continuo dialogo con i materiali della mostra parallela all’evento e congiunta al progetto Mnemosyne di Aby Warburg.
L’esposizione ha incluso annotazioni e opere originali di: Corrado Costa, Silvio Craia, Mario Diacono, Franco Ferrara,Osvaldo Licini, Magdalo Mussio, Nuvolo, Remo Pagnanelli, Pinuccio Sciola, Stefano Scodanibbio, Aldo Tagliaferri, Emilio Villa, Andrea Balietti, Bianca Battilocchi, Giuditta Chiaraluce, Vincenzo Consalvi, Simone Doria, Valentina Lauducci, Elisabetta Moriconi, Mariano Prosperi.
A conclusione della giornata, un concerto del maestro Cosimo Colazzo e del soprano Patrizia Zanardi ha sigillato la riflessione sul continuo slittamento delle discipline, come se la poesia fosse quanto persiste a volersi nel bordo delle cose. Solo in questo ventilare di innesti è possibile finalmente perdere il filo del discorso, dimenticando a memoria i rispettivi campi d’appartenenza e tornando a nutrire quello che Didi-Huberman ha chiamato una volta “il funzionamento epidemico delle immagini”:
«La grande domanda è quella che vuole conoscere come avviene il trapasso, nel caos dei dati giunti fino a noi, come una risacca, in un amalgama fonetico baluginante ma senza luce ferma e fisso riverbero, il trapasso, in diagonale, da mito a concezione cosmologica, da mito a teologia, da mito a leggenda, e da storia a mito o da mito a storia; o non forse trapasso mai, ma come si determina il flusso degli incroci e degli attriti: una peripezia di cicli, di parabole, di invenzioni, di aperture, di inclinazioni» (Emilio Villa)