Lo stanzone
di Andrea Inglese
[Questo testo mi è stato commissionato da The FLR (The Florentin Literary Review) per il numero 4 dedicato al tema del “paesaggio”. Sono inclusi nel numero anche testi di Francesco Targhetta, Azzurra D’Agostino, Giampaolo Simi, Ruska Jorjoliani.]
non sembrerebbe, ma
è l’albero cinese, del paradiso, comincia qui,
dopo il primo cordone di dune,
oltre gli stagni, le cortine di giunco nero,
c’è lo stanzone, e sul lato aperto,
crollato, i fusti nani e quelli già alti
degli ailanti, una sedia scura nel mezzo
con lo schienale altissimo, le porcellane
posate su cuscinetti di muschio, le ragazze
mutano l’ordine delle ciotole e dei piatti,
corrono avanti e indietro con polpacci luminosi,
non fanno alcun rumore, ma dalle foglie
ruscellano sfasate le gocce, bersagliano
sul capo lo scarabeo
ancora un po’ di tempo
lo stanzone è deserto, perfettamente attrezzato
per la calma e la paura,
vi si entra a passi piumati, respirando
maggiorana e melissa, c’è il secchio
e il tubo di gomma arrotolato,
la pulizia è facile, il getto forte, c’è sale,
candeggina, spazzoloni, e un fango
che rimane rossastro,
nel braciere ampio di rame
si danno gli indumenti alle fiamme
qualche minuto ancora
ogni volta uno strano vento
a tormentare l’erba folta, il giro di sambuchi,
le pianticine di finocchio, e tutto il tremare
delle foglie, dei fusti lisci e molli,
l’avventarsi delle formiche nelle zone rade,
crivellate dal continuo lavoro di mandibole,
in alto vortici di polvere e cenere, lembi di cellofan,
mentre vengono a portare limoni, caraffe d’acqua e menta,
tappeti di bambù intrecciato, asciugamani di lino,
lo stanzone rimane accogliente e livido
anche per le due giovani volpi, a nord,
hanno scavato tane, e disseminato ossicini
di animali volanti, ma qualcuno più vorace
spolpa qui intorno femori di capre
qualche minuto ancora
l’acustica è ottima nello stanzone, la luce
suggestiva grazie alla volta alta e all’oculo,
da cui piove un raggio compatto, zenitale,
hanno una bella voce quando discutono:
“bisognerà cercare nei detriti” dice uno,
ma si scopre che è poco esperto,
alcuni friggono un peperone, non basta,
buttano la sabbia perché non cresca nulla,
non sanno cosa fare, prima scavano,
raschiano, poi colano l’asfalto,
ma l’ailante, pianta del paradiso,
trafigge ogni pavimentazione,
anche la sabbia buttata
per ammazzare i polloni,
qui d’altra parte ammazzano tutto,
a volte pendono dai rami
persino carcasse di cani
qualche minuto forse
sarebbe magnifico passeggiare tra le erbe, distrarsi,
lasciarsi invadere dal torpore, allungati nello stanzone,
a carezzare, tra l’inguine e il torace, chi ti sta accanto,
ma nei minuti restanti è meglio correre fuori, non farsi trovare
con lo sguardo sognante, c’è sempre qualcuno
che può venire a prenderti, che ti confonde di notte
con qualcun altro, magari hanno bisogno
di un giovane fuggitivo, con i calzoni sdruciti
e la maglietta sporca, hanno quel bisogno
di verificare che sei l’ultimo rimasto in giro,
quello completamente tagliato fuori,
ti si vede appena il bianco delle pupille,
la bocca spalancata, afona, ecco,
sei quel sacco umano nervoso
di cui vanno pazzi
adesso è tardi
quando davvero è tardi, l’operazione è semplice
si fa spazio, anzi
c’è da sempre spazio nello stanzone,
confortevole e completamente sgombro,
il giovane va messo a pancia in giù
a schiena nuda
e non deve sapere niente,
non ci deve essere una storia,
non ci sono stati avvertimenti circostanze motivi,
subito a pancia in giù
ma la faccia rivolta verso l’alto,
che si veda chiara ogni espressione,
il tubo di plastica infiammato
lo si fa colare come smalto
sulla pelle
sembrava un altro paesaggio poco prima,
pochi secondi appena,
tutto diverso
*
Immagine: Wolfgang Laib, Untitled (30 triangle), 2002