Minima Oralia : Luigi Cinque

 

Oral Poetry e Identità Selvaggia *

di

Luigi Cinque

 

Oral Poetry. Se ne parla molto spesso senza cognizione. Qualcuno crede ancora all’equazione che fu dell’America degli anni Cinquanta e Sessanta, diventata da noi sottoequazione e farsa di provincia, di colonia, ovvero: il passaggio semiautomatico da medio poeta beat&freak a rockstar, e pure con significato politico. Da lì deriva probabilmente quell’auto referenzialità – quella speciale sindrome Bruce Springsteen, Patty Smith quando non Kathy Berberian o Demetrio – che oggi consuma i nostri poeti performer/lettori di poesie con musica. Quell’analogia era, in buona dose, dovuta al forte imperialismo americano postbellico, al suo potenziale di esportazione della lingua e il conseguente mercato che si produceva a scapito, si capisce, delle singolarità culturali colonizzate. C’era posto per quasi tutti i white americans. In un certo senso facevano un’azione di pulizia. Il furore mercantile dello zio Sam induceva, procurava e giustificava, a sua immagine e somiglianza, nei giovani readers&poets americani, una subliminale disposizione al saccheggio dei «negri», dei «colored bluesmen», degli hobos, dei dropout, del folk dei workers «with Grape of wrath» alla Steinbeck o «with bound for glory» alla Guthrie ma anche degli indiani, dei pakistani, degli aborigeni non americans del mondo. Li derubavano dei loro versi, dei loro racconti, dei loro modi di comunicare, delle loro ripetizioni. I nostri eroi beats erano assetati, famelici. Mescolavano il tutto in salsa Pound, Whitman, Baudelaire, T.S. Eliot, Rimbaud e rimodellavano a suon di black bebop in neorealismo on the road, in american way un po’ maledetta, leggendo in quei reading (che noi un paio di decenni dopo credemmo mitici) nei College in subbuglio, nelle strade e soprattutto nelle cantine dei bianchi new left, degli ebrei, dei siciliani, degli irlandesi, dei wasp.

Avete mai visto un nero in quel folto gruppo di beat/suca/parole? Pochissimi. LeRoy Jones (che non era ancora Amiri Baraka, sia chiaro) fu una delle poche eccezioni. Il procedimento era semplice: i nostri eroi riprendevano cinquant’anni dopo le avanguardie europee e, in un’America che si preparava all’hamburgerizzazione del mondo, a forza di droghe e di malinteso buddismo zen, teorizzavano che meno si pensa e più si è geniali; che tutti siamo geni e non lo sappiamo; che per diventarlo basta liberare se stessi «fino in fondo», anzi (e non è poco) liberarsi di se stessi e, visto che siamo tutti geni, ne conseguiva, guarda guarda, che tutti possiamo diventare senza problemi geni del consumo: 1950, nascono i primi veri consumantes della storia umana. Tornando all’arte, i nostri eroi contribuirono (ma non furono i soli, mettiamoci le varie avanguardie!) anche alla nascita di una essenziale figura del Novecento: il genio artistico cretino come ci dice Alfonso Belardinelli.

Gli editori accorrevano spavaldi, li coccolavano, li spompinavano, promuovevano i loro eccessi infantili. I discografici fiutavano l’affare e fu così che molti di loro passarono al più remunerativo mercato musicale e il Ministero dell’Immagine Americana nel Mondo approvava. Dopotutto un certo antagonismo libertario faceva molto bene all’export, ma con la giusta dose di sovversione funzionale, si capisce, senza mai trasformarsi in eversione, altrimenti la questione si sarebbe complicata e il Sistema sarebbe poi stato costretto a usare metodi forti: vedi le morti eccellenti del rock fino a Lennon, per intenderci.

Tra questi poeti e cantori ci sono state schiere di esempi luminosi, certo, da Jim Morrison a Patty Smith passando per lo stesso Dylan. Da bravi inconsapevoli coloni siamo cresciuti con loro. Li abbiamo imitati come potevamo e, per anni (o forse ormai per sempre, perché hanno popolato i nostri vent’anni) li abbiamo molto amati.

Ma se torniamo al presente e restiamo in argomento, vediamo che l’oral poetry di casa nostra non fa che ribadire davanti al pubblico del primo quarto del terzo millennio fenomenologie ormai comico/mistiche del genio cretino.

Facciamo allora un po’ di chiarezza: l’oral poetry non ha niente a che fare con l’esercito dei poeti sordi, dei performer neostonati e postavanguardistici; non si collega alla nobile tradizione della poesia sonora europea; non è, come rischia di apparire, l’ennesima estrinsecazione del narciso celibe; non è una rivoluzione mirata a liberare il verso poetico dalla pagina angusta e librarlo nell’aere; non si tratta di mettersi davanti a un microfono e telefonare le proprie poesie leggendole con della musica di sottofondo. La «poesia detta» – chiamatela pure spoken poetry –, la parola-verbo, arriva da molto lontano. Essa si basa essenzialmente sull’ascolto, sulla pratica religiosa dell’ascoltare, del sentire. L’oral poet – diciamo così – che potremmo chiamare tranquillamente electric shaman – ascolta gli ascoltatori prima ancora di parlare, instaura un feedback e quando infine parla racconta quanto sta ascoltando in quel momento.

Non c’è voce poetica (suono) senza ascolto del mondo. Né può esserci alcuna forma di poesia orale senza quel piccolo teatro che è l’orecchio nel quale l’essere rimette in scena il «reale» e lo rappresenta nella forma alta di intrattenimento; non esiste oral poetry senza quell’attività di leghein (ascoltare, conservare, raccogliere, riflettere silenziosamente) che si è «smarrita» ci dice Heidegger «in favore dell’affermazione di un logos», di un io narciso, «tutto preoccupato di dire, affermare, discorrere».

Solo in questo modo si arriva alla «parola-suono» (che è la casa dell’essere), a una parola transitiva che è in grado di mostrare, manifestare al di fuori di se stessa, qualcosa che senza di essa rimarrebbe nascosta, o perlomeno invisibile.

«Il verso cantato deve cominciare sempre con il suono della vostra pelle» diceva uno dei Dagar brothers, cantante di Dhrupad, a proposito dell’inizio dell’esposizione. Nel suo caso i versi dei poemi vedici si tengono come riferimento e si improvvisano, si abbelliscono e all’istante vengono inventate tutte le possibili varianti ritmo-melodiche, ma dentro la tradizione. Via via la sua parola cantata diventa solo significante, suono, e perde lentamente il significato, che deve essere tuttavia percepito nella forma di una sparizione, come un frullare di ali ma senza vedere neppure il volo di qualcuno, uccello o demone che sia.

L’oral poetry viene comunemente definita come poesia composta e trasmessa senza l’ausilio della scrittura. Dunque siamo alla sintesi orale, non epica; alle formule che hanno il potere, se dette, pronunciate, cantate nel modo giusto, di mediare con l’altrove, con gli dèi, ognuno dei quali oltretutto ha una sua vibrazione su cui sintonizzarsi. La poesia orale esiste solo quando diventa e produce suono, realtà altra, parallela.

Le parole devono mantenere certamente un senso percepibile che si dissolve in altro, in una sorta di Identità Selvaggia, proprio nel momento in cui si pronunciano. Tutto questo non ha niente a che fare con l’idea, spesso sentimentale, che abbiamo di poesia. La poesia orale è suono. Suono che magicamente non esprime ma lascia sparire il poeta o, in certi casi (pochissimi) l’attore-medium che coscientemente fa risuonare versi di altri.

Chi ha avuto l’esperienza di vedere Carmelo Bene in azione, in scena, o chi con lui ha collaborato, come mi è capitato brevemente di fare, lo vedeva davvero sparire dietro il suono dei versi. Carmelo non esprimeva o comunicava niente. Tracciava traiettorie che disegnavano figure sonore e quelle figure (qui sto citando Alessandro Baricco) erano icone dell’umano. La poesia in questo modo smetteva di essere una telefonata fatta per comunicare e diventava un’entità di pietra.

Senza dimenticare l’attenzione ossessiva, obliqua e malvagia, che Carmelo poneva sull’uso del microfono. Quanti infiniti microgesti egli studiava tra i mille gradi di vicinanza alla bocca. Così il microfono diventava, come per i cantanti di rango, uno strumento che si suona come la coulisse di un trombone. Per fare questo serviva tecnica, esperienza, capacità di sintonizzare il proprio orecchio con il feedback che arrivava dai monitor di palco. Il microfono era l’amplificazione della voce, era la maschera greca, era la laringe e la corda vocale che proiettava l’io nel cosmo, era la capsula spaziale, era il nuovo capitolo della «presenza della voce».

Eccoci alla voce, alla sua presenza nel mondo, all’esercizio fonico che, dice Paul Zumthor, si manifesta preminentemente nell’uso del linguaggio. Zumthor fa una dichiarazione chiarificatrice: «Una voce senza linguaggio non è abbastanza differenziata da far passare la complessità di forze del desiderio che la animano, mentre la stessa impotenza colpisce la lingua senza voce che è la scrittura. Dunque le nostre voci richiedono il linguaggio e nello stesso tempo godono nei suoi confronti di una libertà d’uso pressoché totale e che ha al suo culmine il canto».[1]

Ma c’è qualcosa di più, ed è la relazione antropologica tra parola e musica. Eviterei la linea di fuga del folklore, ma lo stesso mi consento un richiamo al mondo tradizionale.

La parola poetica di tradizione si avvale di una precisa tecnologia dell’organo vocale. È di per sé significato e significante. Il poeta di tradizione orale controlla e suona «quell’eccesso di connotazioni che la voce, qualsiasi cosa faccia, porta con sé. Dal rumore più insolito al canto più squisito, essa crea una gamma molto vasta di associazioni culturali, musicali, quotidiane, emotive, fisiologiche» diceva Luciano Berio.

C’è dunque un’identità tra suono e significato che è da sempre la base della poesia di tradizione orale. Il poeta, il cantore, il cuntista modella la materia sonora per spettacolarizzare il frammento poetico o l’epica, e in tal modo il racconto che in esso si realizza non è propriamente quello che tende a ricostruire un passato secondo una prospettiva temporale ma diventa Onniscienza di carattere divinatorio.

Se ricerchiamo, per quel che ci è possibile, nella classicità mediterranea, troviamo che tra parola poetica e suono-musica esiste una vera e propria Identità Selvaggia: permane il senso che la parola è di per sé, innanzitutto, suono, mentre il rumore/suono/musica non è solo significante, ma, per via simbolica, verbo primario, radice, suggestione e significato esso stesso.
Il ritmo, già possessione metrico-poetica, diventa infine il luogo elettivo di quell’identità: il luogo vero della convivenza. Questo i tragici greci lo sapevano bene, e infatti elaboravano una partitura-tessitura di testo ritmico e suono: erano, insomma, autori-compositori a tutto campo, non semplici librettisti.

L’unità narrante di suono e parola è da considerare oggi, insieme alla microfonia e alle nuove tecnologie, come una vera possibilità di evoluzione contemporanea del teatro di poesia.
L’Identità Selvaggia è la sospensione del significato e del significante in uno stato di reciproco ascolto; è l’essenza stessa della poesia di tradizione orale; è un’azione scenico-sonora tesa a cogliere e restituire la risonanza altra – terza – tra musica e parola, considerando quest’ultima come anticipatrice di suono, e la musica come paesaggio della parola.

Se assistiamo, oggi, a reading che si spacciano come performance di oral poetry, ci accorgiamo, molto spesso, che i poeti portatori sono vittime di un insanabile equivoco. Leggendo le loro poesie davanti a un foglio scritto e accompagnati alla meglio da un ensemble musicale acustico o elettronico che sia, pensano di compiere il gesto forte e di approdare negli «orti saraceni» della «nuova Poesia liquida». Non è così. Intanto un’azione del genere presuppone in prima istanza – ma lo stesso non basta – la memoria del testo scritto. E poi mancano tutti quei fondamentali che ritroviamo nei residui di poesia orale tradizionale ancora vivi sia nelle fasce folkloriche europee, come i cuntisti, sia nelle grandi tradizioni dei griot africani, degli sciamani nordici, ma anche in molti infiniti studi realizzati in ambito di musica contemporanea. Rendiamo omaggio ai tanti vocalisti moderni che hanno sperimentato in questo senso.

In tutti i casi, pur lasciando al testo le sue prerogative grammaticali e fonematiche, la voce deve rispettare (o contraddire consapevolmente) i parametri dell’intonazione, del timbro, della durata, dell’espressione.

Da qui si passa al secondo punto. Al salto vero. Serve l’interplay. Il rito dell’oral poetry si compie solamente se in scena prende forma una nuova identità sciamanica. Il poeta deve ascoltare, giocare con gli altri aspetti della musica prodotta in scena poi costruire, inventando in tempo reale il poema. Questo è il salto: comporre nel tempo del rito scenico. Le parole non sono più «pre-visione» ma devono essere «in-visione»; devono essere possessione e improvvisazione, ovvero, elaborazione della parola metrica e del senso in tempo reale. Anche qui le tecniche oltre che i fondamentali sono decisive. Esse prescindono dal talento, si capisce, ma servono tuttavia alla forma, all’intrattenimento. Valgono soprattutto per esplorare l’immediato, alleggeriscono l’istinto. Servono a sospendere il tempo reale della performance e consentono all’esecutore di entrare nel tempo molecolare della comunicazione. Senza una tecnica acquisita è molto difficile proporre alcuna forma di relazione con la musica e con l’ascoltatore.

Vanno dunque considerati bagagli indispensabili per un «teatro poetico della visione» i parametri di ritmo, metrica, armonia, radice, significato, significante, comunicazione, ascolto, intonazione, microfonia, tempo reale, vocalità, elettroacustica, vibrazione, gesto/corpo, respiro, sguardo, silenzio, memoria/testo, bagaglio narrativo.

Se guardiamo alla tradizione, l’aedo, il rapsode, il griot, lo sciamano, il cuntista, ma anche i moderni poeti di strada metropolitani e molti performer di area classica/contemporanea, avevano e hanno padronanza di tecniche precise e studi preparatori a carattere ritmico/mnemonico/informativo. Procedono con un sistema di formule collegate le une alle altre secondo rapporti abbastanza complessi di equivalenza, di complementarità, di opposizione, sia semantici, sia funzionali. Così in scena, nel tempo di richiamo della memoria (quasi un pilota automatico), nella citazione della formula preparata, pur continuando a ritmare e dire, (o ripetere: la ripetizione è un elemento tecnico/formale decisivo) riescono a sdoppiarsi, permettendosi una sorta di sonnambulismo creativo e visionario che è quello che produce la forza «poetica e politica» del poeta medium; che gli fa tendere la mano dentro di sé a raccogliere informazioni extrasensoriali. Per questo il poeta performer contemporaneo deve costituirsi, anche all’interno della propria produzione, un bagaglio di memoria, lavorare in scena per strutture modulari a collegamento istantaneo, essere attore della composizione immediata.

Dopotutto, i ragazzi del rap americano, quelli della inner city, ovvero la città profonda e nascosta, quelli certo più veri e interessanti dei nostri eroi della beat generation, che oltretutto i fondamentali li hanno imparato dalla strada, usano le tecniche del dozens, un gioco verbale diffuso e memorizzato che permette di improvvisare su norme retoriche e metriche complesse e rigorose; che permette di picchiare con le parole come quel maestro di pugni e insulti verbali ritualizzati – dice Sandro Portelli – che risponde al nome di Muhammad Alì.

Penso davvero che oggi, nell’era della replica delle repliche, nel terzo e forse ultimo tempo della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, nel secolo della globalizzazione degli oggetti e della tribalizzazione dei soggetti, un’improvvisazione consapevole, sapiente, che si prenda in scena i tempi – irrinunciabili – della composizione di suono e senso sia l’unica vera prova di forza che possiamo operare. L’oral poetry deve riferire da altre dimensioni e determinare eventi non replicabili. Take cinematografici unici.

Sarà bene che le schiere di narcisi con pretesa di oral poetry escano dal povero surrealismo di massa con le loro paginette appoggiate su leggii defunti e provino a fare il salto nell’Identità Selvaggia della parola stabilendo finalmente una connessione accelerazionista e postumana tra arcaico tradizionale e terzo millennio. Questa sarebbe musica per le nostre orecchie. E se, poi, vogliono perpetuare la lettura, si convincano almeno che leggere in scena deve essere un modo di dimenticare. Una non forma dell’oblio. Un modo, come dicevamo citando Carmelo Bene, di scomparire e rendere nuovamente bianca la pagina appena letta.

In quanto poi alla canzone, essa è una singolarità differenziata. Gioca in un campionato diverso. E la pagina scritta di un libro di poesie è ancora altro. La questione è semplice e già ampiamente dibattuta. La confusione fa male.

 

[1] Paul Zumthor, La presenza della voce, Il Mulino, Bologna 1984.

 

* Oral Poetry e Identità Selvaggia è un capitolo di Kunzertu 77 18 . Memorie di bordo per una musica del futuro.        in uscita a fine Giugno 2018 per le Edizioni Hypertext O’rchestra e Zona Music Books

 

 

5 COMMENTS

  1. Da anni invoco una tassonomia per sciogliere e distinguere i molti fenomeni che vengono accorpati sotto la pseudodefinizione poesia orale/performativa. E invece vedo che le cose continuano ad ingarbugliarsi e confondersi sempre di più, via via che la moda degli slam poetry e degli open mic travolge sempre più persone, persone che purtroppo si definiscono e quindi vengono definiti poeti, spesso senza neppure il fatidico aggettivo orale e o performativo. Già la distinzione fra orale e performativo aprirebbe abissi di distinguo, e che non li si distingua dipende dall’ignoranza dei sedicenti poeti perché la distinzione è stata fatta da molta letteratura. Ci sono molti buoni motivi perché una persona salga su un palco con un foglio in mano e spinga il suo fiato contro un microfono: fare un comizio, per esempio. Ma lo stile oratorio di un comizio non ha necessariamente a che fare con la poesia. Per esempio sfogare le proprie frustrazioni affettive. ma lo stile oratorio della lamentela non ha necessariamente a che fare con la poesia. E invece è tornata alla grande la confusione fra espressione delle proprie emozioni e/o idee politico-sociali – spesso auliche e sublimi – con la natura letteraria della poesia. Dunque ad esempio spiegare ai sedicenti poeti che per fare poesia l microfono bisogna quanto meno saper usare la voce e il microfono è già un passo avanti nella dissipazione delle fumisterie poeteseggianti. Il valore di una improvvisazione poeticamente e vocalmente consapevole è ancora di più una lontana acquisizione, mi pare. L’uso della musica è patetico e musicalmente insopportabile. Riguardo all’uso esteticamente interessante della memoria piuttosto che del depensamento su carta non sono d’accordo con Luigi, ma certo è ottimo spunto di dibattito.

  2. Caro Luigi, non ho tempo per rispondere in modo approfondito. Posso dire solo che sia la pagina scritta che la lettura orale sono importanti per la fruizione della poesia. Credo che il rapporto più intimo con la poesia si può avere leggendo il testo scritto (almeno per me è così), ma mi sono accorto che certe mie poesie sono stati capite meglio, da chi già le conosceva, dopo aver ascoltato una mia lettura. Quindi la lettura ad alta voce aggiunge qualcosa, arriva inoltre anche dove non arriva il testo scritto, e questo è importante.
    Io leggo volentieri le poesie in pubblico ma non sono un poeta performativo. Leggo cercando di far capire tutte le parole, senza effetti particolari e senza la musica che a volte interferisce col testo. Dire che leggo cercando di far capire tutte le parole può sembrare una banalità; ma non lo è. Se la poesia è linguaggio concentrato, e se, anche, è linguaggio illogico e quindi imprevedibile, perdere due parole può significare perdere il senso di una poesia. Quindi la mia lettura è preferibilmente non veloce e scandita.
    Ci sono dei bravi poeti performativi, ma ci sono tra loro anche molti tromboni. Ne ho sentiti tanti, anche negli Stati Uniti e in America Latina. Per questo diffido dalla poesia performativa, e sono pochi i performers che apprezzo.
    Voglio dire inoltre una cosa: gli epigoni della generazione beat sono di qualità scadente. Credo che Ginsberg, a cui giustamente è stata attribuita una cattedra universitaria, ha creato però una serie di cloni. Più che una scuola, ha costruito una retorica.

    • Caro Carlo, nel mio scritto è sempre presente una grandissima devozione per la poesia scritta. La mia
      non è una presa di posizione a favore dell’oralità poetica in luogo – o versus – la pagina scritta. Tutt’altro. Le due cose non sono paragonabili. Fanno parte di processi diversificati. Le tue poesie mi piacciono molto. Un abbraccio

  3. L’editore precisa che i crediti del libro da cui è tratto questo brano sono i seguenti:

    Luigi Cinque
    KUNZERTU 77 18
    Memorie di bordo per una musica del terzo millennio
    ZONA Music Books 2018
    in collaborazione con Hypertext O’rchestra
    libro pp. 442 illustrate b/n – EURO 24,90 – ISBN 9788864387789
    anche in e-book – disponibile da SETTEMBRE 2018

    Grazie!

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francesco forlani
francesco forlani
Vive a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman e Il reportage, ha pubblicato diversi libri, in francese e in italiano. Traduttore dal francese, ma anche poeta, cabarettista e performer, è stato autore e interprete di spettacoli teatrali come Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, con cui sono uscite le due antologie Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Corrispondente e reporter, ora è direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Con Andrea Inglese, Giuseppe Schillaci e Giacomo Sartori, ha fondato Le Cartel, il cui manifesto è stato pubblicato su La Revue Littéraire (Léo Scheer, novembre 2016). Conduttore radiofonico insieme a Marco Fedele del programma Cocina Clandestina, su radio GRP, come autore si definisce prepostumo. Opere pubblicate Métromorphoses, Ed. Nicolas Philippe, Parigi 2002 (diritti disponibili per l’Italia) Autoreverse, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2008 (due edizioni) Blu di Prussia, Edizioni La Camera Verde, Roma Chiunque cerca chiunque, pubblicato in proprio, 2011 Il peso del Ciao, L’Arcolaio, Forlì 2012 Parigi, senza passare dal via, Laterza, Roma-Bari 2013 (due edizioni) Note per un libretto delle assenze, Edizioni Quintadicopertina La classe, Edizioni Quintadicopertina Rosso maniero, Edizioni Quintadicopertina, 2014 Il manifesto del comunista dandy, Edizioni Miraggi, Torino 2015 (riedizione) Peli, nella collana diretta dal filosofo Lucio Saviani per Fefé Editore, Roma 2017