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I Vladimir Kozlov

Adrián N. Bravi

Georg Duperron, l’allenatore di calcio della nazionale russa dell’epoca presovietica, aveva un amico di nome Vladimir Kozlov che faceva parte della dirigenza della Federazione calcio di tutte le Russie e andava sempre a vedere le partite. Gli piaceva il calcio in un modo inaudito per quei tempi e discuteva con tutti su come doveva essere formata la squadra. Se avesse avuto qualche anno di meno, diceva spesso, avrebbe voluto giocare anche lui o si sarebbe candidato. Nel 1912 aveva accompagnato la squadra di Georg Duperron in Svezia, alle Olimpiadi, la prima Olimpiade in cui aveva partecipato la Russia zarista. Era un mondo che stava crescendo, quello del calcio, senza sapere bene verso dove. Si racconta che Vladimir Kozlov, dopo l’ultima partita della Russia, giocata contro una Germania devastante che aveva massacrato i russi con sedici reti, era andato da Georg Duperron e gli aveva detto:

– Stammi a sentire, caro mio allenatore, hai visto quel tedescaccio di Fuchs che da solo ha segnato dieci reti? –

– Ho visto -, disse Georg Duperron.

– Be’, avresti dovuto guardarlo di più e farlo marcare meglio se non volevi prendere tutte quelle reti o pensi che puoi andare avanti così? –

Avevano giocato nello stadio di Tranebergs IP di Stoccolma, inaugurato l’anno prima per le Olimpiadi (oggi al posto dello stadio c’è un parco verde dove qualcuno ancora gioca a pallone) e Vladimir Kozlov, dopo la partita, aveva camminato per un paio di ore, attraversando ponti e strade alberate, fino ad arrivare alla vecchia città. Nel frattempo si fermava a ogni bar a prendere una vodka. Appena la finiva faceva una smorfia e ripartiva alla ricerca del prossimo bar che trovava lungo la strada. In uno di questi, dentro la città vecchia, la Gamla Stam, aveva incontrato un tizio dall’aria sofisticata. Portava una giacca impeccabile color panna, le scarpe tirate a lucido, la cravatta e beveva del cognac. Vladimir Kozlov aveva chiesto una vodka alle erbe, tanto per cambiare, e siccome alle erbe non c’era, aveva detto che andava bene una al coriandolo, ma non ce l’avevano neanche al coriandolo, allora aveva detto, giusto per non uscire a gola secca, che andava bene qualsiasi tipo di vodka, anche secca, purché fosse buona. Poi aveva cercato di spiegare al tizio sofisticato, quello con la cravatta che beveva cognac, che la sua squadra aveva perso di sedici reti contro la Germania del Kaiser e che solo un giocatore della Germania del Kaiser, il maledetto Fuchs, aveva segnato dieci reti. Il tizio sofisticato annuiva con la testa, senza parlare. Vladimir Kozlov continuava la sua lamentela, che non si era mai vista una squadra così scarsa, che se ci fosse stato lui in campo avrebbe saputo fare meglio di quegli undici russi grossolani. Alla fine, quando l’uomo aveva chiesto un altro cognac al barista, in svedese, Vladimir Kozlov si era accorto che aveva parlato in russo per tutto il tempo e quando aveva chiesto al tizio sofisticato se lo capiva, lui, come aveva fatto finora, aveva annuito con la testa, come farebbe uno che conosce molto bene la lingua in cui gli stai parlando e non ha bisogno di dimostrarlo; oppure, il gesto in questo caso coincide, come farebbe chi non ha capito nulla, che molto probabilmente era il caso del tizio sofisticato.

Undici anni dopo si era formata la nazionale dell’Unione Sovietica e nel 1958, per la prima volta, sempre in Svezia, aveva partecipato ai mondiali di calcio (era la sesta volta che si giocava il mondiale ed era un evento unico, memorabile per certi aspetti). Il nipote di Vladimir Kozlov, che si chiamava anche lui Vladimir Kozlov, era un tifoso dello Zenit, cresciuto insieme a suo nonno, perché suo padre lo avevano mandato a lavorare a Mosca, mentre lui era nato e cresciuto a Leningrado. Anche lui era andato in Svezia ad accompagnare la nazionale, come aveva fatto suo nonno quarantasei anni fa. Voleva compiere lo stesso viaggio, perché pare che Vladimir Kozlov, nonno di Vladimir Kozlov, avesse raccontato diverse volte quell’avventura in Svezia al nipote, anche se ripeteva sempre le stesse cose, che la sua squadra aveva perso sempre, che gli svedesi non sanno il russo e che sono tipi misteriosi, perché non ti dicono che non sanno il russo, o non lo vogliono dire perché temono che uno possa rimproverarli. Come il nonno, anche lui era andato alla città vecchia e aveva incontrato pure lui diversi tizi sofisticati che bevevano cognac e non sapevano il russo. E poi, bisogna aggiungere, era felice di vedere in campo il suo giocatore preferito, Aleksandr Ivanovič Ivanov, dello Zenit, che in quel mondiale aveva segnato due bellissime reti.

Anche il nipote di Vladimir Kozlov aveva un nipote che si chiamava Vladimir Kozlov, in onore al nonno, e anche lui, come suo nonno in Svezia e suo trisavolo in Svezia anche lui, 28 anni dopo, era andato a vedere la sua squadra, questa volta al mondiale di calcio in Messico. Era felice come una pasqua quando la Russia di Lobanovsky, nella prima partita, aveva vinto sei a zero contro l’Ungheria nello stadio di Irapuato, la città delle fragole. In quel periodo, Vladimir Kozlov abitava da più di dieci anni a New York, nel quartiere di Brooklyn. Nel 1972 lo avevano espulso dalla Russia con l’accusa di parassitismo. Frequentava l’Università di Leningrado e aveva iniziato a scrivere due trattati, uno sulle bugie che diventano vere, perché alla fine tutti ci credono; l’altro, invece, dove immaginava che in un futuro non lontanissimo gli uomini avrebbero potuto programmare i propri sogni, intesi come produzione onirica, a fini terapeutici. Quest’operazione, secondo la sua teoria, avrebbe aiutato l’umanità a riconciliarsi con il prossimo e con la natura in generale, perché il sogno, sosteneva Valadimir Kozlov, sapendolo guidare attraverso il linguaggio onirico, potrebbe sedare le manie di potere e di egemonia. Aveva sposato una paraguayana che era andata a vivere a Brooklyn anche lei. Si chiamava Concepción, ma lei voleva essere chiamata Panambi, che in lingua guaranì significa farfalla, perché così la chiamava suo padre da piccola. Aveva vissuto fino ai diciotto anni in un piccolo villaggio ai confini con il Mato Grosso. La sua famiglia era stata espulsa dal paese durante la dittatura di Stroessner e dopo una lunga peripezia tra il Brasile e il Venezuela era andata a finire negli Stati Uniti. Ballava la cumbia muovendo il bacino di qua e di là e beveva sempre il mate. Panambi e Vladimir avevano due pappagalli e tre figli, Ramona, Elizabeth e Vladimir Kozlov. Nessuno dei due, né Vladimir padre né Panambi, parlava bene l’inglese, ma era l’unica lingua che avevano a disposizione, perché lui parlava solo russo e francese, e lei solo spagnolo e guaranì. Quando Vladimir Kozlov aveva saputo della vittoria della Russia contro l’Ungheria e poi del pareggio contro la Francia di Platini e poi ancora della seconda vittoria contro il Canada, era andato sulla Cento-ottava Strada a casa di un suo amico russo, esiliato anche lui, e gli aveva detto:

– Dobbiamo stare qua a marcire a New York o vogliamo darci da fare per questi russi? –

– A me, di andare tra i messicani per vedere una partita di calcio, dopo che i russi ci hanno pure mandato via, non va più di tanto. Io stavo bene là, davanti alla Fontanka, vedevo i battelli che attraversavano il canale…, ma se vogliamo andarli a vedere, io ci sto, chiedo ad Andrejkin se mi presta qualche soldo per il viaggio. Quando giocano? –

– Tra cinque giorni -.

Si erano organizzati alla meglio ed erano partiti spendendo le ultime risorse economiche. La Russia era stata la prima classificata del girone e da lì a poco avrebbe giocato contro il Belgio, che si era classificato al terzo posto. Vladimir si era portato il colbacco di suo nonno Vladimir Kozlov, quello che era andato in Svezia nel 1958, nonostante fosse giugno e facesse molto caldo. Quel colbacco era passato di mano in mano, di generazione in generazione, e adesso doveva esibirlo davanti alla sua nazionale, anche se apparteneva al paese che lo aveva espulso. Colbacco e occhiali da sole, cosi si era presentato allo stadio León quel 15 giugno 1986. La partita era finita tre a tre, ma nei tempi supplementari i belgi hanno avuto la meglio.

– Cara Panambi -, aveva detto alla moglie quando le aveva telefonato, – ci hanno rubato la partita con due fuorigioco, colpa di uno svedese, un arbitro di nome Fredriksson, maledetto lui. Fino a quando questi svedesi continueranno a tormentarci? –

Vladimir Kozlov non solo era amareggiato perché la sua squadra aveva perso agli ottavi di finale, ma perché dopo che si era tolto il colbacco per protestare contro l’arbitro, e lo aveva lasciato accanto a sé, non lo aveva trovato più:

– Gerasin, Gerasin -, diceva al suo amico, – qualcuno mi ha fregato il colbacco di mio nonno Vladimir Kozlov che, oltre al nome, è l’unica cosa che mi è rimasta della mia famiglia -.

– Non è possibile -, rispondeva amareggiato Gerasin.

– Invece sì -.

Infine, e per concludere con la storia dei Vladimir Kozlov, raccontiamo solo che anche Vladimir Kozlov aveva un nipote di nome Vladimir Kozlov, figlio del Vladimir Kozlov nato a Brooklyn, che, come avevano fatto quasi tutti i Vladimir Kozlov della famiglia, anche lui era andato a vedere la nazionale russa, ma questa volta in Brasile, insieme al padre, e sembra che adesso l’ultimo Vladimir Kozlov, ormai ventenne, si stia organizzando per tornare in Russia, a vedere qualche partita del mondiale, la tomba e quel che è rimasto del primo Vladimir Kozlov che abitava a San Pietroburgo, che nel 1912 era andato in Svezia a vedere le Olimpiadi.

 

 

*

Da I compagni non perdono mai. Storie di pallone dalla Russia sovietica a oggi, a cura di Daniele Comberiati, Prospero Editore, 2018.

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