INTATTI FANTASMI CHIEDONO IL REALISMO: JACK SPICER

UN’INTERVISTA A NATHALIE QUINTANE

a cura di Andrea Franzoni

In occasione della prima pubblicazione in italiano di After Lorca, di Jack Spicer, presso Gwinplaine edizioni, ho chiesto a Nathalie Quintane ― scrittrice, intellettuale di rilievo e autrice della prefazione all’edizione francese delle opere complete di Spicer ― di tornare su alcuni dei punti più rilevanti, a mio avviso, della poetica spiceriana e della parabola che ha attraversato nella poesia americana ed europea. Si tratta di questioni fragili, che mettono il dito su ferite forse aperte ancora della contemporaneità: la relazione con i fantasmi, la presenza del poeta, l’esercizio della poesia, l’ego e il tentativo del superamento del sé e delle proprie retoriche. Ringraziamo Nathalie Quintane per essersi prestata a quest’esercizio di dialogo. Le medesime domande verranno poste nei mesi a venire ad altri autori e studiosi, tra Francia, Italia e Stati Uniti. La varietà delle risposte ci potrà così offrire una visione ampliata di termini e concetti utilizzati nella lettura di questo strano autore. Ricordiamo che Spicer nacque nel ‘25 e morì nel ’65 a Berkeley. Che ha sfiorato i grandi e i piccoli della poesia, e come un Narciso si è confuso con lo specchio da lui fabbricato (“I fabbricanti di specchi conoscono il segreto – non si fa uno specchio perché somigli a una persona, si porta una persona davanti allo specchio”), e vi è annegato, simile ad Ila in questa morte più che al Narcisetto. Come disse il poeta: il fattore non disdegnò di farsi fattura. Nella fattura dunque si ricerchi il fattore.

Roma, 12-06-2018

A. F. – Scrive Corrado Costa in Pseudobaudelaire: “Intatti fantasmi chiedono il realismo”. Potrebbe essere, a tuo avviso, una formulazione giusta, se applicata al fantasma di Garcia Lorca, in After Lorca, di Jack Spicer? E cosa può significare, secondo te, il “realismo” per un fantasma?

N. Q. ― È una formulazione senz’altro più esatta di quella di Marianne Moore quando dice di sognare di mettere “rospi reali in giardini immaginari.” In After Lorca, Spicer è in piena lotta contro “l’immaginario” e più precisamente contro tutto ciò che concerne l’immagine o l’imagismo in poesia. 1956/57: siamo all’inizio dell’esplosione Beat, orchestrata da poeti (Ginsberg in particolare) che sono degli assi della comunicazione (cosa di cui la recente esposizione al centro Pompidou a Parigi ha permesso di cogliere l’ampiezza). Tutto è dunque da ricominciare. Ma tutto è sempre da ricominciare nella poesia, e in generale. “Intatti fantasmi chiedono il realismo”, per me, vuol dire che ciò che ha sollevato Lorca, come ciò che ha sollevato Rimbaud, non è ancora stato realizzato, né è stato toccato con mano, che siamo ancora, poeti o meno, in una fantasmagoria rimbaldiana o rimbaldomorfa o lorcamorfa, che non ha granché a che vedere con le conquiste fatte da questi poeti alla loro epoca.

A. F. ― Il fantasma di Lorca è puramente un’operazione letteraria, una fiction poetica, come il Virgilio di Dante (Virgilio anche, come Lorca con Spicer, si mostrava spesso scontento di Dante)? Come ti immagini, tu, il dialogo incessante tra poeti?

N. Q. ― Darsi una mano. Di recente, Nerval mi ha dato una mano. Era tempo che non l’aveva fatto e c’è stato veramente bisogno di andare a cercarlo (nello specifico, ne Les filles du feu, che ho girato in ogni senso per riuscire a trovarlo). Anche essendo professionisti della professione, non si direbbe, ma pensiamo sempre che i poeti non pensino davvero ciò che pensano, che c’è qualcosa dietro quello che scrivono, cioè, per dirla breve, che bisogna interpretare, non prendere alla lettera, ecc. Ora, ogni volta che sono andata a cercare aiuto in un poeta, ho costatato invariabilmente la stessa cosa: che è sufficiente prenderlo alla lettera. Quando Nerval ci invia delle dee, non è un motivo poetico che ci trasmette, ma un consiglio da amico: finitela con il cristianesimo e portatemi delle dee, cioè della vita, in questo mondo di morti. E sapeva quello che diceva: viveva nel secondo impero, sotto Napoleone III, il Macron dell’epoca.

A. F. ― Nelle sue conferenze, Spicer sembra non apprezzare particolarmente né Ginsberg né
Burroughs (né molti altri…). E’ stato detto d’altronde che considerava i Beat come degli usurpatori. Come si spiega secondo te quest’avversione? Esiste una frattura estetica generazionale tra i “padri” (Pound, Williams, Olson, Zukofski) e queste nuove generazioni? Possiamo collocare Spicer, nato nel 1925 (Ginsberg è nato nel 1926) in questa faglia?

N. Q. ― Lorca ha scritto un’ode a Whitman, che Spicer ha “tradotto”, in maniera piuttosto fedele del resto. È una poema importante per tutta quella generazione (Duncan, Creeley, O’Hara…). Passare da Lorca (ossia da un outsider, dall’esterno), mette sotto i loro occhi due tipi di audacia: una critica radicale dell’America (e in particolare della sorte riservata ai Neri) e un’affermazione senza trucco, cioè priva di compiacimento e timidezza, dell’omosessualità, attraverso quella di Whitman. Whitman dà avvio alla poesia americana su questa idea che, grossomodo, scrivi come senti (He wrote the way he felt”, scrive William Carlos Williams su Whitman). Il che porta a priori molta libertà e, ovviamente, molti malintesi. Williams non mi sembra avere l’avversione di Spicer verso Ginsberg e i poeti Beat (cf. canto V di Paterson); Zukofski, questo sì, non è certo poeta dell’immagine né della distensione espressiva! Occorre vedere caso per caso… non credo veramente ad una frattura generazionale… ma non sono una specialista. Quel che è certo è che Spicer rimette in moto in After Lorca tutti i termini del conflitto: la poesia che esprime (quella che viene dall’ “interno”) VS la poesia che imprime ciò che viene dall’outside, dall’esterno (fantasmi, radio, Marziani, ecc.) quella che rivela ricopiando sotto dettatura, e se Spicer forza un po’ la mano, è di certo perché la prima, la poesia espressiva, la sta spuntando “mediaticamente” come si dice oggi. Ginsberg è, e non ci sorprende, ben più celebre nel mondo che Jack Spicer. After Lorca, è il tipo di libro che fai quando inizi e vuoi annunciare il colore.

A. F. “La prosa inventa, la poesia rivela” scrive Jack Spicer a Lorca. ― Un modo alquanto bizzarro di servire la rivelazione (“Perché questa perdita di nobiltà tra la rivelazione e la comunicazione?” domandava Réné Char.) si profila in tutta l’opera di Spicer, sempre “al limite”, come scrivi tu nell’introduzione all’edizione francese, “della presa in giro”. Una sorta di Musa Meccanica, tra gli dèi Radio e Outside, ispira un io-lirico la cui voce e il cui metro assomigliano più a quella di uno speaker o commentatore di sport che a quello di un poeta. Si può parlare di una nuova forma di orfismo, in Spicer, una modalità della visione che si indirizza al Reale (amici, amanti, libri, città, regione) e che fa opera di profezia non sulla fine del mondo ma sulle stagioni di baseball? Possiamo immaginare un orfismo che sia integrato ai rituali di comunicazione sociale, una visione bassa e alla portata dei lettori, contro le derive (le mode) spiritualiste, psicanalitiche, medicali?

N. Q. ― Nel libro di Spicer che preferisco, I capi della città fino all’etere, non è davvero molto simpatico con Orfeo! – “È senz’altro un avvertimento a Orfeo che non capisce ― essendo un coglione. È veramente un peccato perché ci sarebbe stata tanta poesia se l’avesse capito.” Che cosa non ha capito, Orfeo? Non ha capito che “La testa di Euridice è mancante”, e senz’altro non ha sentito i Mormorii…. “Esci dall’inferno” mormorano, mormorano i mormorii, e “Al riparo come sei / Scrivi della poesia / Per i morti”. Si tratta di scrivere della poesia per i vivi, per dei contemporanei, per degli amici, allora se la stagione di baseball è una delle cose che ti carica di più nella vita, che ti fa alzare la mattina, non vedo davvero perché non si dovrebbe parlarne nelle tue poesie. La radio, i fantasmi… è effettivamente piuttosto low-fi, in effetti, ma l’importante è che elimina l’immagine; non ci sono ormai nient’altro che voci, con questa particolarità del suono che non è attribuibile, che passeggia nello spazio, vi circonda, sta tanto nella schiena che davanti a voi, al lato, ecc. Nell’introduzione ad After Lorca, Spicer crea una quadratura molto interessante, parla delle “lettere che un giovane poeta scrive ad un altro poeta, non con l’intenzione di comunicare con lui, ma come un giovane sussurra i propri segreti a uno spaventapasseri, sapendo che la sua amata (i.e. la sua musa), non lontano di lì, lo sta ascoltando […] Il lettore […] potrà rimanere divertito da ciò che riuscirà a sentire.” Questo dice tutto, in un certo senso, sull’idea che Spicer si fa dell’esercizio o l’attività che chiamiamo poesia. Non mi fido molto delle persone (spesso delle persone bene, del resto, voglio dire: gente che vota a sinistra) che rimproverano ai poeti o agli scrittori contemporanei di scrivere dei libri che non sono “alla portata di tutti”. È veramente prendere i lettori (per non parlare degli altri) per degli stupidi. Ciò che suggerisce Spicer, è che la poesia, è un’attività come un’altra, che si fa in molti, e che può divertire quelli che la leggono. Né più né meno.

A. F. ― Qual è l’interesse, per te, di pubblicare e diffondere oggi, in Europa, un’opera come quella di Jack Spicer?

N. Q. Si ristagna. Si ristagna e si sguazza ancora e sempre troppo nel “lirismo”, ovverossia (e questo termine non lo merita ma, in mancanza di meglio e poiché vi è detto qualcosa di invariato, che ristagna, lo utilizzo) in un’idea assai convenzionale della poesia, uno status quo poetico (la poesia, è la bellezza e l’emozione), riflesso esatto di un’aspirazione ad uno status quo sociale e generale: che niente cambia; che l’infamia in cui viviamo e alla quale contribuiamo tutti, ciascuno al proprio livello, giorno dopo giorno, possa essere di tanto in tanto compensata, velata, dissimulata dalla torta poetica, dalla ciliegia su questa torta, dall’immaginazione pasticcera. Spicer non è un piccolo pasticcere della poesia: le sue poesie migliori sono dei coltelli piantati in quel dolce là.

A. F. ― Scrivi nella tua introduzione all’edizione francese: “per lui la poesia non è il supporto di un’espressione personale”, cosa che Spicer afferma lui stesso, più volte, chiamandola “la grande bugia del personale”. E tuttavia, tutto in Spicer è l’espressione di una personalità, ricreata su scena, messa allo specchio tra pubblico e privato, esposta nel museo del poetico: il suo rapporto a Lorca è una relazione di confusione e identificazione amorosa, le sue dediche e le sue lettere sono sempre espressione di una seduzione intellettuale, la sua estetica politica è irriducibilmente ancorata alla Bay Area, fino al punto da rifiutare (ma non del tutto) di essere diffuso da Ferlinghetti a New York (cf. carteggio Spicer-Ferlinghetti). Non rientra nella categoria del “personale” quest’attitudine? In altre parole, qual è la differenza tra il cosiddetto confessionalismo di Plath (suicida nel 63) e il professionalismo di Spicer (morto alcolizzato nel ’65)? Non sono forse, questi modi di vita, due facce della stessa lotta, quella per trovare, come diceva Marianne Moore, “un posto per l’autentico”?

N. Q. ― Non ho letto la biografia di Spicer, tutto ciò che so, è che le sue poesie sono maliziose e stizzite (cf. Ferlinghetti, in “The head of the town…”, che è una culmine di questo genere). Quanto al suo rapporto a Lorca, mi va bene che sia una “confusione e identificazione amorose”, o anche “l’espressione di una seduzione intellettuale”, ma questo è quello che possiamo intuire, quello che possiamo leggere in filigrana e per via deduttiva in After Lorca. Personalmente, quello che vedo, è che si tratta di un libro costruito in modo strano per un libro di poesia, e che è abbastanza ingrato, in fondo, ben poco seduttore, con la sua partizione severa tra le sue “traduzioni” (di cui una dedicata a Spicer stesso) e le sue lettere piuttosto tecniche (“programmatiche”, scrive Spicer; in breve, si tratta della sua arte poetica nel ’57). Immaginiamo solamente la faccia di un amante della poesia (non quella lì ma l’altra, la vera) alla lettura di questo libro! After Lorca appare, ancora oggi, come un libro sicuro di sé e al tempo stesso arrangiato, spezzettato, alla ricerca “di una poesia che sia più che l’espressione dei miei odi o desideri”, perché Spicer non vuole fermarsi a questo, e forse è proprio ciò che rimprovera ai poeti Beat, o ciò che può rimproverare ai “confessionalisti”, di fermarsi lì, in fondo, nel fantasma di un’emozione pura estratta dal più profondo di sé e donata al lettore (la cui conseguenza può essere quella di annegare nell’immagine, di attenuare o di mettere in cortocircuito sin da subito la dimensione potenzialmente politica di ogni poesia), mentre lui, Spicer, e in modo prudente ancora, parla di una poesia dove “l’autobiografia è andata in pezzi ma non ha distrutto del tutto la superficie” e di una “emozione incistata”; un’emozione, ma incistata. Se consideriamo dunque l’umanità nel suo insieme e nei secoli dei secoli, è certo che quasi tutti siamo alla ricerca di un “posto per l’autentico” ― quando si impiegano le “grandi parole”, come direbbe Emmanuel Hocquard, si è sicuri di imbroccarla giusta. È il motivo per cui credo che sia tatticamente, eticamente, politicamente e poeticamente necessario e urgente di non relativizzare né ridurre la distanza tra la maniera in cui i poeti “espressivi” e i poeti “imprimenti” trattano l’autentico e il nome che gli danno: l’autentico, è “un collage di reale”, scrive Spicer.

3 COMMENTS

  1. per chi non avesse il libro o accesso al testo, pubblico qui sotto la lettera (è la prima del libro) di Spicer a Lorca in cui si dice la frase “la prosa inventa, la poesia rivela”, da cui ho poi composto la domanda per N. Quintane. A. Franzoni.

    Caro Lorca,

    queste lettere saranno provvisorie tanto quanto la nostra poesia sarà duratura. Esse stabiliranno la massa, lo sperpero che i miei stomacati contemporanei domandano, per aiutarli a deglutire e digerire la parola pura. Esauriremo la nostra retorica qui, di modo che non appaia nelle nostre poesie. Lasciamola consumare, di paragrafo in paragrafo, giorno dopo giorno, fino a quando non ne rimanga nulla nella nostra poesia, fino a quando nulla della nostra poesia rimanga in essa. È proprio perché non sono necessarie, che queste lettere devono essere scritte.
    Nella mia ultima parlavo della tradizione. Gli idioti che leggono queste lettere penseranno che per tradizione intendiamo ciò che essa sembra aver significato di recente ― un’accozzaglia storica (che siano citazioni elisabettiane, guide della città natale del poeta, o oscuri frammenti di magia pubblicati da Pantheon) usata per coprire la nudità della semplice parola. Tradizione significa molto più di questo. Significa generazioni di poeti differenti in paesi differenti, che raccontano pazientemente la stessa storia, che scrivono la stessa poesia, guadagnando o perdendo qualcosa ad ogni trasformazione ― ma, ovviamente, non perdendo mai nulla veramente. Tutto ciò non ha niente a che vedere con la calma, il classicismo, il temperamento o qualcos’altro. Semplicemente, l’invenzione è nemica della poesia.
    Guardate quanto è debole la prosa. Invento una parola come invenzione. Questi paragrafi potrebbero essere tradotti, trasformati da una catena di cinquanta poeti in cinquanta lingue, e ancora rimarrebbero provvisori, infedeli, incapaci di produrre la sostanza di una singola immagine. La prosa inventa ― la poesia rivela.
    Un matto nella stanza accanto sta parlando a se stesso. Parla in prosa. Fra poco andrò in un bar e lì un poeta o due mi parleranno e io parlerò a loro e insieme proveremo a distruggerci o ad attirarci o perfino ad ascoltarci l’un l’altro e non succederà niente, perché staremo parlando in prosa. Rientrerò a casa, ubriaco e insoddisfatto, e dormirò ― e i miei sogni saranno prosa. Persino il subconscio non è abbastanza paziente per la poesia.
    Voi siete morto e i morti sono molto pazienti.

    Con affetto,
    Jack.

  2. per chi non avesse la Lettera di Spicer a Lorca, circa “poesia e rivelazione” la pubblico qui sotto. A.Franzoni.

    Caro Lorca,

    queste lettere saranno provvisorie tanto quanto la nostra poesia sarà duratura. Esse stabiliranno la massa, lo sperpero che i miei stomacati contemporanei domandano, per aiutarli a deglutire e digerire la parola pura. Esauriremo la nostra retorica qui, di modo che non appaia nelle nostre poesie. Lasciamola consumare, di paragrafo in paragrafo, giorno dopo giorno, fino a quando non ne rimanga nulla nella nostra poesia, fino a quando nulla della nostra poesia rimanga in essa. È proprio perché non sono necessarie, che queste lettere devono essere scritte.
    Nella mia ultima parlavo della tradizione. Gli idioti che leggono queste lettere penseranno che per tradizione intendiamo ciò che essa sembra aver significato di recente ― un’accozzaglia storica (che siano citazioni elisabettiane, guide della città natale del poeta, o oscuri frammenti di magia pubblicati da Pantheon) usata per coprire la nudità della semplice parola. Tradizione significa molto più di questo. Significa generazioni di poeti differenti in paesi differenti, che raccontano pazientemente la stessa storia, che scrivono la stessa poesia, guadagnando o perdendo qualcosa ad ogni trasformazione ― ma, ovviamente, non perdendo mai nulla veramente. Tutto ciò non ha niente a che vedere con la calma, il classicismo, il temperamento o qualcos’altro. Semplicemente, l’invenzione è nemica della poesia.
    Guardate quanto è debole la prosa. Invento una parola come invenzione. Questi paragrafi potrebbero essere tradotti, trasformati da una catena di cinquanta poeti in cinquanta lingue, e ancora rimarrebbero provvisori, infedeli, incapaci di produrre la sostanza di una singola immagine. La prosa inventa ― la poesia rivela.
    Un matto nella stanza accanto sta parlando a se stesso. Parla in prosa. Fra poco andrò in un bar e lì un poeta o due mi parleranno e io parlerò a loro e insieme proveremo a distruggerci o ad attirarci o perfino ad ascoltarci l’un l’altro e non succederà niente, perché staremo parlando in prosa. Rientrerò a casa, ubriaco e insoddisfatto, e dormirò ― e i miei sogni saranno prosa. Persino il subconscio non è abbastanza paziente per la poesia.
    Voi siete morto e i morti sono molto pazienti.

    Con affetto,
    Jack.

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.