Malcolm Morley (1931-2018)
Rinaldo Censi
Di Malcolm Morley, deceduto qualche giorno fa a ottantasei anni, prima della carriera di artista, mi ha sempre colpito l’infanzia disagiata, quasi dickensiana. Frequenta una scuola navale. Ha una gran passione per i modellini. Durante la Seconda Guerra Mondiale rimane traumatizzato. Una notte, il suo palazzo viene bombardato. La corazzata H.M.S. Nelson che stava costruendo finisce polverizzata, come la parete di casa. Viaggia in nave. Viene arrestato per furto e condannato a tre anni di prigione. Mentre li sconta, legge il libro di Irving Stone sulla vita di Van Gogh. Inizia a dipingere. Si iscrive a un corso per corrispondenza. Quando esce, si arrabatta, dipinge acquerelli, frequenta il Royal College of Art, a Londra. Arriva il primo choc: la mostra degli espressionisti astratti americani alla Tate. È il 1956. Della mostra alla Tate ricorda l’impatto con le opere di Clyfford Still, Rothko e soprattutto Barnett Newman. Parte per gli Stati Uniti. Raggiunge una ragazza ebreo-russa che aveva conosciuto su un bus. Si sposa e si separa. Torna a Londra per diplomarsi. Viaggia in transatlantico. Si trasferisce a New York. Dipinge. Cerca una sua “casa”, cioè una modalità espressiva propria, che lo affranchi dalle correnti, dalle mode. Sono i tempi dell’espressionismo astratto e della Pop Art. Warhol si era preso le bottiglie di Coca Cola, Lichtenstein i fumetti, Wesselmann le labbra e i grandi seni. Morley ci prova con i transatlantici.
Scende nel porto e cerca di dipingerne uno. Le dimensioni sono enormi, sfuggono. E poi c’è la faccenda meteorologica. La luce cambia, o piove: è un casino. Così decide di lavorare a partire da fotografie, cartoline, depliant. Le copia letteralmente. Trasferisce non il transatlantico, ma la fotografia, su tela. L’ingrandisce, facendole fare un enorme salto di scala. Lo chiameranno Iperrealismo, Foto realismo, o – come preferiva Morley – Superrealismo. Con lui cui sono Chuck Close, Ralph Goings (e prima di loro Richard Artschwager). Rispetto ai mezzi di riproduzione meccanica della Pop Art, gli “iperrealisti” compiono il gesto inverso. Dipingono a mano. Morley utilizza una lente di ingrandimento e una griglia fittissima. Capovolge il quadro e lo nasconde, fatta eccezione per la minuscola porzione da dipingere. Vuole restare distaccato. Vuole: «far affiorare la superficie della tela, ma senza provocare onde». Tutto è piatto, il tocco invisibile, cancellato.
Un marinaio sa che senza vento non ci saranno onde. Morley invece farà i conti con qualsiasi corrente atmosferica. Col tempo il suo tocco cambia, come i mezzi utilizzati. Performance, sculture, combined painting. Ma su tutto resta la pittura. Rispetto alla nettezza superrealista, il tratto si allarga, si fa a volte impreciso, astratto, brutale. Sembrano quadri dipinti da un marziano. Una volta Dalí gli dice: «Malcolm, lei ha un occhio fantastico; dovrebbe dipingere cose che nessuno abbia mai visto ma che siano reali». Credo l’abbia preso alla lettera.