S’i fosse Prunetti, rovescerei lo mondo. Il basso e l’alto in 108 metri
di Pietro De Vivo
In fondo, anche Shakespeare aveva detto che il succo della vita era quella roba lì: uno ti dà uno schiaffo, te glielo ridai, un altro rompe una bottiglia e minaccia di aprirti il collo. A quel punto non puoi perdere la faccia coi tuoi amici, è una cosa di orgoglio. Ti fai sotto e scoppiano le tragedie. Sono secoli che gli studiosi e i critici cercano di decifrare i segreti di Shakespeare. Basterebbe entrare in un pub di lavoratori il venerdì sera e il mistero sarebbe risolto. Orgoglio, Paura, Vendetta, Gelosia. Ci sono più cose tra il bancone e la latrina di un qualsiasi pub inglese di una catena in franchising, di quante ne sogni la vostra filosofia.
Basterebbe entrare insieme a Shakespeare in un pub di lavoratori il venerdì sera per cogliere l’essenza del rovesciamento tra basso e alto in 108 metri. The new working class hero di Alberto Prunetti (Laterza, 2018). Nel precedente Amianto (Agenzia X, 2012; poi Alegre, 2014) raccontava di suo padre Renato, saldatore tubista, operaio trasfertista e quindi frequentatore delle più letali acciaierie e raffinerie italiane, morto per colpa di una fibra di amianto insinuatasi nei polmoni. In questa che è la seconda parte di una trilogia working class si va avanti di una generazione: Alberto, figlio d’operaio, neolaureato in materie umanistiche che non riesce a trovare un lavoro decente, racconta il suo viaggio a Londra e i lavori umili e precari, fino al suo ritorno in Italia dove troverà – metafora del declino di un mondo del lavoro massacrato da decenni di Thatcherismo e neoliberismo – spento l’altoforno della sua Iron Town e malato di lavoro e in fin di vita Renato. Destino che accomuna diverse generazioni unite dai 108 metri di lunghezza dei binari forgiati dai vecchi operai delle acciaierie di Piombino, gli stessi su cui viaggiano i treni che portano lontano i figli delle officine, eredi della classe operaia, costretti a migrare all’estero.
La trama si svolge seguendo i lavori di Alberto: aiuto cuoco in una pizzeria italiana insieme a John Silver, vecchio marinaio giramondo che parla un misto della mezza dozzina di idiomi appresi navigando; addetto alle pulizie generali prima, e dei bagni poi, in un centro commerciale dove incontra il colto Brian, obeso amante della lirica abituato a sturare i cessi intasati affondandovi il braccio fino al gomito; addetto al servizio in una mensa scolastica con un vecchio e puzzolente ex attore shakespeariano in pensione e una ciurmaglia di varia umanità sottoproletaria dedita alla droga e al furto.
Prunetti adotta come punto di vista una posizione di confine: è il narratore ma anche il protagonista del libro, dentro e fuori il racconto, senza agiografie – perché il lavoro è brutto, è fatica, sporco, sudore – e senza atteggiamento coloniale da osservatore esterno. Uno scavalcamento dei confini tra dentro e fuori e tra basso e alto, riassunto da un piccolo ma fondamentale episodio, quando un giorno Alberto incontra Brian sempre più triste e abbandonato a se stesso:
“Riuscii a sollevarlo un poco solo mostrandogli una rivista storica che avevo trovato nella spazzatura. Riportava un articolo illustrato sul tema del mondo alla rovescia. […] Che colpo fu per me. Passai il giorno a rovesciare il mondo e non raccolsi affatto spazzatura nel centro commerciale: il litter picker va a passeggio e le cartacce le raccolgono gli aristocratici. Il pizzaiolo mangia e beve seduto e il padrone condisce la pizza. Gli operai come il mi’ babbo si fanno le terme e i capoccia delle fabbriche schiantano di caldo e di fatica all’altoforno. I gentleman vengono a coglie’ le olive nel campo mentre io parto per la settimana bianca ma siccome ‘un so scià do foco a tutto e ardo lo mondo. Poi mi faccio vento e lo tempesterei. Poi sa’ che direi: giro giro tondo, il quattrinaio brodo sprofondo.”
Il tema del rovesciamento è un filo della letteratura che, da Pulci e Rabelais fino a Bachtin, passando per il carnascialesco, ha intessuto tanta produzione in cui si rivalutava la cultura bassa rispetto a quella alta. Il corpo, il comico, il linguaggio popolare, l’assurdo e il grottesco, la franchezza e l’iperbole, l’elencazione mangereccia, gli appetiti sessuali, il gusto della dismisura sono sintomi dell’interazione tra sociale e letterario e tratti tipici del carnevale, il giorno in cui la collettività ribalta le gerarchie dell’ordine costituito. Mettendo il basso in alto e l’alto in basso si costruisce un diverso modo di stare al mondo dove tutti sono uguali, le barriere di classe e ceto sono abbattute, i corpi si liberano e tramite lo scioglimento degli obblighi sociali e si annullano i rapporti di potere.
Se il libro di Prunetti rovescia il mondo, le leve con cui prima lo solleva sono i personaggi. Personaggi composite come Renato e Quattr’etti, che assommano elementi di realtà e finzione diventando archetipi della classe operaia; ma anche i colleghi di Alberto, working class hero straccioni, artefici di un rovesciamento che si concretizza metaforicamente nel sabotaggio continuo dei ritmi di lavoro.
Non sono eroi machisti e militareschi della retorica nazionalista fascistoide; non sono eroi affascinanti e tenebrosi di tanta letteratura decadente; né eroi classici, epici o romanzeschi, che compiono imprese o viaggi di formazione. Il working class hero di Prunetti è un eroe a rovescio. Resiste e lotta ma è sfigato e sfruttato. È un eroe che magari non è brutto ma di sicuro non è bello, è sudato, puzza, è rumoroso e sboccato; ma è pieno di solidarietà, studia, lotta e resiste. Resta però un eroe straccione, sottosopra, e su questo rovesciamento risaltano quegli aspetti da commedia, elementi parodici e picareschi, descritti nell’esergo di Di Ruscio:
“Alla povera gente non è adatta la tragedia che è roba di re e principi in ogni caso di gente altolocata, a noi poveracci si addice il comico, l’irrisione dello strazio e in certi illustri casi a noi si addice l’epica. A noi si addice il comico anche per i rocamboleschi sistemi messi in pratica per la sopravvivenza.”
Le ciurmaglie di Prunetti cercano di impadronirsi del linguaggio per resistere al potere perché, anche senza aver studiato, capiscono qual è la forza della lingua e di chi la padroneggia, di chi è capace di imporre la propria, e che potente forma di resistenza sia riappropriarsene. Lo smontano e rimontano a rovescio, come fa John Silver mescolando più lingue in un creolo decolonizzato che è forma di comunicazione interculturale e linguaggio in codice per solidarizzare tra sfruttati senza farsi capire dai padroni. Come fa Emir, sguattero yemenita che traslittera in caratteri arabi le parolacce di Alberto nel più furbo dei rovesciamenti – accontentare il padrone che vuole si finga italiano, e prendere per i fondelli lui e i danarosi clienti che non lo comprendono – espressione di resistenza multietnica al potere.
“I ritmi erano lenti e il sabato mi affiancava come spalla uno sguattero yemenita. […] Da parte mia gli insegnavo rispettosamente meravigliosi insulti e parolacce toscane. Lui era molto interessato alle volgarità italiane che poi applicava subito al capo. Il boss gli aveva detto che anche lui doveva fingersi italiano, tanto eravamo tutti mezzi neri… Sicché Emir imparava una serie di espressioni scurrili in italiano e le ripeteva quando entravano i facoltosi clienti del locale, come fossero formule di cortesia e di welcome: se le scriveva in un’agendina traslitterando in caratteri arabi la fonetica delle parolacce maremmane, degli insulti livornesi e delle metafore volgari che gli insegnavo.”
Anche le figure retoriche sono rovesciate. Prunetti reifica le metafore, immagini che da astratte si ribaltano in concrete. Realtà è finzione si saldano nella perturbante Entità/Thatcher, malefica presenza sovrannaturale adorata dai gestori del centro commerciale dove lavora Alberto. La metafora del fantasma della Thatcher evocato simbolicamente per riferirsi alle riforme del lavoro e alla soppressione dei diritti, nel libro si fa letteralmente fantasma che perseguita il protagonista.
In Amianto abbondavano le metafore sugli attrezzi da lavoro. L’immagine finale dell’eredità paterna, l’officina stracolma di attrezzi, in 108 metri diventa un’officina del linguaggio pervasa da una sapienza operaia – saper usare gli strumenti del proprio mestiere – tramandata ad Alberto da Renato che, per evitare che parta senza un’adeguata cassetta degli attrezzi, gli infila di nascosto nel borsone un pappagallo da idraulico, un serratubi da tre chili e una raspa da maniscalco. Ovvero, fuor di metafora, gli strumenti da scrittore coi quali rifinire il proprio libro:
“Anni di lavoro per mandare in stampa un inedito dopo Amianto. Ho cominciato come un boscaiolo, ho continuato come un falegname, ho finito con una sgorbia sottile, sulle bozze, come un ebanista. 108 metri di acciaio. Una rotaia di parole.”
Attraverso questi continui sovvertimenti delle gerarchie Prunetti prova a scavalcare gli steccati tra descrizione e invenzione per dare sfogo a un’urgenza di raccontare e di rappresentarsi in quanto classe lavoratrice. Rifuggendo da un mero biografismo, vivere e narrare si compenetrano. E soprattutto – tipico di ogni working class hero – non ci si prende mai troppo sul serio.