La presunta innocenza delle cose. Appunti sull’opera di Elfriede Jelinek
di Lavinia Mannelli
Solo da pochi giorni i lettori italiani possono trovare in libreria un nuovo grande romanzo di Elfriede Jelinek, autrice austriaca insignita nel 2004 di un molto discusso Premio Nobel per la Letteratura. Gli esclusi,[1] pubblicato ora per La nave di Teseo, è in realtà un testo del lontano 1980; il terzo in ordine di tempo uscito dalla penna della scrittrice e già denso di alcuni interessanti stilemi che qui tenterò di raccontare in breve.
Come in tutti gli altri romanzi, infatti, anche negli Esclusi la scrittura della Jelinek si fa lingua della realtà, violenta e scostante come l’istinto del peggiore degli animali sociali; strascico opalescente che sorvola, copre e disvela i segreti e le nevrosi degli oggetti del suo stesso racconto, se li ricama addosso, fittamente e confusamente, e alla fine se ne libera. Come una nuvola minacciosa che si trovi a passare sopra l’acqua di un lago cristallino, così la lingua dei suoi romanzi descrive la realtà su cui si trascina specchiandovisi e allo stesso tempo alterandola; come in una valanga di neve vecchia, appesantita ulteriormente da quella nuova e sottile, così di pagina in pagina alla voce narrante si ammassano e aggrovigliano i molteplici atti della tragedia del mondo: sentimenti contraddittori e ambigui, un voyeurismo morboso e la paura nevrotica di essere abbandonati e di abbandonare, illusioni e stereotipi, vittime e carnefici.
Attraversata da una forte inquietudine,[2] a seconda del libro e del momento del racconto, la voce del narratore è una prima persona, singolare e plurale; è o non è Elfriede Jelinek; è la specie umana, un uomo o una donna, uno per volta o tutti insieme, ma è anche la casa, il lago o la montagna, la fabbrica o un padre padrone. Si rivolge a un tu, a un lui o lei, voi, noi; i suoi destinatari sono anche l’oggetto della narrazione, identità imprecisabili se non di volta in volta e che hanno molto di quell’universale tipico di cui si è occupata certa tradizione marxista cara all’autrice.
Questo sistema di riferimento politico è anche ciò che permette di scongiurare una polifonia distratta e inconsistente, distante dalla realtà che è invece quella – lucidamente abbozzata – di una Vienna dei postriboli e del Prater, ma anche degli ultimi concerti da camera e di veementi dibattiti sull’umore di un brano di Schubert (La pianista); di una fabbrica di proprietà di un marito padrone dall’insaziabile e perverso appetito sessuale (La voglia), o di un’altra fabbrica ancora, abitata, questa, da corpi di donne che cuciono reggiseni mentre la società cuce loro addosso desideri normalizzanti di famiglia, denaro, sesso e maternità (Le amanti); o di un lago acquitrinoso, cimitero di vittime che si sono consegnate spontaneamente, e per timore di se stesse, al proprio aguzzino (Voracità). Questo realismo feroce, questa critica a una società che appiana i conflitti, nasconde gli scheletri e le mostruosità, schiaccia il vario e libero intrecciarsi di destini umani, viene espresso mediante un narratore che non è solo osservatore onnisciente, ma anche uno sguardo reificatore che degrada ogni relazione umana a un rapporto tra cose, merci in rapida scadenza.
Il problema è il seguente: è possibile descrivere un paesaggio acquatico come questo lago senza conoscerne davvero la lingua? Io mi ribello contro l’innocenza che quest’acqua ostenta pubblicamente. (Voracità, p. 68)[3]
Come il lago d’acqua torbida in Voracità, ogni cosa è un’immagine solo apparentemente innocente: occorre sempre andare dietro le cose, vale a dire decostruire la realtà per mostrarne la colpevolezza.
Questa realtà, io la faccio ogni volta per così dire a pezzi, come se separassi a strappi le tende di un sipario, per rabbia contro il testo che c’è dietro (da un’intervista a Renata Caruzzi)[4]
Sommersi e condannati
Se ogni cosa è colpevole, nemmeno tra gli uomini esiste l’innocenza.
Tra i complici più problematici di questa realtà da decostruire, le donne fanno la parte ingrata delle oppresse consenzienti, quando non addirittura dei kapo: sono le caricature delle versioni più stereotipiche di se stesse, più fraintese di quanto non faccia già il mondo maschilista in cui vivono. Di loro si racconta – con un fastidio e un disagio più o meno percepibili – di come si lascino trattare come un corpo, una casa (precisamente la loro, nel libro Voracità), una parete piena di porte, interstizi, angoli su cui inveire e fare violenza (ancora nella Voglia, ma anche nell’ultimo Gli esclusi). Si dice che sentono di dover essere punite (come su contraddittoria richiesta nel capolavoro La pianista, ma anche, ancora, in Voracità e Le amanti), preferibilmente da uomini che ogni volta approfittano della loro debolezza e di cui poi finiscono, ogni volta, per innamorarsi morbosamente.
Ossessionate dal proprio corpo tanto da dimenticarsi, ma quasi per atto mancato, di questioni ben più grandi di loro («ora se [i gruppi femministi, ndr] trascorreranno veramente i prossimi dieci anni a occuparsi del proprio corpo, gli uomini domineranno il mondo per ulteriori dieci anni», dice l’autrice fuori dall’invenzione romanzesca);[5] prive di una responsabilità politica di qualsiasi tipo, se non addirittura dipendenti, anche economicamente, dal marito o dal padre (solo nelle Amanti le protagoniste hanno un lavoro, ma di produzione, e che è il risultato di un appiattimento e di uno svuotamento dell’uguaglianza dei sessi, mentre nella Pianista si tratta di un lavoro d’elezione, precisione e cultura, ma non organico e funzionale alla società); prive anche – come tutti, del resto – della capacità di riconoscere, domandare e domandarsi il piacere, le donne si tolgono di mezzo da sole dal discorso pubblico così come dalla vita, e lo fanno per mancanza di strumenti e concrete possibilità, e quindi per forza di cose per omologazione al sistema maschilista, servilismo masochistico da cui non sanno liberarsi.
Le donne in questo paese servono solo da contorno alla carne degli uomini, non le invidio affatto. (La voglia, p.92)[6]
se qualcuno ha un destino, è un uomo. Se qualcuno riceve un destino, è una donna. (Le amanti, p. 13)[7]
nel corso degli anni, si è stabilito così un ciclo naturale: nasci, attacchi, sei presa in moglie, stacchi, hai una figlia, casalinga o commessa, per lo più casalinga, la figlia attacca, la mamma crepa, la figlia viene presa in moglie, stacca, salta giù dal trampolino, anche lei ha un’altra figlia, […] (ivi, p. 21)
È proprio questo spostamento ironico della voce che permette di addomesticare più facilmente una realtà che, nel caso delle donne, è spesso un sistema patriarcale soffocante e una serie di luoghi comuni castranti. Lo stesso linguaggio sprezzante e disturbante, però, osserva e descrive – anche a distanza di poche righe – ogni altro personaggio del racconto (uomo, donna, cosa) che il narratore incontri per la strada della sua storia.
[…] è proprio questo che piace all’uomo: che la gente, intrappolata nei lacci del suo amore, scorra tranquilla e dimentica di se stessa come il tempo dentro l’appartamento, in attesa del suo ritorno (La voglia, p. 29)
Quest’uomo sembra quasi sedotto all’idea di ingrandire da solo il proprio coso in tutta la sua lunghezza (…). Che razza di principio attivo, di semidio (Dio aiutaci) capace di ingigantirsi e di beatificarsi da sé, senza per questo venir appeso come un santo martire! Che uomo! (ivi, p. 151)
Ogni cosa viene parodizzata attraverso la voce di un narratore che vuole, insomma, mostrarsi vistosamente per quel che è: inattendibile (secondo la celebre riflessione di Booth); e così, suggerendo apertamente la mancanza di un possibile ulteriore punto di vista (che sarebbe quello dell’autore implicito, evocato soltanto), a essere stimolato è il giudizio critico del lettore nei confronti del narratore, della storia che sta leggendo e magari di se stesso.
I nuovi demoni: Gli esclusi
Anche negli Esclusi l’autrice cerca un’intesa segreta con il lettore: anzi, grazie a una lingua più semplice, rispetto almeno ai romanzi successivi, qui è forse più facile ottenerla.
I protagonisti del libro sono quattro ragazzi di diciotto anni: i gemelli Witkowski, Rainer e Anna, Hans Sepp e Sophie Pachhofen. Di loro conosciamo subito i nomi, le occupazioni principali (i fratelli e Sophie sono studenti del liceo, mentre Hans è operaio); i pensieri, la vocazione teppistica, anzi violenta, e anche la precisa identità sociale, culturale, economica; i luoghi in cui sono vissuti e di cui si vergognano, che ripudiano o in cui semplicemente fluttuano; i ricordi, i conflitti, i rimorsi di famiglia e le aspirazioni, le nevrosi, gli amori.
Le loro azioni e i loro pensieri sono sempre avviluppati gli uni agli altri, come non era nell’opera cronologicamente precedente, Le amanti, del 1975, i cui capitoli erano sapientemente orchestrati in modo tale da raccontare, uno per volta, salvo qualche eccezione, i destini delle due ragazze protagoniste; e come sarà sempre meno nei romanzi successivi. Negli Esclusi, invece, tutto è mescolato, stretto in un unico piccolo pugno (quello del narratore), ma anche in una fitta rete di violenze psicologiche e fisiche con cui i ragazzi stessi si legano morbosamente gli uni agli altri. In particolare, quelle di Rainer ricordano le mosse subdole e ricattatorie con cui il grande burattinaio dei Demoni, Pëtr Verchovenskij, si adopera per coinvolgere lo scostante Nikolaj Stavrògin nelle attività terroristiche della sua cinquina. Oltre a questo, poi, la natura delle azioni dei quattro ragazzi austriaci avrebbe qualcosa di vagamente paragonabile all’incendio appiccato o ai delitti di varia natura raccontati nel romanzo di Dostoevskij, se non fosse che i personaggi della Jelinek sono ancora più disperati, sembrano ancora più bisognosi di credere che quel vago e violento disprezzo sia l’unico modo di conquistarsi un posto nel mondo, ma anche allo stesso tempo di disprezzarlo ancora di più.
A rendere più leggibile questo intrico di destini e compulsioni, uno stratagemma tanto semplice quanto efficace: come in una didascalia teatrale al contrario, il nome di chi sta agendo o pensando viene segnalato alla fine del suo discorso, riportato come indiretto libero, e messo tra parentesi.
Non esiste folla in cui possiamo nasconderci, perché in qualunque posto ci troviamo, noi ci distinguiamo dalla massa (Anna). Noi non dobbiamo affatto nasconderci, dobbiamo agire alla luce del sole, perché solo così possiamo affermare apertamente i nostri principi di violenza contro tutto e tutti (Rainer). Idiota (Hans). (Gli esclusi, p. 10)
Quello che conta è picchiare, con o senza odio (Anna). Non hai capito un bel niente, le risponde Rainer con un tono di superiorità.
Merda (Hans), intendendo, con questa espressione volgare, che gli si è strappata la camicia. (ivi, p. 12)
Questa scrittura così precisamente referenziale che attraversa tutto il romanzo con varia intensità, tuttavia, non elimina affatto l’evocazione del sentimento e del raziocinio ottenuta tramite la continua e sospettosa rappresentazione caricaturale delle cose e dei personaggi, o quello sguardo di traverso – obliquo, tagliente, perennemente ambiguo – sul mondo e sulle cose che abbiamo osservato prima, di sfuggita, in altre opere. Nemmeno negli Esclusi, infatti, la voce narrante è imparziale e semplicemente onnisciente: qualche fulgida espressione improvvisa sguscia via anche da questa morsa impassibile della storia; qualcosa fa comunque sorgere nel lettore un dubbio sulla posizione della voce narrante e, dunque, sull’attendibilità delle ragioni del personaggio in cui il narratore momentaneamente si incarna, e da cui istintivamente si allontana.
È una brutalità contro una persona indifesa e di conseguenza un’azione del tutto inutile, dichiara Sophie tirando per i capelli l’uomo che giace a terra tutto spelacchiato. (ivi, p. 9)
Anna ha in sé una tale rabbia – generata, senza dubbio, da un conflitto generazionale – che le verrebbe voglia di fracassare anche le vetrine illuminate di questa via di negozi, l’orgoglio di Vienna. (ivi, p. 11)
Una donna vuole sempre avere qualcosa ficcato dentro di sé, a meno che non partorisca un bambino […]. Questa è l’immagine che Rainer ha della donna. (ivi, p. 37)
[…] ma quell’idiota, come sempre, fa un movimento maldestro […] (ivi, p. 124)
L’incongruenza logica nella prima citazione, per esempio, o il senza dubbio della seconda, o quella precisazione quasi comica in coda alla perentoria dichiarazione di un personaggio che teme terribilmente il ridicolo (Rainer più degli altri, forse, è un classico tipo dostoevskiano) e che però, proprio per questo, si irrigidisce su posizioni che non sa e non può mantenere; tutti questi, ecco, sono la cifra vera del romanzo, segnali della miseria in cui viviamo e delle angoscianti prigioni e semplificazioni contro cui anche noi ogni giorno lottiamo.
Quanto più si tratta di pensieri e azioni, poi, che denunciano una condizione profondamente tragica dell’esistenza dei quattro ragazzi, e tanto più sottilmente l’autrice oscilla tra un tono parodico, che è comunque segnale di un simpatetico distacco, e un accorato e istintivo bisogno di prendere tutto davvero molto sul serio, creando un corto circuito logico che solo un tono comico e affettuoso può comprendere senza contraddizioni.
Abbiamo bisogno di una norma universalmente valida, per godere veramente dei nostri eccessi. Siamo dei mostri, anche se ci camuffiamo da borghesi. Siamo i figli della borghesia, ma non resteremo intrappolati lì dentro. Interiormente siamo consumati da cattive azioni, all’esterno siamo degli studenti che vanno al liceo. (ivi, p. 67)
Dentro di sé Rainer si è già completamente staccato da questa famiglia, fuori di sé si staccherà da lei aggredendo e rapinando persone innocenti. (ivi, p. 194)
Anche in questo libro, insomma, l’autrice cerca di stimolare la nostra riflessione e non solo la nostra compassione. Il problema dei quattro ragazzi non è solo individuale e di destino personale: sono tutti personaggi giovani e già miserabili; esclusi dalla società non soltanto a causa delle loro stesse patologie, e che per questo vivono un conflitto profondo anche con la società in cui si sono trovati a nascere. Contro questo determinismo inumano che non comprendono e non li tocca o non li accoglie, tentano in ogni modo di reagire, oscillando tra la disperazione e il comico, il sesso, il furto, la violenza fuori controllo e il piccolo scherzo terroristico, innocente e quasi giusto, in modi che hanno a che fare direttamente con noi lettori e con il mondo in cui vogliamo vivere (anche noi, europei del dopo Auschwitz).
Lo studio minuzioso della preda
Anna e Rainer Witkowski, figli di un ex ufficiale invalido delle SS e di una donna docile e sottomessa, umiliata giornalmente sia dal marito sia dai figli, sono infatti patologicamente ormai distanti dalla natura viva dei loro coetanei, coi quali non sanno interagire: li ammorbano con discussioni filosofiche su Camus, Sartre e Sade, Bataille e Cocteau, ma loro, i compagni di scuola, sanno per istinto che i due gemelli si fanno troppi problemi, che sono alienati a causa della loro visione aristocratica del mondo inculcata dai disagi della madre e che, banalmente, “non hanno mai preso un cazzo o una fica tra le mani” (ivi, p. 24).
In questo loro mondo sono già crollati “i valori dell’autorità e della patria potestà” (ivi, p. 42) (insomma il potere del Padre sui figli), ma non ancora quello del Padre sulla Madre: allora il padre, ormai zoppo, mentre rivendica ancora con fervore la propria militanza politica nei ranghi delle SS (siamo nella Vienna della fine degli anni Cinquanta), sfoga sadicamente la propria frustrazione sulla moglie. “Basta dirle che il suo corpo assomiglia sempre di più a un pezzo di formaggio ammuffito” (ibidem), si dice da solo il Padre, oppure fotografarla in pose pornografiche che deformano – oltre che la sua sensualità – la sua stessa dignità.
Il mio occhio di fotografo dilettante mi dice che ancora una volta non ti sei lavata i capelli, come ti avevo ordinato di fare. Devono assomigliare alla seta e non a un cespuglio arruffato. (ivi, p. 19)
Hans, invece, che è stato educato con più sobrietà e concretezza rispetto ai gemelli Witkowski, capisce facilmente l’artificiosità dei gemelli e dice: “Io sono molto più vicino alla natura, sono sempre al passo con i tempi” (ivi, p. 30). Intanto, però, questo stare al passo coi tempi si concretizza nella sua condizione di giovane operaio che non si riconosce nel partito socialista dei genitori: figlio di un padre morto sulla scala della morte a Mauthausen e il cui ritratto viene evocato più di una volta dalla madre, disperata e inorridita dalla mancata ribellione del figlio ai suoi oppressori, la sua infatuazione per la ricca ed evanescente Sophie è il simbolo della sconfitta di ogni resistenza al nazismo o, che è lo stesso, nel libro, al sistema dei consumi, al modello culturale e manageriale americano, all’individualismo e all’arrivismo privo di scrupoli; tutto in virtù di un molto vago e confuso concetto di libertà (come gli fa prontamente notare la madre).
Almeno gli è stata risparmiata la mediocrità della vita di tutti i giorni, pensa il figlio, che vive perennemente nel pericolo di sprofondare in questa mediocrità, ma farà tutto il possibile perché ciò non accada. Una vita breve e intensa e poi, forse, una morte breve e intensa. Voglio vivere tutto intensamente, anche se dovesse durare poco. Si è giovani una volta sola, e io sono giovane adesso. (ivi, p. 100)
I due personaggi femminili principali, Anna e Sophie, poi, vengono sottoposti a quello che è stato giustamente definito un animalesco “studio minuzioso della preda”.[8] Entrambe vittime di una percezione della propria femminilità comunque nevrotica (ostentata e frustrata una, sfuggente e quasi rimossa l’altra), Anna agisce sul suo corpo come su una superficie bianca da macchiare ossessivamente: per questo (non riuscendo a sporcare o anche solo a toccare Sophie) “tenta di deflorarsi da sola” (ivi, p. 27).[9] Con le compagne, poi, vive un rapporto esclusivamente di invidia, mediato solo da acidi filosofemi attraverso i quali tenta di nascondere – e anche conservare gelosamente, però – la propria inadeguatezza alla vita.
Si rode dall’invidia ogni volta che vede una compagna di classe indossare un tailleur nuovo […] o scarpe nuove con il tacco alto. In quelle circostanze, però, le uniche parole che le escono di bocca sono: mi viene da vomitare quando vedo ragazze bardate in quel modo. Loro e quegli stupidi stracci, sono superficiali, non hanno niente in testa (ivi., p. 11).
Di Sophie, invece, “che fa parte di quei figli di ricchi lasciati a se stessi e al loro benessere” (ivi, p. 9), si dice che è quel bianco incontaminato e incontaminabile, che “nell’immagine che ha di se stessa, è fatta di vetro, di porcellana scintillante, oppure, meglio ancora, di acciaio inossidabile” (ivi, p. 55), oppure che è come una “superficie liscia, che invita all’attacco, ma sulla quale si scivola sempre” (ivi, pp. 55-6): un personaggio che ha sempre fretta di andare da un’altra parte, che non può mai restare più di qualche minuto presente concretamente nella pagina del libro. A proposito di Sophie, vengono in mente alcuni versi di Sylvia Plath (autrice cara all’austriaca) e quella sua dolorosa sensazione di carta velina che tenta in ogni modo di soffocare.[10] Il sintomo che denuncia questo personaggio (come altri femminili) della Jelinek è proprio questa perdita collettiva di spessore, disancoramento dalla realtà; una leggerezza o, peggio ancora, un alleggerimento, che ci trasforma in figurine abbozzate di un affresco senza più colore e prospettiva. Tuttavia, è proprio per il suo algido distacco da tutto e da tutti e per una sua apparenza di malleabilità assoluta che Hans e Rainer (ma a suo modo anche Anna: odiandola) si innamorano di lei, ed è per la sua estrema prevedibilità che finirà per farsi scegliere dal temperamento forte e ingenuo dell’operaio, anziché dai giochetti di dominio e sudditanza del poeta decaduto, Rainer, che poi ne impazzirà; proprio per la sua esistenza solo allusa, ma sempre superficialmente accomodante, la scuola la preferirà ad Anna come borsista per un anno negli Stati Uniti (ciò che getterà sull’altra una coltre ancora più spessa e morbosa di mutismo e invisibilità).
Sophie sembra insomma il personaggio più innocuo, quello trascinato, più che coinvolto, nella serie di aggressioni progettate e compiute dal quartetto ma, proprio la sua incorporeità e distanza dalla realtà le rendono facile anche le scelte più terribili: alla fine del romanzo, per una sua gelida iniziativa – cittadina poco partecipe al di sopra di ogni sospetto – quasi con eleganza una bomba esploderà nella palestra della scuola.
Nessuna sorpresa, però, ci coglie alla fine del libro, nemmeno per le ultime azioni veramente demoniache di Rainer, perché sapevamo fin dall’inizio di questa storia che i protagonisti erano quattro mostri depravati e che, purtroppo, forse non avevano neppure molta scelta: la prima volta che li incontriamo stanno già compiendo una delle aggressioni che nel libro vengono evocate e considerate immanenti alla realtà.
Nessuno scandalo, poi, anche perché la voce selvaggia e cinica che ci ha guidati in questa storia ce l’ha detto fin dall’inizio che il mondo è un lago d’acqua torbida e melmosa; che la realtà in cui viviamo e che quotidianamente scegliamo di costruire è un banale buco in mezzo alle placide colline austriache, attorno a cui ci siamo adoperati in qualche modo e che però no, contrariamente a quello che si può credere, non è possibile farne altri (di buchi, di laghi, di mondi) qualche metro più in là.
L’acqua è così presuntuosa, non ci si può far proprio niente. È dunque meglio lasciarla in preda al suo squilibrio, no? Se il lago è andato, possiamo sempre costruircene un altro lì vicino, esatto, proprio lì accanto, no meglio laggiù. Che ne pensate? Molti saranno contrari. A monte, se si continua, c’è lo sbarramento della centrale elettrica locale, lì proprio non è possibile. È un posto dove l’acqua deve lavorare e non ha tempo per giocare e fare sport. E non ci rimettiamo certo a fare un altro buco nel mondo con la dinamite tanto per divertirci, o mi sbaglio? (Voracità, p. 80)
[1] Elfriede Jelinek, Gli esclusi, Milano, La nave di Teseo, 2018.
[2] A proposito di questo aspetto, qui si parla giustamente di polifonia discorde.
[3] Elfriede Jelinek, Voracità, Milano, Frassinelli, 2005.
[4] In Ein Gespräch mit Elfriede Jelinek, intervista realizzata per la Società Italiana delle Letterate (SIL), Monaco, 2005. Il brano è citato qui.
[5] In mamas pfirsiche, frauen und literatur 9/10, 1978, p. 174 (il brano è citato qui).
[6] Elfriede Jelinek, La voglia, Milano, Frassinelli, 2004.
[7] Ead., Le amanti, Milano, Frassinelli, 2004.
[9] I lettori italiani scoprono solo ora da dove venga quella scena del film di Haneke, La pianista (tratto dall’omonimo romanzo della Jelinek), in cui Erika Kohut compie esattamente gli stessi gesti e gli stessi errori della giovane Anna. Solo che, ad aspettare fuori dal bagno la prima c’è la madre, che si accorge subito che qualcosa nella figlia è sfuggita al suo controllo; mentre ad accogliere la ragazza, meno maldestra di Erika, c’è la sbiadita figura di Sophie.
[10] Come si legge nella poesia Cut:“I have taken a pill to kill / The thin / Papery feeling” (cit. in Sylvia Plath, Poesie, Milano, Mondadori, 2002, pp. 688-691).
Grazie per avermela fatta conoscere. Ammetto la mia ignoranza. Leggerò, grazie.