Una lettura di Libretto di transito di Franca Mancinelli
di Leonardo Manigrasso
[Questo articolo è stato pubblicato su: «l’immaginazione», XXXV, n. 309, gennaio-febbraio 2019, pp. 53-54].
Libretto di transito, edito da Amos Edizioni, è il terzo libro di Franca Mancinelli, dopo le esperienze di Mala kruna (Manni, 2007) e Pasta madre (Nino Aragno, 2013), di recente riedite insieme in A un’ora di sonno da qui (italic pequod 2018). Composto di trentatré brevi prose, distingue tipograficamente due piani del discorso saldamente intrecciati. L’uno, in corsivo, dà conto dell’esile spunto narrativo che soggiace al libro, un viaggio in treno lungo una rotta che si intuisce familiare. L’altro, invece, alterna presenze molto eterogenee: voci spesso imperative, ricordi, meditazioni e immagini che si affollano alla mente dell’autrice. La complessa trama spazio-temporale del libro sembra dunque derivare dall’incontro fra due movimenti: quello lineare del treno/tempo e quello ricorsivo e oscillante di questa specie di memoria raziocinante. Ciò sembrerebbe impostare una serie di coppie antitetiche molto specifiche: veglia/sonno, presenza/assenza, superficie/profondità, retta/circolo, movimento/stasi; in realtà il dettato della Mancinelli scardina da subito queste coordinate esteriori, e si proietta su un piano di esperienza del tutto alternativo. L’esergo da Simone Weil («L’arbre est en vérité enraciné dans le ciel») implica infatti un’ipotesi di reversibilità degli opposti che offre preziose chiavi di accesso al libro. La prosa della Mancinelli sottopone infatti i propri materiali a un lavoro di stilizzazione in cui la circolazione del senso capovolge di continuo forme e significati. Ne derivano una peculiare mobilità pronominale e temporale, l’ambiguità tra il vedere e l’essere visti, la pluralità delle possibili identificazioni. In tal senso c’è forse una diffidenza di fondo alla base della scrittura della Mancinelli, una diffidenza verso l’“incostanza delle cose”, le quali, nonostante la loro folgorante chiarezza, sono da ultimo insolventi in quanto coinvolte anch’esse in un flusso che le rende continuamente cangianti. La scrittura dunque deve essere altrettanto plastica, mobile, aderente a una coscienza enigmatica perché, in fondo, ignota a se stessa («viaggio senza sapere cosa mi porta a te»).
Eppure Libretto di transito, nonostante questa natura fluttuante, ha una struttura internamente progressiva, direi quasi “narrativa”: le sue prose sembrano dare conto di un crocevia dell’esistenza, fedelmente a una nobile tradizione di poeti che hanno collocato fra i trentacinque e i quarant’anni un’occasione cruciale di bilancio e di ripensamento. I sintomi di una crisi sono in effetti numerosi nel volumetto, e in particolare le frane, i ruderi, l’«intero paese in pericolo di crollo che stai sostenendo in te», i tonfi «nella radura del petto», un universo che si sgretola. Sono spine la cui contropartita è il bisogno di «entrare nella taglia esatta della pena», lo sforzo centripeto di tenere faticosamente tutto assieme («Rimanere così, dentro una sagoma; incompiuta, perfetta per un lancio di coltelli»). Ma la lotta è impari: il soggetto è assediato da fantasmi reticenti, appuntamenti mancati, ricordi che non schiudono il proprio senso, presenze che lo «raggiungono premendo l’angolo duro della loro assenza». Il corpo, in particolare, soffre l’incongruenza con il circostante e i vestiti che lo fasciano– fatalmente fuori taglia– impongono mutilazioni invisibili e penose.
A questo stato di disintegrazione fanno da contrasto gli inviti al cambio di pelle che si infoltiscono nelle pagine finali. La prosa della Mancinelli tende così ad assumere le forme di un rito di iniziazione («Cospargiti un po’ di farina sul palmo delle mani, gli zigomi, la fronte. Così iniziano le guerre e i passaggi di stato. Prendi una padella, rigala d’olio. Allineato ai punti cardinali, in possesso di tutte le tue forze, concentrati: rompi un uovo»). La terra, il fango –non più sinistra dimora «di piante dal frutto velenoso» – tornano elemento ctonio e diventano «argilla dell’inizio del mondo» da cospargere sul volto, come in una sorta di cerimonia lustrale; al contempo si fanno più insistenti la verticalità delle forze elementari e le figure della natalità, ivi compresa la natalità del senso che si fa corpo e parola («credi che un nome possa avere luogo?»). Il rito presuppone una gestualità quotidiana e solenne, la cui intensità simbolica culmina nel momento in cui a essere tracciato è un segno puro, linguaggio sacrale sottratto alla storia («Ma se svolgessi il filo e tornassi a vedere, troveresti una croce sormontata da un cerchio»); certo il segno destinato a riconsacrare l’esperienza dell’autrice è però quello della scrittura stessa, al contempo testimonianza e strumento di questa esperienza battesimale. Il libro si chiude con l’immagine di una gemmazione, che è sia una fioritura vitale che la promessa di una parola nuova («Le foglie si parlano fraterne. Dal cuore alla cima della chioma, stanno iniziando una frase per te»). Il transito sembra compiuto.
Franca Mancinelli, Libretto di transito, Amos Edizioni, 2018, pp. 55.