Le piccole città di provincia nella storia di ognuno di noi
di Pietro De Vivo
Piccola città. Una storia comune di eroina di Vanessa Roghi, Laterza, 2018
Tutte le città felici si assomigliano fra loro, ogni piccola città infelice è infelice a suo modo. Eppure, per quanto sia vero, nelle tante e diverse grandi infelicità delle città piccole è sempre possibile ravvisare qualcosa in comune. Qualcosa che forse solo chi è cresciuto nella noia delle giornate tutte uguali tipiche della provincia riesce a cogliere in una maniera dolorosamente autentica, in grado di arrivare prima di qualsiasi discorso razionale.
È da questo sentimento che parte Vanessa Roghi nel suo Piccola città. Una storia comune di eroina (Laterza, 2018) per raccontare un male che ha dilaniato, e che continua a lacerare, tante città e periferie d’Italia, anche se ignorato da media e politica, tranne quando strumentalizzabile. Una storia sociale dell’eroina nel nostro paese scritta usando la vicenda della propria famiglia come rocchetto attorno cui avvolgere il filo rosso del testo: nella piccola città maremmana di Grosseto il padre dell’autrice è arrestato nel 1987, quando lei ha quindici anni, per spaccio e uso di eroina.
Roghi avrebbe potuto scegliere di trattare la questione della tossicodipendenza con un saggio storiografico, invece partendo da un dato personale racconta senza salire mai in cattedra. Svolge così una trama individuale e collettiva scegliendo una forma ibrida, tra saggio e romanzo familiare, inchiesta sociale e memoir, mescola documenti privati, articoli di stampa, studi e ricerche, interviste, canzoni e romanzi, diaristica e testimonianze raccolte dal vivo e on line. In questo modo intreccia i tre principali fili della narrazione: la Maremma, la sua famiglia, la droga, inquadrandole con un montaggio in cui ai capitoli si alternano citazioni e voci.
Tutto questo Vanessa Roghi lo racconta partendo da lontano, dalla Maremma degli anni del fascismo, zona paludosa quasi di confino, tra buie miniere e terre poco fertili che nessuno vuole lavorare. È lì che con la famiglia si trasferisce da adolescente la nonna materna Isolina – per tutta la vita sarà insofferente al gretto provincialismo contadino – che sposa Marino Roghi, raccoglitore di torba prima e imprenditore edile poi, che odia ma con cui avrà Mauro. Sempre lì, a causa di una gelata che ha distrutto tutte le piante, si trasferiscono dall’Abruzzo i nonni materni Luigi e Maria, con la figlia Irma, dal cui incontro con Mauro nascerà l’autrice. Iniziano da qui le vicissitudini di una famiglia come tante, nonne, genitori, zie, nipoti, fino ai giorni nostri.
Vi si intesse, legata a doppio filo, la storia di Grosseto: una veloce crescita economica e urbanistica nel dopoguerra, il conservatorismo degli agrari, il comunismo dei lavoratori – tra cui i minatori raccontati da Bianciardi e Cassola –, le amministrazioni di sinistra, la nascita di una piccola borghesia imprenditoriale, il provincialismo intellettuale contro cui poco possono gli sforzi di Bianciardi. Così da periferia del mondo diviene centro di traffici.
Si intreccia poi l’ordito della storia dell’eroina di cui sono colte tutte le angolazioni. Quella criminale, l’arrivo in Italia, le grandi organizzazioni autoctone e straniere; la questione medica, gli intrecci con la ricerca e la produzione delle industrie farmaceutiche, le tossicomanie nate in seguito a cure e prescrizioni superficiali; la storia legislativa, i provvedimenti delle istituzioni, i dibattiti parlamentari; i processi, la colpevolizzazione di chi usa al pari di chi vende; la medicalizzazione, le comunità, la psichiatrizzazione; la gogna mediatica, i beceri e semplicistici luoghi comuni della stampa borghese; la contestazione culturale, la beat generation, le liberazioni degli anni Sessanta e Settanta, le utopie, la droga come forma di ribellione; la politica, le lotte degli anni Settanta e la sconfitta; i complottismi prima della destra (l’eroina importata dalla Cina dal Partito comunista italiano) e poi della sinistra (portata dagli statunitensi per rompere il movimento), letture che oscuravano qualsiasi volontà di scelta della persona; ma, soprattutto, prima della storia della droga, la storia dei drogati, del loro isolamento, dello stigma, della condanna.
Il materiale è tanto, trattato con delicatezza e padronanza, e per averne piena cognizione non basta riassumerlo ma bisogna leggere il libro, in cui si adotta sempre un punto di vista problematico che non si adagia su facili convinzioni. A tutte queste storie Roghi affianca infatti anche quella della propria ricerca ponendosi nuovamente, rivolgendoli anche a chi legge, tutti i quesiti che ha dovuto affrontare. L’argomento non è esaurito e anche l’autrice auspica nuove pubblicazioni, ma l’approccio insieme duttile nella forma e variegato nei contenuti le ha permesso, nel piccolo di questa vicenda familiare, di suggerire un criterio per discutere dell’eroina con la volontà di comprendere, non di giudicare.
Emblematica da questo punto di vista l’evoluzione della percezione sociale del drogato da vizioso, di provenienza borghese, molle, dedito ai piaceri, a figura deviata e deviante, ricondotta prima a mondi estranei, fuori canone, cioè quelli delle nuove culture giovanili importate dall’estero, e relegata poi alla marginalità demonizzata e fuori norma della povertà, delle periferie, dell’esclusione. Sui tossicodipendenti è gravato lo stigma del vizio corruttore della morale e dei costumi, la dipendenza come malattia, piaga oscura in grado di contagiare, invadere i corpi e corrompere le menti. Un incrostarsi di luoghi comuni cui hanno fatto da contraltare politiche quasi sempre fallimentari. Prima il farne un problema morale, e non sociale e politico, ha semplificato l’analisi impedendo di coglierne a fondo le ragioni profonde, derubricando un problema collettivo a corruzione individuale dei costumi. Poi l’approccio medicalizzante e farmaceutico, o giudiziario, ha ridotto il tossicodipendente a malato o delinquente. Trattandoli come corpi estranei, al di fuori della comunità, la società ne ha sempre cancellato il lato umano. Invece la storia di Mauro Roghi ci dice che sono persone come le altre.
Per affrontare la questione senza disumanizzare bisogna porsi delle domande: per capire come mai anche in una famiglia colta e di sinistra, sia potuta entrare l’eroina, perché, cosa poteva portare a questa scelta, com’erano considerate e vissute le droghe all’epoca, e come mai un’abbondante fetta della generazione piena di ideali che negli anni Settanta voleva cambiare il mondo vi si sia smarrita dentro. Un interrogarsi che segue la scelta di non riportare la testimonianza diretta di una dipendenza ma far sentire la voce di chi con quella persona ha avuto strettamente a che fare, cioè la propria. Un movimento costante dall’interno verso l’esterno che tocca il punto di massima forza nelle pagine che trattano gli aspetti più intimi, quel personale che proprio in quegli anni diviene politico: raccontare senza voyeurismo una delle tante storie indicibili che ci circondano, per di fare i conti con le divisioni, sociali e culturali, ma anche umane, che hanno separato dalla società uomini e donne di tante piccole città italiane.
Leggendo la voce di Vanessa Roghi non potrà non sentirsi chiamato in causa chi ha visto storie simili, di persone vicine cui si è voluto e si vuole bene cadute nel buco. Per questo una chiosa personale: sono nato in una piccola città di una provincia meridionale, quasi quindici anni dopo l’autrice, non troppi mesi prima dell’arresto di suo padre. Appartengo quindi a una generazione successiva, ben distante, ma nel libro ho rivisto scene familiari, di amici e compagni fraterni. Il problema dell’eroina è ancora oggi nascosto, rimosso, tirato in causa dalla politica sciacalla solo quando strumentalizzabile. Ma i dati riportati nel volume denunciano che a distanza di anni continua a colpire vite ai margini – geografici o urbanistici, sociali o umani – ed è questo l’allarme, quanto mai urgente, che attraverso la storia della propria famiglia Vanessa Roghi vuole lanciare.