Good Bye Keith Botsford
Quando l’amico Zachary Bos mi ha inoltrato il messaggio accorato del figlio primogenito di Keith Botsford, Aubrey che annunciava, lo scorso 19 agosto, la fine di un’esistenza – per molti di noi Keith era l’essenza stessa del fare letterario come ricordava Massimo Rizzante qualche tempo fa proprio qui su Nazione Indiana – ho provato una grande tristezza e insieme l’ingiustizia di tale sentimento. Perché incontrare Keith a Torino era sempre una gioia, come la volta in cui in un albergo a pochi metri dalla casa in cui Xavier de Maistre aveva scritto il mitico Voyage autour de ma chambre, mi aveva raccontato del suo incontro con Cesare Pavese, proprio l’estate in cui avrebbe posto fine ai suoi giorni.
“L’ho incontrato a Torino la settimana della sua morte, nello stesso albergo dove mi fermavo. La voce? Un poco roca, quasi senza accento piemontese – cioè senza rullare le “r”, come un fumatore francese. Retrospettivamente, la si sarebbe detta una voce da abbandono. Per niente eccitata, capace di ascoltare. Era seduto sul bordo del letto. La voce roca, a ripensarci: una voce che veniva da molto lontano. Per niente sonora. Un micro deshonore. L’esatto contrario dell’amico Beppe Fenoglio, un grande scrittore che bisognerebbe riscoprire. KB”
L’eleganza dandy, i capelli lunghi da poeta maledetto, l’amicizia con Saul Bellow, una conoscenza assoluta della letteratura che andava difesa, raccontata, sostenuta e la straordinaria capacità di parlare tutte le lingue del mondo costituivano un universo in cui era magnifico entrare, e sentirne l’odore, il profumo, significava accedere a un enorme e insperato privilegio conquistato grazie a un racconto da me pubblicato sull’Atelier du Roman e tradotto da Keith e Zachary per la loro rivista News from the Republic of Letters. Ogni volta che chiedevo un pezzo a Keith per Sud o per altri progetti dada in cui volevo coinvolgerlo reagiva da fuoriclasse e sempre con grande generosità. Come quando curai la pubblicazione di un Dico’ Erotique per una casa editrice di Milano e insieme ai testi di una settantina d’autori potemmo fregiarci anche di uno, magnifico di Keith. Il gioco consisteva nella scelta di una voce ispirata al Dictionnaire edito da Pauvert nel 1962. Lui scelse la voce che ho voluto condividere con voi quest’oggi, per rendere omaggio al suo stile formidabile e per ricordarlo con la gioia nel cuore .
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Eunuque
di Keith Botsford
traduzione di Norman Gobetti
Era un castrato, almeno secondo il mio amico Philo, che non aveva preso il nome dall’impasto per torte o dalla città dell’Amore Fraterno, Philadelphia. Certo, era solito dire con disinvoltura, non è possibile togliere femminilità a una donna, sebbene sia possibile aggiungerne. Sottrazione contro addizione. Per gli autori di reati sessuali – vi chiedo, come si può compiere un “reato” con il sesso? Oppure la legge significa che il sesso è un reato? – si chiede a gran voce l’orchiectomia (rimozione dell’organo incriminato, l’orchis (Gr), che per qualcuno potrebbe anche essere un sollievo. Niente più pulsioni inopportune. Una soluzione per i preti?
Il problema, secondo lui, era che un eunuco non veniva necessariamente trasformato in donna. Al giorno d’oggi, vi diranno che si può essere tutto ciò che si vuole: si va in una clinica californiana dal Dottor X e si esce con i bigodini in testa e la mascella ridisegnata, con il seno adeguatamente modellato e una figa penetrabile che comunque deve essere ben lubrificata. Non fa per me, ha detto Philo. Io credo nell’Oeil, il grande occhio, l’io, lo Je e il mio jeux. Ecco il privilegio di un eunuco: penetrare, visivamente e sensualmente, la vita quotidiana delle donne, in modo molto più efficace di un qualsiasi uomo.
Il guardiano della Camera da Letto, il voyeur autorizzato! Basta sbarazzarsi di quei fastidiosi testicoli. Il mio sarto di Londra, molto stile Savile Row, direbbe: “Da che parte li porta, Sir?” All’inizio mi vergognavo a chiedergli, portare cosa? Ehm, sì. Le orchidee sono bellissimi parassiti, giusto? Perché noi greci astuti vedemmo una somiglianza nei loro bulbi. Ma quando una civiltà idiota ha deciso (il Duca di Wellington, mi è stato detto) che la culotte doveva diventare pantaloni (perché hanno deux trous) e gli uomini dovevano indossarli, mi sono ribellato. Ho preferito le garze e le sete delicate, il flusso ininterrotto di un indumento.
Ovviamente io vivo nell’epoca sbagliata. L’etimologia di Eunuco è che egli è, ha, protegge il talamo (Eunus, Gr). Nell’epoca in cui avrei dovuto vivere, i bei ragazzi circassi erano una delizia d’importazione: biondi e con gli occhi azzurri venivano immediatamente evirati e diventavano grassocci, con la pelle vellutata. Non sapevano che farsene dei rasoi Gilette o delle lamette, e imparavano a spettegolare in molte lingue – le lingue dei luoghi esplorati dai loro padroni (perché erano tutti schiavi) che non si erano mai presi la briga di preservare per la loro futura dispotica (despotes, Gr) progenie. Despoti perché “proprietari”, così pensano le donne di coloro che conservano le loro brutte sacche pelose. Invece, in Camera da Letto, noi eunuchi condividiamo in ogni momento tutta la libertà di cui godono le donne: a parte, ovviamente, l’ora o la mezzora in cui il despota le convoca per una rapida scopata. Francamente, può essere un piccolo prezzo da pagare per la libertà femminile, ma la cosa non mi riguarda. Nulla viene fatto a un eunuco, è lui che fa le cose per gli altri.
Siamo una specie di animale generoso, non- violento, mellifluo (che contro-tenori e soprani diventiamo!), e senza discendenza – quindi utile. Noi non generiamo rivali per il trono, non fottiamo i nostri padroni, se non mentalmente. Riconosciamo che alcune forme di schiavitù sono un privilegio, superiori alla più brutale schiavitù della gravidanza o del parto: schiavi dei nostri sensi, del gusto, dell’olfatto e del tatto, la vana routine imitativa dell’immortalità attraverso i geni. Non prendiamo e non emettiamo nulla, ecco perché siamo affidabili. Come donne abbiamo un atteggiamento servile nei confronti dei nostri padroni, ma come uomini, possiamo esercitare un potere reale, quello della manipolazione. E intendo in entrambi i sensi: manipoliamo la corte e le sue donne. Con questi attributi uniti, arriviamo ai posti più alti dello Stato, per non parlare del gineceo.
Spesso mi viene chiesto cosa prova un eunuco, ha detto Philo. Ci chiedono: vivete tra le donne e non ne siete tentati? Certo che lo siamo. Proviamo tutto ciò che le donne provano. Accarezziamo le loro voglie, condividiamo le penetrazioni dei loro padroni (ma senza il dolore annesso). Anche noi abbiamo qualcosa di indeterminato tra cosce e ombelico, profumiamo i loro vuoti e le sontuose preoccupazioni con i nostri flaccidi membri di seta. Invecchiamo con grazia e non dobbiamo fare tutta la fatica che fanno i nostri padroni quando invecchiano per ottenere un po’ di sollievo con orgasmi tremanti, insoddisfacenti e occasionali: tanto lavoro per un risultato così insignificante! Nei nostri alloggi non c’è né fretta né confusione. Preparare una nuova concubina per le visite notturne al padrone è un’arte: spingersi fino a un certo punto e non oltre, sentirne il sospiro, “Adesso basta, caro Philo!” e spostarsi dalle sue labbra, superiori e inferiori, ai capezzoli o ai piedi, la piega della braccia, la curva delle natiche, senza paura di fallire o delle conseguenze.
La nostra è la forma più alta di sessualità, se deve essere ridotta a questo. E una forma più alta e distaccata di governo. Gli eunuchi sono desiderati, lusingati e muoiono intatti. Noi diventiamo ricchi e opulenti.
Amico mio, quando mi guardo attorno e penso alla pelosa castrazione dei potenti e ripenso all’uomo che ero e che doveva dimostrarsi degno portandosi a letto serve e muscolose Amazzoni che correvano e sudavano, mi chiedo come mai più di un uomo non ammetta semplicemente di essere stato castrato e muova quel singolo passo verso la costante beatitudine del disimpegno dal ferino e reale atto sessuale. Liberarsi di esso, te lo assicuro, è la più elevata e gratificante forma di libertà.
Se fossi un eunuco non avrei avuto i miei gioielli di figli e quindi neanche i nipoti: no, grazie.
Keith Botsford (1928-2018) per me è stato sempre “l’ultimo uomo del XX secolo”. La sua biografia, infatti, per vastità di luoghi esplorati – dall’Europa agli Stati Uniti, dall’America Latina al Giappone – e di storia vissuta – dalla Polonia sotto il giogo sovietico all’Inghilterra degli “angry young men”, dalla “Partisan Review” alle sue frequentazioni, nella Tokyo degli anni cinquanta, di Mishima Yukio e Donald Keene, dall’effervescenza parigina delle illusioni sartriane (a cui non ha mai creduto) alla Hollywood dei grandi registi fuggiti dal nazionalsocialismo – racchiude il romanzo del secolo scorso. Dall’epoca della Seconda Guerra mondiale non c’è stato evento storico di una qualche entità di cui Botsford non avesse memoria, senza contare che di molti è stato spesso attore non marginale. Possedeva tante arti quanti figli (9), nipoti (15), mogli (5) e pseudonimi (11). Pensava a se stesso come: romanziere, editor, compositore, avvocato, professore universitario, direttore di rivista (confondatore con Saul Bellow di: “ANON”, “The Noble Savage”,” News from The Republic of Letters”), poliglotta, ex-ufficiale dell’Intelligence, sportivo, giornalista (“Sunday Times”, “The Indipendent”), gastronomo di una certa fama, traduttore, collezionista… Aggiungerei: lettore, non solo perché era in grado di leggere almeno in sei o sette lingue, ma per la qualità della sua lettura. Sia che avesse a che fare con un nome del fragile Olimpo delle lettere o con il manoscritto di un principiante, Keith Botsford era sempre di un’umiltà – e perciò di una spietatezza – che nobilitava l’autore dell’opera, facendogli allo stesso tempo il più grande omaggio che su questa terra egli possa ottenere: essere letto in ogni sua frase. Pretendeva di essere citato in molte note a piè di pagina nelle biografie degli altri, di chiunque altro, e desiderava essere letto più di quanto non lo fosse, un tratto che condivideva con gli autori più seri in assoluto. Fra le sue ultime opere vorrei ricordare: “Out of Nowhere “(2000), “Editors: The Best of Five Decades” (with Saul Bellow, 2001), “The Mothers” (2002), “Emma H.” (2003), “Collaboration” (2007), “Death and the Maiden” (2007), “Fragments I” (2008),”Fragments II” (2010), “Jozef Czapski: A Life in Translation” (2010), “Fragments III” (2011).