Dix fiabes difficìles
di Andrea Franzoni
“l’eroe in A. F., in quell’unica riga, è un corpo in cui il peso del portato tradizionale e familiare si depone nel senso del mantello. Si depone cioè si mette al margine, tenta anzi di spostarsi ma il peso del mantello, per sua assunzione, è un peso centrale. Individuale. Ma la deposizione del mantello è un continuo tentativo di dargli un posto per la notte. La tragedia dell’eroe si gioca con un corpo da indossare. Il portato tragico è sempre nell’assunzione.”
R.Bisogno.
I
Cucinare un pozzo al centro del reale
E tra le due lune
La tua capacità di svegliarti
Metodo
Per mutare un pensiero in un problema.
Siamo buchi caduti in noi stessi.
E le tue rose piene di elastici
E le mie rose piene d’alberi e
Dolcezza
Che ti pulisci le orecchie
Dolcezza
II
Fare un figlio, significa saperlo cancellare.
― non è un buon giorno
per spiegare
l’altezza delle cose umili.
Credere è un muscolo. Un muscolo
è il Miracolo di perdere tempo per dare coraggio e
perdere gusto e senso e
Fare un figlio, significa saperlo rifare.
― non è un buon giorno per
spiegare l’altezza
delle cose basse.
Esiste, perché può esistere, una poetica dell’idea parlata: dopo la parola data, c’è sempre la parola ritratta ― dopo la parola detta, c’è sempre la parola rifatta. Buchi bianchi ci stanno dentro da una ventina d’anni poetici. La poesia s’è rifatta le labbra = significa che si narra in essa la volgarità originaria di una bellezza che si paga ― le ali a tre euro ― ben al di là di un naturalismo orale o culturismo metrico che non può captare l’orfanezza delle cose che ritornano. Niente torna, in natura. L’uomo sì. Non nel senso del tempo. Perché il tempo non ha senso.
*
II
a Beddo,
se la memoria è una porta scorrevole
Se hai le orecchie piccole, non potrai essere un lupo
che combatte con le mele
Contro
la mascolinità del dolore.
da solo.
Con il collo trafitto dal femminismo capovolto
Come un buco in un barattolo (aperto
alla vita.
da solo.
Si è s.
da vero amico.
Con le ali nel tubo di tutti.
Senza chiedere niente
da vero metallo.
La fiaba che non racconta, il senso di colpa che palleggia (sulla parte sinistra) da solo nel campetto degli uomini arati dalla poesia, penetrati da millesimi; chi la vive, questa fiaba, non ha ricevuto la lingua per difendersi da essa; chi la racconta non ha ricevuto la vita per viverla. Il buco che lanci dai tuoi occhi sulle cose che guardi, come un dono da fissare in accenti sciolti, accenti come ciliegie, sulla giustizia inerte delle realtà.
*
III
L’inferno l’ha già accettato quello
Che firmi rifiutando
In domande di affetto.
Sai sputare bene.
Ma tu non sei tu e non abbiamo
Un insieme di sangue
Per andare avanti.
Andiamo qui.
Al bagno.
Che entrare in acqua per il cervello è
Svuotarsi e guardare il sole quel poco di troppo
Che te lo fa vedere poi dovunque.
Difficilmente vedrai più lontano dei tuoi occhi.
Se una vita ti torna addosso
dopo anni di insiemistica
separata
è solo per fare l’amore.
Non si ama sempre ciò che si fa.
IV
a Rosalia
Dagli le spade dagli i rami delle spade
Dagli la borsa la borsetta
E dagli le spade: qui dentro, dove le lacrime
Stringono ossa
Le spade insistono sulla loro possibilità di non essere
Quello che raccontano. Hanno un punto
Di prigione, hanno un bagno in cui
Puliscono le cose che non hanno detto
Le cose
Le cose
I padri
E le cose
Un ragazzino pulisce un tavolo senza luce
Le cose che diventi conservano una luce
Che
Il pianto offusca.
Le cose
Le cose
Conservano le cose un pianto che non gradisci: lascialo.
V
Ho la paura dei cinque cuori
Tradire o sentirmi sola
E dei cinque anni e delle cinque mani
Ho la paura
Dei cinque cattivi
E non ho paura della paura
La paura è la mia
Colazione.
Poi vado avanti, e l’asporto passa e
Sembra che ho cinque vite e faccio cinque piatti e
Sembra che ho cinque giornate e poi
Una
Due
Tra quattro
Cinque e cinque
Quattro
Ma la mia non è pazzia la mia
Pancia
Me l’han tolta.
VI
accadde in pigiama
perché tu possa imparare a cambiarti con la rapidità
del cavallo e un giorno d’inverno
dietro il banco,
fatto a pezzi dalla sua bontà.
Diventerà poi un servo del popolo, un martello pieno
D’emozioni emozioni. Come te.
Allora deluso e scoraggiato
lascerà la scuola e cavalcherà a lungo per lunghe praterie
di mente,
verso niente,
come te.
― Egoista d’un cavallo saggio.
da un solo occhio scendevano le sue fate.
Ma era l’altro che guardava.
*
Il gatto futuro
Un piccione. Un piccione inondato da un raggio di sole invernale. Il tremore della mano sinistra. Le ragioni del tremore della mano sinistra. Non indagare. La famiglia. La famiglia non permette ma aspira in sé, nel suo corpo, quel che gli manca. Seduto. Il piccione. La famiglia. E quel che gli manca è quel che possiede, sempre, ogni giorno, ad ogni raggio di sole o di luna. Qualcosa di non veduto, attraverso l’occhio, o l’arcata sopraccigliare che pulsa, spaccata, quella riga di esistenza ferita che pulsa in lui un futuro. Un uomo parla da solo, nella panchina accanto. Posizioni. Posizioni. Il piccione. Che dice? Dice “Signore, trova il punto di vista.” Frasi astratte come sempre ma che se ascoltate collaborano impercettibilmente alla formazione del proprio futuro. Oggi è niente. È un lunedì. Per tutta la settimana ha accumulato cassetti. Brevi. Ora, ora che la settimana è fatta e ricomincia. I cassetti vanno chiusi. Il piccione: “Va offerta alla società una possibilità di deficienza.” Allora mancare, mancare perché la gente possa trovare la mancanza che non possono permettersi. È un privilegio, davvero, il pensiero. Ma un privilegio non è un che di facile. Non è una vacanza. Una vacanza viene e va verso il vuoto, vacuum. Il piccione: “Se di lunedì abiti la mancanza sarai già, nello spirito, a martedì.” Ora fame. Non c’è trama. C’è una favola leggera per chi non lavora, di lunedì. Come un supermercato di informazioni. Il raggio di onde severe e le nevrosi dei disoccupati. La piccola verità sociale. Non pensarci. Il privilegio implica un lavoro che non sia soggetto al lavoro. Si alza. Il piccione insieme a lui si solleva. Va a mangiare. E questo è quanto della vita gli mancava. Il resto è dietro. Memoria. Ovvero domenica sabato venerdì giovedì mercoledì martedì. “Ricordati del futuro” dice ancora una voce. Senza più la forma volatile e sporca del piccione. Sulla panchina. Appare un gatto grasso sulla destra. Cammina. Sì. Si ricorda che ora cammina.
*
IX
Abbiamo tutti il diritto al rovescio
Il sacrosanto diritto a sputare in bocca ai porti
E accarezzare la testa cornuta dei ragazzi
Che non hanno niente da fare.
Abbiamo tutti, nel non fare niente, qualcosa
Da fare che non ci ascolta, che si fa da sola.
Se il presidente non vuole i migranti, occorre
Eliminare il volere e non farne il vice-medusa.
Sulla falsità del diritto, il rovescio applica
La giustizia. Dalla cima del pioppo
Piovono rami che non si stancheranno mai.
Dalla cima della tua testa, spioventi, i pensieri
Conquistano il mondo, ma nessun marinaio
Vero
Li accetta.
X
3 dicembre, alla città sola di Marsiglia.
Tagliato dal rincretinimento acido
Dell’amore
Amo.
Questo significa andare a capo, o nascere in frammenti del bicchiere
Speciale
Che si rompe quando
Copri.
Ora
Scoperto
Non scopro niente di nuovo
Niente di vero.
Ora
Scoperto
Mi lascio scoprire
Mentre io ritrovo.
La veemenza del potersi premere il vuoto a vicenda. Macchine passano, passano vite e parole passano. Cos’è che resta? Ciò che passa. E quella figura di foglia così rossa così rossa: il cuore dell’autunno è sottile. La fedeltà è spesso tanto maggiore quanto breve è il patto