Le domeniche dagli Hettner
di Kika Bohr
Quando ero piccola a Milano, la domenica andavamo a trovare gli Hettner. Prima abitavano in via Rugabella in un piccolo appartamento pieno di libri e di belle cose. C’era un soppalco di legno costruito da lui, da Rolando, e lì sopra veniva a rifugiarsi un gatto a pelo lungo e dalla lingua penzolante. Questo gatto era caduto giù dalla finestra ed era “rimasto un po’ scemo” come diceva con affetto la Jose, che era una strana maestra elementare. Sapendo delle nostre difficoltà a scuola ci diceva sempre, facendoci sognare: “ma tu dovresti venire nella mia classe! Abbiamo dei canarini e dei pesci rossi. E i canarini una volta al giorno li lasciamo svolazzare!” e ogni tanto ci faceva la linguaccia, tanto per scherzare e noi restavamo allibiti.
Roland Hettner ci portava al suo atelier, in via S Calimero e ci mostrava i suoi ultimi quadri, enormi quadri astratti che spesso ci facevano un po’ paura con i colori molto forti, o disegni con personaggi dalle mani nodose come rami d’inverno. Quando doveva andare al gabinetto diceva “vado al boschetto”, il gabinetto lì era sul ballatoio. E c’era anche un altro signore un po’ calvo, il Baumbach uno scrittore o un traduttore con il quale gli Hettner e i miei genitori parlavano di letteratura e di arte per ore e ore, e fumavano e bevevano whisky (appena c’erano un po’ di soldi per comprarlo), mentre noi giocavamo con quei loro strani oggetti preziosi. Oppure ci davano colori o creta per modellare. (Così è capitato che a quattro anni ho modellato in creta bianca il primo presepe.) Il Baumbach era veramente uno strano personaggio con quelle sopracciglia foltissime, non aveva mai conosciuto suo padre, che gli aveva pagato eccellenti studi nelle più famose università, forse era un principe, si diceva.
Ogni tanto i grandi venivano ad ammirare le nostre creazioni. Ricordo un commento serissimo della Jose : “Oh, sì questo è proprio uno scimpanzé che fa le uova!”
Hettner e Olaf, mio padre, erano entrambi molto alti e molto magri. Si assomigliavano anche nella loro aria sognatrice. Una volta ho sentito Jose dire a mia madre mentre i due uomini stavano tornando verso di noi :“Tiens! Voilà Don Quischotte et son fils”. Non mi ricordo in che lingua lo abbia detto, lì si parlava francese, tedesco e italiano anche misto nelle stesse frasi.
In primavera o estate si facevano “pique-nique” come li chiamava entusiasta Rolando e si andava a Castellazzo o in alti posti vicini della Brianza con la sua vecchia macchina azzurra che si chiamava Caroline e con la nostra vecchissima Mercedes che non aveva nome ma era una “Mercedes”. Poi da loro comparve il cane Bosco, uno spinone bianco salvato da maltrattamenti contadini. Dopo qualche anno comparve un altro cane, chiamato Frac per via del suo mantello nero con sparato bianco. Ricordo che ci sono state discussioni sulla sua razza perché a me sembrava che fosse una specie di barboncino ma gli Hettner lo volevano bergamasco, “un incrocio bergamasco piccolo” e gli parlavano in un maccheronico bergamasco. Alla fine si è rivelato che Frac era una cagnolina e così ho potuto stabilire tranquillamente la corrispondenza tra Bosco e Monsieur Hettner, e Frac e Madame Hettner. Finché e arrivato un altro cagnolino, piccolo e pestifero questa volta, un maschietto tipo volpino con delle macchie arancio: Carotte. Questo Carotte che già con la sua chiassosa presenza turbava, secondo me, l’equilibrio della famiglia Hettner, lo turbò del tutto quando riuscì, in barba a Bosco, a fare due cuccioli con Frac.
Hettner aveva scritto un libro di testo per l’educazione artistica nella scuola media e con i soldi aveva comprato un pezzo di cascina a Vaprio d’Adda: la Cascina Noce. Con i cani, i gatti e tutto lo studio si sono trasferiti lì. E ancora, ma un po’ meno spesso, ci vedevamo la domenica nel loro giardino. Io stavo diventando adolescente e uscivo con i miei amici. Era il tempo in cui facevo politica e andavo entusiasta alle manifestazioni. Quando glielo raccontavo e gli dicevo che secondo me l’arte dev’essere impegnata, Hettner sorrideva e qualche volta ci raccontava della sua giovinezza, quando aveva preso parte al movimento spartachista. E poi passava d’improvviso a quando i tedeschi persero la testa per Hitler e le madri, ”pensa un po’, le madri, prendevano in braccio le loro figlie e le tendevano verso il Führer che passava, così” e sollevava la mia sorellina (che aveva sette-otto anni) per le gambe e la scuoteva un po’ verso una specie di Gesù Cristo immaginario.
Un giorno i contadini che abitavano vicino a loro ci avevano invitato a vedere il loro nuovo asinello Era molto grazioso e noi bambini non riuscivamo più a staccarci dalla stalla. Allora per scherzo il contadino chiede a mia sorella se vuole portarsi via l’asinello. “Sììì!” – Allora dammi la tua treccina!
Questa storia della treccia che il contadino voleva portarle via si ripeteva ogni volta che andavamo dagli Hettner e incrociavamo questi vicini. Ogni volta quello ripeteva – Allora, me la vuoi dare la tua treccia? Dài, dammela! E giù a ridere, anche la contadina. Mia sorella rispondeva sempre un secco no! E scappava via .
Questa volta, per l’asino, rispose invece subito: “Taglia!”
E tutti risero ancora di più della sua ferma decisione.
Perché i grandi fanno di questi scherzi? Perché gli Hettner si erano messi vicino a quei contadini che oltre ad allevare conigli e galline mangiavano anche i gatti? Non i gatti degli Hettner, almeno, non ufficialmente. (uno dei gatti era sparito e io ero sicura che erano stati loro)
Un’afosa domenica d’estate (ero in seconda liceo ed ero stata rimandata in matematica) ci sono andata con mio padre. Avevo preparato una crostata di mele e pesche. La frutta era disposta in modo decorativo ed ero fiera della mia produzione. Con la teglia ben imballata siamo dunque arrivati là poco prima del pranzo. Quando Hettner vede il pacco che maneggio con attenzione, gli brillano gli occhi. “Hai fatto qualcosa in ceramica? – mi chiede. – No, molto meglio, è una crostata di mele e di pesche!” – “Ah..” risponde lui, deluso. Ricorderò sempre questo suo “ah..” così sincero che mi ha fatto male più di qualsiasi schiaffo e mi ha fatto capire che non tutti hanno gli stessi valori.