Le tenebre Conerotiche
di Ezio Sinigaglia
Nota introduttiva di Giuseppe Girimonti Greco
Queste pagine sono tratte dal secondo capitolo del romanzo inedito Fifí, Sciofí e l’Amor, del quale sono già stati pubblicati due estratti su riviste cartacee: Rinaldo all’opera: un pastiche tassiano (“Fronesis”, 19, genn.-giu. 2014) e Sciadè Sulapí (“Nuovi Argomenti”, 81, genn.-mar. 2018).
Lo strano rapporto d’amore senza amore fra l’efebico, capriccioso Fifí e Aram (il Narratore, chiamato però Warum dal suo casto amante) è al centro della prima metà del romanzo, mentre la seconda metà si sviluppa intorno al ricordo di Sciofí, un enfant du peuple versiliese, tenero e vigoroso insieme, amato da Aram durante il servizio militare. Ma per tutto il corso del romanzo altri amori (donne e ragazzi), altri personaggi e altre storie vengono alla ribalta, richiamati in vita dalla memoria del Narratore.
Per la comprensione di questo breve testo è indispensabile sapere che le “cozze” sono, fin dalla prima pagina del romanzo, gli occhi di Fifí (“Gli occhi sempre più neri, e il bianco intorno lucente, denso, come un liquore. L’insieme è un frutto di mare d’una specie rara. Come una cozza alla rovescia: la carne nera e la conchiglia lattea”), e le “castagne”, più banalmente, quelli del Narratore.
L’episodio della vacanza al Conero, da cui è tratto questo brano, è un’occasione creata da un lavoro pubblicitario commissionato a Fifí, che lo realizza facendosi aiutare da Aram: un folder destinato alla promozione turistica del comune di Numana. Si tratta di dodici fotografie accompagnate da altrettanti headline fantasiosi: “Sempre caliente per chi la sabbia amare”, “Incontrare uno scoglio lungo il cammino fa benissimo alla vista”, “I baccanali perpetui dei vigneti”, e altri che rimangono ignoti. Il dodicesimo, mai citato integralmente, fa allusione alle “notti Conerotiche”.
Due donne dai soprannomi woolfiani hanno avuto grande importanza nella vita di Aram. La Ramsay (così chiamata perché inizialmente Aram la considerava “il suo faro”) è stata la sua docente di letteratura italiana (è una grande studiosa del Tasso), poi la sua amante e infine sua moglie per oltre due anni. La Dalloway, laureata in matematica e appassionata di astrologia, è stata la prima dopo la Ramsay, ma il Narratore preferisce dire che merita il suo soprannome perché è “fine e disperata”. [ggg]
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Le nostre notti, al Conero, erano di una tenebra assoluta. Qualcosa che è raro gustare, al giorno d’oggi. Avevamo inforcato in pieno la settimana meno lunatica del mese: tre giorni di qui e tre di là, col novilunio in mezzo. La luna, quando c’era, stava in cielo di giorno, al colmo della sua inutilità. Se la si scovava di notte, era bassissima sull’orizzonte, spessa come una scorza di limone o al più come una fetta di melone dopo che la polpa te la sei succhiata. Sembrava in tutto e per tutto, per colore, forma, incurvatura e insignificanza, una bomboniera della prima comunione: un piattino arcuato capace di contenere i cinque confetti delle misteriose nozze col divino e poi nient’altro, a meno di voler incorrere nelle sanzioni post mortem che si comminano ai sacrileghi. Era sacra, certo, com’è nella natura di ogni corpo celeste: ma non ispirava alcun desiderio di venerarla, perché era troppo poca, e fatta molto più di ombra che di luce proprio come i corpi non celesti. A noi, come elemento mitigatore della tenebra in cui vivevamo, non serviva affatto. Il campeggio era stato scelto da Fifí per la sua posizione panoramica e per la parca disseminazione di elementi in muratura in mezzo alla fitta macchia e ai grandi ulivi. Era anche oltremodo parco di luci artificiali: un lampione qui e uno là, ben distanziati, fiochi e discreti, un’illuminazione appena sufficiente a evitare di schiacciare una ranocchia sotto i passi, ma certo non a distinguere il colore degli occhi della ranocchia quando, ferma davanti alla punta delle scarpe, ti gracchiava in faccia tutta la sua riconoscenza. Per di più noi ci eravamo fatti il nido proprio in cima in cima allo scoglio che faceva benissimo alla vista, forse nella speranza che ci facesse ancora meglio: la tenda si apriva verso il mare e, al momento di stabilire il punto dove conficcare il primo picchetto nel sottile strato di terriccio sabbioso e vagamente erboso sotto il quale stava la roccia impenetrabile, avevo suggerito a Fifí di retrocedere di almeno dieci passi dal ciglio dell’abisso perché non corressimo il rischio di precipitarvi nell’offuscamento del risveglio. […]
Sotto lo scoglio cui, orgogliosi dei costumi spartani delle nostre notti, avevamo dato il nome di Taigeto, c’era la sempre caliente per chi la sabbia amare, che ha la caratteristica, ben nota ai naviganti, di scintillare candida nei pleniluni, svelando agli occhi assetati e ai cuori inteneriti dei marinai il disegno divino della costa anche dalla distanza di molte e molte miglia, quasi splendesse di luce propria e fosse mossa dall’intento consapevole e femmineo di gonfiare di desiderio i loro grembi per persuaderli a ritornare a casa. Ma, per chi la sabbia amare come per chi non ne sia capace, non brilla di luce propria, una spiaggia: ha solo un talento straordinario di richiamare su di sé tutte le luci altrui per far soffrire i naviganti: di modo che, in quelle notti noviluniche e sapientemente Conerotiche per le coppie di colibrí strette nel nido, la spiaggia sotto il Taigeto era nera a un punto tale che, guardando nell’abisso, riusciva impossibile distinguere l’aria dalla terra. A volte, mentre eravamo là stretti nel buio nel nostro giaciglio di vibranti emozioni e di stupidità incommensurabili, industriosi nel separare senza tregua, sotto il ferreo taglio di una lama manichea, il sacro del voler bene dal profano dell’amare, ci prendeva, con una rarità statistica che sarebbe interessante sottoporre a indagini medico-scientifiche, il desiderio di fumare. […]
Si sganciavano tutti i bottoni, uno per uno, fino all’ultimo, indurito più di ogni altro da qualche sua contrarietà insondabile. Alla fine si sollevava tutto il telo, infilzandolo senza nessuna difficoltà al paletto anteriore di sostegno attraverso un foro apposito, orlato di un anello di metallo: perché a quella tenda nata per viaggiare faceva forse difetto qualche centimetro quadrato di superficie o cubo di volume ma nemmeno un grammo di umana intelligenza.
Allora era come alzare il sipario su uno spettacolo che, anche dopo centinaia di repliche sempre uguali o con minime e impercettibili varianti, lascia ogni volta stupefatti e ammutoliti. E noi, nati e cresciuti in una città dove i cieli notturni sono offuscati dal genio di Edison e tagliati in strisce sottili come nastri per capelli tra i canyon abissali dei palazzi, di quelle repliche ne avevamo viste molto poche. L’ultima volta che avevo contemplato un cielo paragonabile a quello per fittezza della trama e per lucentezza palpitante delle punte d’acciaio azzurrato delle stelle era stato ai tempi del campeggio militare nelle Prealpi Carniche. Ma là abitavo in una tenda larga almeno due volte quella di Fifí e, soprattutto, ci dormivo solo, cosicché le emozioni, quando scostavo il telo blu per invitare una delle costellazioni a me più familiari ad entrarmi in casa per farmi compagnia mentre fumavo, erano di qualità diversa. Forse più forti ancora, perché ero più giovane, più assetato, più felice, più eccitabile e ardente nella mia aspirazione all’assoluto, e perché la solitudine, dinanzi alla dimostrazione superba del mondo in cui è caduta, si espone con più abbandono all’estasi e al terrore. Eppure sentivo dentro di me, in quelle epifanie notturne sulla vetta del Taigeto, che non poteva esserci mai stata né esserci mai più su questa Terra un’emozione cosí stregonesca e prodigiosa come quella che vivevo sotto le stelle con Fifí e che Fifí viveva con me sotto le stelle. Sedevamo l’uno davanti all’altro, il primo con le gambe distese fino a posare i talloni appena oltre la soglia e imprigionato tra le ginocchia piegate del secondo, la schiena contro il petto. Uno sfruttamento razionale ed efficace dello spazio, che ci faceva apparire d’incanto il nostro nido fin troppo grande per due uccellini come noi […].
Quando ero io a stare davanti, Fifí mi posava la punta del mento sull’occipitale e guardavamo il cielo lungo due linee parallele e sovrapposte, una di cozze e una di castagne, come se avessimo inventato lí per lí un nuovo strumento ottico, il tetrocolo della simbiosi Conerotica. Quando le posizioni erano ribaltate, appoggiavo la linea arcuata della gola sulla sua clavicola e sentivo il suo trapezio forte e tenero guizzarmi tra il pomo d’Adamo e il velo pendulo come se, in uno slancio astronomico d’amore, Fifí me lo avesse dato da mangiare. Guardavamo, nient’altro: a volte ci dimenticavamo perfino di fumare. Restavamo là cosí, assisi nel creato, per una mezzora buona, con gli occhi spalancati e con le bocche chiuse, abbracciati, avvolti l’uno dentro l’altro come due bambini che si facessero coraggio di fronte alla rivelazione spaventosa della schiacciante immensità del fuori e della pulviscolare nullità del dentro. Ma non era, in verità, come condividere un’emozione, per quanto forte, con un compagno, per quanto amato. L’aspetto stregonesco del fenomeno stava nella sua capacità di essere osservato, o nella nostra capacità di divorarlo e assimilarlo, in perfetta solitudine pur essendo in due. Non sarebbe mai potuto accadere con nessun altro, questo mi fu chiaro fin dalla prima notte in cui la stregoneria ebbe luogo. Nessun essere umano che avessi mai amato, nemmeno la Dalloway, cosí sobria ed elegante e taciturna, nemmeno la Ramsay, perfino, cosí imbevuta di buon gusto e di cultura letteraria, cosí consapevole della superiorità dell’ineffabile, mi avrebbe permesso di scagliare la mia aspirazione all’assoluto su e giù per i sentieri della Via Lattea senza dire una parola. Parole scelte ed appropriate, come Ecco là Giove! da parte della Dalloway, o Lagrime dal notturno manto! da parte della Ramsay. E l’assoluto si sarebbe all’istante relativizzato: come può sopravvivere, la sete di assoluto, alla distinzione tra pianeti e stelle? come può rimanere ardente, se si inzuppa delle melodiose lacrime del divin Torquato?
Fifí restava muto e sembrava respirare la notte con i miei polmoni. O io coi suoi: la cosa era del tutto indifferente. La nostra era una comunione perfetta entro la quale il problema, pur cosí astratto e metafisico, del come e dove la lama manichea del voler bene dovesse separare i corpi dall’amare non riusciva a intrufolare neppure l’acume della punta. Che importava? Io pensavo: Lo amerò per sempre a modo suo, mi va benissimo. E pensavo di pensarlo con il cervello e il cuore di Fifí.