Un nuovo ruolo per il soggetto agli inizi del Novecento. Anche a proposito della relatività #3
di Antonio Sparzani
Conseguenze come vedrete piuttosto strane, quelle di cui si diceva qui, ma tale stranezza necessariamente deriva dalla stranezza dell’ipotesi iniziale. Siamo infatti io vredo tutti ben convinti che, se la velocità di un treno che corre sulle rotaie ha un certo valore, rispetto alle rotaie, mettiamo 130 Km/h (chilometri all’ora), rispetto invece ad un altro treno che corra su un binario parallelo, e nella stessa direzione, mettiamo a 100 Km/h (sempre rispetto alle rotaie) sia di 30 Km/h, no? E questo è certamente vero e misurabile con tutti gli strumenti di misura che possediamo. Invece la luce fa, per così dire, eccezione: la luce viaggia a 300.000 Km/s (chilometri al secondo) – valore approssimato – rispetto a qualsiasi riferimento, cioè vista da qualunque altro osservatore, su treni o razzi come si vuole; se io mi metto ad esempio su un razzo che viaggi – diciamo rispetto alla Terra dalla quale viene emesso un raggio di luce parallelo al mio moto – a 250.000 Km/s (cosa difficoltosa assai, con i mezzi che possediamo, ma facciamo finta) e se misuro la velocità di quel raggio di luce, trovo sempre il valore di 300.000 Km/s, e non, come ci si potrebbe aspettare, il valore di 50.000 Km/s.
Tenete presente che queste misure sono tutt’altro che facili, trattandosi di velocità così elevate, ma, a quel che sappiamo a tutt’oggi, le cose stanno proprio così, come avevano cominciato a scoprire Michelson e Morley, e come Einstein ipotizzò nel 1905.
Einstein fin da piccolo fantasticava su cosa si dovrebbe provare quando si cavalca un raggio di luce. Sentite cosa scrisse nella sua, peraltro scarna, autobiografia:
«Perdonami Newton, tu trovasti proprio l’unica via che alla tua epoca era possibile per un uomo dotato della più alta forma di pensiero e di creatività. I concetti che tu creasti guidano ancor oggi il nostro pensare nella fisica, anche se oggi sappiamo che, se vogliamo tendere a una comprensione più profonda delle interconnessioni, essi devono essere sostituiti da altri ben più lontani dalla sfera dell’esperienza immediata».
Einstein in questa fase della sua vita propose e sperimentò come non mai questo allontanamento, certo molto più di quanto non sia poi stato disposto a fare durante il successivo periodo di ulteriore grande fermento connesso con l’emergere della meccanica quantistica.
Egli semplicemente rovesciò la struttura logica della problematica esistente, ponendo assiomaticamente a fondamento della propria nuova teoria quanto prima andava invece spiegato.
Forse diede retta a un’aurea massima che il suo illustre conterraneo Wolfgang Goethe scrisse in una lettera del 1828 al compositore berlinese Carl Friedrich Zelter, con il quale intratteneva una fitta corrispondenza, e che suonava letteralmente così:
“L’arte più grande nella vita del mondo e della cultura consiste nel saper trasformare un problema in un postulato; così ce la si cava”.
Non è straordinario?
Bene, le conseguenze strane della stranezza iniziale sono ad esempio queste:
1. Se un osservatore inerziale O ha con sé un regolo di lunghezza assegnata L, allora un altro osservatore O’, che si muova rispetto ad O di moto rettilineo uniforme con una certa velocità v parallelamente alla lunghezza del regolo, e che voglia misurare la lunghezza del regolo di O, non trova più il valore L, trova bensì un valore un po’ minore che si ottiene moltiplicando il numero L per un fattore minore di 1 che dipende dal rapporto tra la velocità v e la velocità c della luce. Precisamente questo fattore, chiamiamolo β, è pari a ; tenete conto che, per tutte le velocità cui siamo abituati, il rapporto v/c è assai piccolo – ad esempio per la velocità di un missile che viaggi a 10 Km/s , pari a 36000 Km/h, v/c è pari a circa 0.0000333, così che il fattore β differisce da 1 per meno di un miliardesimo, cioè, su una lunghezza di un chilometro, per meno di un micron. È evidente dunque che si tratta di differenze che, a velocità ordinarie, non sono neppure misurabili; tuttavia una simile conclusione rappresenta in linea di principio un notevole sconvolgimento rispetto alla fisica classica, nella quale la lunghezza degli oggetti era un invariante per tutti gli osservatori, in moto l’uno rispetto all’altro in modo qualsiasi.
2. Se l’osservatore O ha un pendolo che scandisce il secondo del suo orologio e l’osservatore O’, sempre in moto rettilineo uniforme rispetto a O con velocità v, misura con il proprio orologio, beninteso identico a quello di O, ogni quanto tempo batte il pendolo di O, trova un valore un po’ maggiore; trova cioè che quando per O è passato un secondo per lui è passato un tempo leggermente superiore, e, anche in questo caso, secondo il fattore β. Dunque secondo O’ il tempo di O scorre un po’ più lentamente. Va anche subito detto che non vi è alcuna asimmetria in tutto questo: ogni osservatore osserva nell’altro, in moto rispetto a lui, gli stessi effetti: così come O’ vede il tempo di O leggermente rallentato, anche O vede il tempo di O’ altrettanto rallentato e così come O vede le lunghezze di O’ accorciate, anche O’ vede le lunghezze di O altrettanto accorciate. Nessuna contraddizione logica, né fisica, si dà in questa simmetria perché ha senso confrontare tra loro tempi e lunghezze misurate dallo stesso osservatore.
Dunque qualcos’altro è necessariamente cambiato nella nostra divisione iniziale tra aspetti oggettivi e soggettivi nella conoscenza. Sembra evidente che a questo punto è aumentato sensibilmente il bagaglio che va ascritto al soggetto osservante: quello che un soggetto vede L, un altro vede βL, e così per gli intervalli temporali. Le proprietà pertinenti al solo oggetto, indipendenti dall’osservatore, diminuiscono. In questo caso, ad esempio, c’è ancora qualcosa che rimane invariante per tutti gli osservatori, ma è qualcosa di un po’ più astratto, di meno intuitivo, è una certa espressione quadratica che contiene gli intervalli di tempo e le lunghezze che qui non mette conto di scrivere esplicitamente, ma che tuttavia costituisce qualcosa di più fondamentale, dal punto di vista di questa nuova teoria, che non le semplici lunghezze o gli intervalli di tempo.
Un altro notevole passo è dunque stato compiuto nella direzione che avevamo indicato inizialmente. Aggiungerei soltanto che su questa strada un ultimo passo, sembrerebbe definitivo, è stato compiuto con la cosiddetta teoria della relatività generale, sempre ad opera di Einstein, nel 1916, sui cui aspetti tecnici certo qui sorvolo, ma a proposito della quale sarà sufficiente indicare, come ormai è prevedibile, che lo spazio della conoscenza riconducibile al puro oggetto si restringe ancora una volta. I soggetti, cioè gli osservatori, “permessi” sono molto aumentati – in realtà sono tutti gli osservatori fisicamente possibili – e dunque più numerose sono le grandezze che possono variare.
Vista sotto questo profilo, dunque, l’evoluzione dell’idea di relatività presenta aspetti che, all’interno dell’ottica della scienza, appaiono inaspettati; essi sono tuttavia necessari non appena si riflette che l’esigenza principale che viene perseguita lungo il filo di questa idea è quella di dire cose della realtà il più intersoggettive possibili, il più possibile comuni a tutti gli osservatori, l’esigenza ultima cioè di non considerare alcun osservatore come privilegiato, né quello che dal Sole vede la Terra ruotargli attorno, né quello sulla Terra che vede il Sole ruotargli attorno, né quello situato al centro della nostra Galassia, che vede – oltre a milioni di altri oggetti celesti – il nostro Sole girargli attorno con una schiera di piccoli oggetti che a loro volta eseguono un moto ad elica attorno a tale Sole, né alcun altro mai.
Lo scopo ultimo della relatività — contrariamente a quanto il suo mal scelto nome potrebbe far pensare – è forse il modo della fisica di cercare la kantiana cosa in sé, l’essenza ultima e inattingibile di ciò che è altro da noi e di cui vogliamo conoscere ciò che da noi è completamente indipendente.
È con questo tipo di sviluppo che la fisica si inserisce in quel più generale contesto culturale che vede, al volgere del secolo, una più vasta e generalizzata espansione, o quanto meno una definizione più precisa, del ruolo del soggetto. La prossima volta parleremo di questi altri contesti.
Il mio commento non attiene al contenuto (né alla forma) del suo pezzo, quanto mai utile e opportuno come lo sono tutti i chiarimenti, le divulgazioni acute e gli approfondimenti. Il mio commento si concentra piuttosto sulla natura del suo lavoro di sintesi tra pensiero artistico e pensiero scientifico, che ritengo necessario. Come sappiamo, ma non proprio tutti, una separazione forzata tra fisica e, lei dice forse letteratura, io dico pensiero intuitivo, ha fatto male alla storia delle conoscenza. Non solo Goethe e Kant, da lei citati, ma numerosi altri esponenti del mondo del pensiero non misurato, prima e dopo di questi, benché privi di strumentazione, hanno raggiunto risultati oggettivamente scientifici. Einstein stesso non eccellendo, mi si passi la semplificazione eccessiva, nelle capacità di calcolo, possedeva una visione intuitiva del mondo e dei fenomeni che lo regolano, al pari di un artista di genio, una categoria umana per la quale egli nutriva una profonda ammirazione. Di fondamentale importanza dunque, oggi soprattutto, tornare a far dialogare e dove possibile far combaciare le due vie di conoscenza, perché mi pare che la fisica stessa chiami con voce sotterranea a questo antico e rinnovato amplesso tra ciò che sarebbe fisico e ciò che è poetico, dunque senza una fine misurabile. Dove la parola fine assume il doppio significato, di “termine” e di “scopo”. Ammirato, la saluto. gianCarlo Onorato
caro Onorato; se mi permette il facile gioco di parole, sono onorato del suo bel commento, che non posso che sottoscrivere completamente; Grazie.