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L’effimero che fonda il perenne. Sciamanesimo, Arte, Letteratura

di Giuseppe A. Samonà

 

Le nove porte, riflessione a più voci sulle relazioni fra lo sciamanesimo e l’arte contemporanea, è un libro sontuoso eppure discreto, e brillante, unico: proprio come Romano Mastromattei, l’autorevole studioso di sciamanesimo – nonché finissimo conoscitore di arte contemporanea – che con le sue ricerche ne è stato il principale ispiratore; e anche, materialmente, l’autore di ben quattro dei quattordici contributi che lo compongono, insieme a molte delle foto che li accompagnano. Lo sciamanesimo, con le manifestazioni estatiche e di possessione che lo contraddistinguono, è in senso largo una galassia che secondo non pochi studiosi (uno su tutti: Mircea Eliade) ha un’apertura, una vocazione universale. Ma in senso stretto – per così dire – nasce e si afferma, come elemento catalizzatore di una vera e propria cultura, in un’area che comprende la Siberia, la Manciuria e la Mongolia (shaman è un termine tunguso). Da lì, s’irradia a est attraverso l’Alaska e il Canada sino alla Groenlandia (vengono in mente le ricerche, la vita di Knud Rasmussen fra gli Inuit, o ancora gli studi di Franz Boas sui Kwakiutl, e in particolare l’indimenticabile storia di Quesalid, lo sciamano scettico, ripresa e resa celebre dall’analisi di Claude Lévi-Strauss sullo Stregone e la sua magia). Anche, subito a sud, si diffonde in forme diverse attraverso l’Himalaya, in particolare nel Nepal: ed è da lì che vengono essenzialmente i materiali sui quali si costruisce il libro.

La gestazione del progetto è stata lunga, complessa: si trattava di ideare e organizzare una mostra, e in seguito – ma insieme, nello stesso slancio creativo – raccoglierne l’essenza, il senso e anche continuarla, trasformandola in scrittura. Un libro ovviamente, come lo sottolinea Orfeo Pagnani nel suo contributo introduttivo,  non può trasmetterere l’intensità e la significatività delle attività performative proprie delle sedute sciamaniche e delle realtà artistiche connesse, riproducibili invece, almeno parzialmente, in una mostra. Può tuttavia spiegare, verticalizzare, quel che una mostra non può mostrare: la riflessione, il pensiero, che meglio ci permettono di capire, al di là delle emozioni proprie appunto dell’evento espositivo, le chiavi di una questione che è nel contempo etnologica ed estetica. Per questo doppio lavoro – mostra / libro – ci son voluti quasi dieci anni: la prima idea prende forma nel 2006, ai margini di una precedente mostra romana (“Rta: sciamani in Eurasia”), sempre sotto l’impulso e la regia di Mastromattei e realizzata su progetto di Orfeo Pagnani; la mostra “Le nove porte…” si svolge a Roma a fine 2011; il libro esce a fine 2014. Nel frattempo, nel 2010 è prematuramente morto Romano Mastromattei, il che rende la finalizzazione del lavoro molto più difficile, dolorosa, ma anche necessaria. Questo libro insomma è anche un omaggio, e di più: una sorta di scrigno, di panorama infinito sui viaggi, di spazio e di pensiero, che si sarebbero ancora potuti fare con lui.

Se si pensa all’importanza del tema trattato, insieme alla pluralità e originalità degli interventi (oltre a quelli di Romano Mastromattei e di Orfeo Pagnani, già nominati, vanno segnalate le riflessioni di Bizhan Bassiri, Bruno Corà, Rodolfo Lama, Boris Lisitsin, Maziar Mokhtari, Martino Nicoletti, Michael Oppitz, Renato Ranaldi, Galina Sychenko), stupisce il quasi silenzio che ha accolto il libro alla sua uscita, e sostanzialmente nei cinque anni successivi. Ma si sa, un libro complesso, letteralmente complesso, stratificato, ha difficoltà a farsi notare nel sistema dell’odierna cultura-supermercato. La civiltà dei social-network, con le sue pillole di poche decine di caratteri che si susseguono a ritmo incalzante, si presta meglio a veicolare i diversi formati di pensiero se non breve, veloce: un simile paziente lento sforzo di riflessione plurale, che necessita molto tempo molti avanti e indietro per farsi comprendere, e qua e là pause autenticamente contemplative quando non estatiche di fronte a un’immagine, una foto, era destinato a essere sepolto senza troppi clamori. Io l’ho scoperto per caso, in un passaggio da mano a mano – i libri fortunatamente hanno una loro vita, un loro itinerario, più forte a volte delle logiche di mercato, o delle mode. E ne scrivo oggi, a quasi cinque anni dalla sua pubblicazione, soprattutto per via di un’illuminante, feconda associazione che la sua lettura mi ha permesso di fare e che continua, ostinatamente, a interrogarmi dentro: mi sembra infatti che potrebbe stimolare non solo gli specialisti di sciamanesimo ma anche, più in generale, tutti coloro che si interessano all’arte, e alla letteratura.

Nel 1962, in poche dense pagine delLa pensée sauvage (Il pensiero selvaggio), Claude Lévi-Strauss imbastisce un confronto tra il sistema totemico e quello del sacrificio – che erroneamente prima di lui erano stato messi in un rapporto di derivazione l’uno dall’altro – da cui si evince, secondariamente, una teoria a tutto tondo del sacrificio che da allora non smette di affascinare gli studiosi di storia delle religioni e del variegato campo demo-etno-socio-antropologico. La sua geniale semplicità ci permette di riassumerla in due parole, prendendo come quadro esemplificativo una radiografia del mito di fondazione esiodeo – ma appunto, qualunque mito o rito di sacrificio dovrebbe potersi leggere con un simile schema: gli uomini si connettono agli dèi, da cui sono separati, tramite la vittima fatta sacra (cioè sacri-ficata), che successivamente viene fatta sparire, in parte per mezzo di ciò che, letteralmente, va in fumo sull’altare (le bianche ossa coperte di grasso, la fraudolenta infima porzione degli dèi), in parte per mezzo del pasto sacrificale (la sontuosa porzione degli uomini). Gli dèi, a quel punto – questo è secondo Lévi-Strauss il fine del rito sacrificale – interverrebbero, per riempire il vuoto e letteralmente appagare la richiesta umana (il verbo dell’originale francese, combler, porta in sé entrambi i significati). Il sacrificio – sempre secondo Lévi-Strauss –  opererebbe in una prospettiva inversa a quella dei diversi miti d’origine delle istituzioni totemiche, e finalmente del mito in generale: quest’ultimo trasforma il continuo in discreto, la sua logica è quella della metafora; il rito sacrificale viceversa cerca di ritrovare il continuo a partire dal discontinuo, la sua logica è quella della metonimia.

Questo sistema genialmente semplice ha però una debolezza maggiore: quando lo si usa per capire un particolare sacrificio (compreso quello  per noi archetipico, il greco) ci appare come astratto, e incapace di dare senso ai concreti elementi che s’incontrano nella sua descrizione, o sul terreno, sul campo. E poi, come e quando si riempirebbe il vuoto instaurato dal sacrificio? (Parlo del sacrificio agli dèi, perché – anche solo restando nell’ambito greco – ne esistono alcune forme, per esempio quello agli eroi, che comunque non rientrerebbero in questo schema). Il risultato auspicato, se di risultato si può parlare, non è quasi mai evidente, e comunque non in prossimità, o magari negativo: placare una collera, rimuovere gli ostacoli che impediscono una spedizione, o un ritorno etc. (ancora più lontano di Esiodo: Omero…). Ed ecco: alcuni decenni dopo quei miei studi universitari, attraversando un orizzonte rituale che (apparentemente) non ha nulla a che fare con il sacrificio, appunto quello dello sciamanesimo e di alcune manifestazioni artistiche connesse, oggetto del libro curato da Orfeo Pagnani, mi sono imbattuto in una prospettiva interpretativa originale che permette di ripensare più concretamente quella teoria. E l’una e l’altra – cioè la teoria levistraussiana del sacrificio e la prospettiva che emerge dalLe nove porte – si illuminano a vicenda.

Motore e chiave di questa “originale prospettiva” è senz’altro la distinzione fra arte sciamanica e arte degli sciamani, che attraversa la riflessione di Mastromettei e impregna, in modo diverso e con diverse articolazioni, l’intero libro. L’arte sciamanica, similmente all’arte che conosciamo in generale, è concepita come qualcosa che è destinato a persistere. È composta principalmente di sculture in legno, in pietra, in osso, e altri materiali più o meno resistenti, o ancora dipinti, disegni su pelle, graffiti su roccia etc., insieme a tutti quei paraphernalia propri alla cerimonia dello sciamano, che conosciamo – la persistenza, appunto – attraverso i musei: tamburi, costumi, oggetti metallici etc. Ne sono autori gli “artisti” che gravitano più o meno da vicino intorno allo sciamano: da vari tipi di artigiani del ferro, del legno, della pelle, sarti, tessitori, a diversi suoi assistenti e sottoassistenti, o persino semplici simpatizzanti; sino ad arrivare, ben più lontano, a veri e propri artisti moderni e post-moderni che dai rituali sciamanici hanno tratto profonda ispirazione, anche per quel che riguarda la permeabile relazione destinatore destinatario. Ma appunto: lo sciamano non è mai il creatore di questi oggetti. L’arte dello sciamano, viceversa, è opera sua, o al limite di un qualche suo assistente, ma sotto la sua supervisione: si tratta sostanzialmente di disegni tracciati per terra, tendenzialmente astratti, con polveri colorate, di statuette e manufatti vari, con materiali provenienti dal mondo naturale circostante (rami, foglie, penne d’uccelli, frammenti di stoffa etc.), a volte commestibili (riso e miglio), intrecci di fiori e vegetali, e simili, cui vanno aggiunti ovviamente i canti e i suoni via via prodotti. È un’arte poco conosciuta anche perché, a differenza dell’altra, è destinata a scomparire, a essere distrutta non appena la sua funzione – qualche ora, una notte al massimo – è esaurita, sottolinea Mastromattei (21).

La funzione di cui si parla è quella racchiusa nella durata (qualche ora, una notte al massimo) della cerimonia sciamanica. Anzi di una delle tante possibili cerimonie, con i molti obiettivi perseguiti. La più famosa è probabilmente quella che sfocia nel viaggio: lo sciamano esce dal proprio corpo e traversa diverse regioni del cielo, diverse porte, perdendo o trasformando via via la propria coscienza attraverso l’esperienza estatica, la transe indotta, sino alla totale catalessi; e strada facendo affronta varie entità extra-umane, per arrivare magari sino all’ultima porta, la nona, dove combatte col messaggero di Yama Rāj, quindi ottiene la vittoria e torna… (Sono, queste, le parole di Sete Rumba, sciamano Tamang, che hanno ispirato il titolo del libro). Viceversa, lo sciamano può farsi ricettacolo per accogliere le entità invisibili evocate nel corso della cerimonia. In tutti i casi, come lo spiega Martino Nicoletti, il suo intervento può essere richiesto nella forma di guaritore, di divinatore, di oracolo vivente o di psicopompo (133). La seduta sciamanica, in altri termini, può essere fatta in funzione di uno o più individui, per via di un loro disagio, non sempre evidente, o di una vera e propria malattia; o in funzione di una comunità, colta in un momento di passaggio, di crisi. Tuttavia, al di là di tutte queste forme e obiettivi, il cuore del rito sciamanico risiede altrove. Come lo suggerisce brillantamente proprio Mastromattei (174) l’autentico sciamanismo consiste essenzialmente in un rito in sé e per sé, celebrato come tale, e non in funzione di ipotetiche istanze sociali, terapeutiche o assistenziali. Queste esistono, esiste la volontà di modificare in meglio o in peggio il destino di un individuo o di una comunità, ma l’eventuale successo empirico,  quando esiste, sarebbe secondario rispetto al prestigio che lo sciamano riceve dalla sua durevole capacità di mantenere una relazione di qualità con le entità extra-umane (sia detto en passant il termine divinità in questo contesto mi sembra, da un punto di vista storico-religioso, quasi sempre inadeguato). O c’è di più?

Mi è venuto da pensare, leggendo queste pagine – pensare come suggestione, non per comparare in senso strettamente storico-religioso – al cuore della filosofia Zen, in cui il beneficio è un effetto secondario alla sua realizzazione: e tuttavia tale beneficio non deve assolutamente essere ricercato, pena la perdita irrimediabile di quella stessa realizzazione. Anche, mi è venuto da pensare – ricordi nascosti della mia adolescenza – alla natura violenta, ossessiva della tensione amorosa, in cui è la fantasticheria, l’incantamento, il viaggio, magari profondamente doloroso, pericoloso, persino letale, ad essere il vero fine, non il raggiungimento dell’oggetto desiderato, che non di rado finisce per dissolversi nella nebbia. (E che sorprendente conforto – uno dei tanti che questo libro concede – ritrovarsi fra le pagine in cui l’artista Renato Ranaldi racconta della sua passione per Rita Hayworth, incontrata con Gilda, che solo riesce a smuovere la contemplazione di un altissimo palo dipinto piantato come una sorta di idolo nel giardino di fronte alla sua finestra…)

Ma soprattutto mi è tornata in mente, accompagnandomi durante tutta la lettura, la teoria sacrificale di Lévi-Strauss di cui dicevo sopra, che si fonda anch’essa su una distruzione costruttiva. Il sacrificio animale stesso, peraltro, può comparire durante una seduta sciamanica, anche se con scelte e modalità poco ortodosse rispetto a quelle usualmente conosciute. Fra i casi più significativi c’è il cavallo, la cui anima poi guiderà l’anima dello sciamano attraverso i cieli, o il capro, o ancora il pollo – forse il meno sacrificale fra tutti gli animali – il cui sangue si mischia con altri elementi, ad esempio i disegni composti per terra con polveri di diversi colori, se non con lo stesso sciamano, e s’inserisce come importante nutrimento propulsore nel rito: in ogni caso un qualche sacrificio, cruento o incruento, animale o vegetale, spesso con un meccanismo di tipo transustanziazionale o di sostituzione (di cui Lévi-Strauss ha ben spiegato il ruolo fondamentale) è sempre presente. D’altronde, il consumo finale dei manufatti commestibili (per es i g-torma: 30) ha qualcosa del pasto sacrificale.

Ho allora provato a leggere, con l’occhio sacrificale del grande studioso francese, la distruzione finale degli oggetti artistici fabbricati dallo sciamano: questa insomma non avverrebbe, come qua e là sembra emergere (per esempio 30, con le parole di Mastromattei) non appena la seduta è finita, ma sarebbe, internamente ad essa, il momento chiave che permette di accrescerla in potenza, realizzarla sino in fondo, e chiuderla, per tornare alla piena normalità… Addirittura, la distruzione dei disegni, o di altri artefatti, ora calpestati, ora smembrati, dispersi, etc. sembra a volte svolgersi secondo le modalità di un autentico omicidio rituale: è il caso delle distruzioni descritte da Martino Nicoletti (in particolare, 141 e sgg.), interpretate come mezzo radicale per neutralizzare potenze invisibili, malattie, etc. che questi oggetti avrebbero risucchiato. Ma appunto, perché distruggere? Nel caso del viaggio – dove non sono dunque gli dèi che arrivano ma l’eccezionale intermediario che parte alla loro ricerca – si può anche suggerire che ciò serva a garantire il ritorno dello sciamano dentro il suo corpo, o almeno a stabilizzarcelo definitivamente (la distruzione avviene comunque alla fine della seduta), proprio secondo lo schema vuoto/pieno imbastito da Lévi-Strauss. In altri casi, tuttavia, la distruzione sembra piuttosto volta a svuotare un troppo pieno, a sancire una separazione, l’adeguato congedo, a cacciar via, espellere o, appunto, a neutralizzare. Insomma, non pare possibile ricondurre tutte queste distruzioni, dagli animali ai disegni dalle statuette alle offerte vegetali al materiale commestibile consumato dagli astanti, diverse e per lo più effettuate con modalità e in momenti diversi, a un’unica finalità, soprattutto rifacendosi a una prospettiva astratta come quella tracciata da Lévi-Strauss.

A meno, ancora una volta, di provare a immaginare che la distruzione abbia un valore in sé, serva a se stessa. Questo non vuol dire che le altre finalità ipotizzate non debbano essere considerate; semplicemente, come con la seduta sciamanica nel suo insieme, avrebbero un’importanza minore. Le immagini, le situazioni che si scoprono nel libro, sono innumerevoli, vertiginose, come se componessero un caleidoscopio: si provi a pensarle, a ripensarle cogliendole con lo stesso sguardo. Come la musica, la recitazione, i canti, che nascono e muoiono durante la seduta ma continuano a rinascere, sempre eguali e sempre diversi, anche al di là della vita del singolo sciamano – si trasmettono da maestro a discepolo – così deve avvenire anche con tutti gli altri prodotti della sua arte. Il tra (cioè lo iato spaziale e temporale rappresentato dalla seduta, secondo le parole di Nicoletti: 141) è il loro unico spazio di vita, e proprio per questo conferisce a quei prodotti un’assoluta unicità. Fuori da quel tra verrebbero banalizzati, rischierebbero di cadere in mani – e orecchie – impreparate, distratte. D’altra parte, proprio perché si dissolvono, sono dissolti, magari brutalmente, questi prodotti possono rinascere, sempre uguali e sempre diversi, sempre potenti, giovani, non sottomessi a usura, per il più gran bene dello sciamano e della comunità che vi si riconosce – per sempre. Solo ciò che è mutevole può fondare l’immutabile.

Certo, mi rendo conto di esser scivolato nel linguaggio con cui nei miei primi studi universitari di storia delle religioni affrontavo, all’interno del mondo greco, la complessa questione degli aedi e dell’oralità soggiacente ai poemi omerici. Non è un caso: già allora si era imposta all’attenzione la comparabilità di alcuni motivi e tecniche performative, se non estatiche, degli antichi cantori con quelle degli sciamani – a cominciare dal fatto che anche in quel contesto la recitazione, il canto dei poemi, è inquadrato all’interno di una cerimonia. E anche in quel contesto l’intreccio poetico-musicale gioca un ruolo fondamentale, con la creazione di un vero e proprio linguaggio ad hoc, diverso da quello quotidiano, una lingua complessa e duplice, che consente di entrare in contatto con un mondo soprannaturale, per usare le parole: 193) che Galina Sychenko utilizza a proposito appunto… della tradizione sciamanica. La musica, del resto, di tutte le arti, non è quella che per sua propria natura più corrisponde all’immaterialità della parola alata?

Questo è in sé, come ovvio, un immenso territorio da esplorare, e si apre anche al doppio confronto, sia sul versante del canto formulare antico che dello sciamanesimo, con forme di musica moderna e contemporanea. Il breve ma pregnante contributo proprio della Sychenko, con tanto di trascrizione musicale di un testo sciamanico, traccia in questa direzione alcune preziose piste di ricerca – significativo, commovente anche il suo riallacciarsi, di nuovo, all’opera di Mastromattei, che da subito riconobbe il ruolo e l’importanza della componente musicale nel “complesso sciamanico” (191). Ancor più significativo – almeno, per me – è il riferimento a uno dei suoi primi interventi in tal senso, nell’ambito del Convegno internazionale sull’oralità, a cavallo fra etnologia e studi classici, tenutosi a Urbino nel luglio del 1980: gli stava vicino, fra i relatori, un giovane Marcello Massenzio, le cui riflessioni sul ruolo eccezionale del poeta-cantore-rapsodo nella Grecia antica hanno avviato i miei studi storico-religiosi sugli aedi omerici. Così oggi la lettura di questo libro soprendente e meticcio, per la sua capacità di mescolare campi diversi, mi porta a ripensare a quei lontani studi, con una questione che va al di là dell’etnologia e della storia delle religioni: la natura dell’effimero, e la sua funzione nell’aspirazione dell’arte, della poesia, a diventare eterne. Cosa vuol dire questo, tanto più nell’epoca in cui i social network hanno inflazionato la parola e prosciugato perfino la possibilità di un canone, per coloro che amano la letteratura, e i libri?

Platone, i cui scritti costituiscono uno dei momenti più alti della storia umana, nutriva per la marmorea morta scrittura un’argomentata diffidenza, al punto che – secondo alcune interpretazioni – avrebbe affidato  alla vitale multiforme parola alata la parte più preziosa del suo insegnamento. Del resto nella Grecia del V-IV secolo, che possiede oramai la scrittura, la trasmissione e la pubblicazione delle opere continuano, comunque, a realizzarsi oralmente. In altre tradizioni (penso in particolare a quella ebraica) il rapporto fra lo scritto finito e il non scritto infinito – e quindi più adeguato ontologicamente ad esprimere il divino, l’extra-umano – gioca anche un ruolo importante. Ma appunto quelle stesse tradizioni ci insegnano anche che il libro, ben più che semplice strumento o prolungamento delle tradizioni orali, è lui stesso carico di una sua propria vertiginosa santità, che va persino oltre il fatto di poter essere, com’è noto, dettato dal dio o da un suo messaggero (il Midrash della Genesi commenta: … In principio, Dio leggeva la Torah e creava il mondo…). Ecco, per noi che laicamente cerchiamo di difendere e diffondere la letteratura, questo è un monito a tener viva la memoria della verticalità del libro: perché, come lo ricorda Borges, un libro è carico di passato e ogni volta che lo leggiamo è mutato, la connotazione delle sue parole è diversa. Così, il libro raccoglie e continua la sfida dell’effimero che aspira a diventare eterno – quasi che il marmo e la parola alata fossero in realtà modellati con un’unica pasta, due facce della stessa medaglia, come l’iceberg e la sua parte sommersa. (E se la famosa diffidenza formulata nel Fedro, o nella lettera VII, più che alludere a una superiore forma di insegnamento non scritto, volesse semplicemente fondare, difendere una scrittura capace di mantenersi infinitamente aperta, viva? I Dialoghi, appunto: che in ogni caso sono, strutturalmente, espressione perfetta di questa miracolosa fusione di parola e marmo…)   

Artists’ Flirt with Shamans è il titolo del contributo di Michael Oppitz alLe nove porte, che appunto c’introduce al mondo degli artisti moderni e post-moderni attirati dallo sciamanismo, anche cercando di spiegare le ragioni di questo fascino, di questa danzante attrazione. Il primo a essere considerato è, non a caso, Joseph Beuys: la sua opera rivela, al di là di un’attenta conoscenza della letteratura etnografica sullo sciamanesimo, un contatto stretto, esistenziale, con quella cultura, di aspirazione ancor più che d’ispirazione, capace di mettersi in gioco anche fisicamente sino all’estremo limite. Si consideri ad esempio la performance I like America and America likes me, New York, René Block Gallery, 23-25 maggio 1974, in cui l’artista ha isolato la galleria con una rete metallica, chiudendovisi dentro per tre giorni insieme a un coyote, munito soltanto di alcuni oggetti sostitutivamente evocatori dei paraphernalia sciamanici (torcia = camino; triangolo = tamburo; bastone da passeggio = verga del guaritore; due coperte di feltro = mantello rituale), in un avvicendarsi di gesti, appostamenti, reciproco fiutarsi, avvicinarsi, allontanarsi, per arrivare a comunicare, a conoscersi (da notare il messaggio militante sulla riabilitazione delle specie – e culture! – discriminate). E si guardi, dopo aver attraversato l’intero libro, l’immagine della pagina 82, come gemmata da questo irripetibile percorso, la si accosti alla foto di inizio Novecento (subito sotto nella stessa pagina),  in cui il ricercatore finlandese Atturi Kannisto immortala un momento del rituale dell’orso, officiato da uno sciamano di etnia mansi: l’emozione, il senso di vertigine che si provano sono quelli di chi sprofonda in un universo nel contempo familiare e infinito. È un’emozione incantata che ricorda quella dei Feaci riuniti intorno al canto del divino Demodoco, che svela le ben conosciute storie gloriose degli eroi e degli dèi. È la nostra che continuiamo a rileggere l’Iliade e l’Odissea tremila anni dopo. Ecco, questa coscienza verticale, a combattere l’omogenea superficie orizzontale dei libri ammonticchiati inermi sulle tavole delle librerie-supermercato, dovrebbe abitarci ogni volta che consideriamo – creando, editando, leggendo – un libro. È con la stessa coscienza che ho provato a disseppellire questo libro prezioso, sperando che possa incontrare qualche altro attento lettore.

 

Le nove porte: Sciamanesimo e arte contemporanea, AA.VV., a cura di Orfeo Pagnani, Exorma, 2014, 262 p.

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ha pubblicato uno studio di teoria del romanzo L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo (2003) e la raccolta di saggi La confusione è ancella della menzogna per l’editore digitale Quintadicopertina (2012). Ha scritto saggi di teoria e critica letteraria, due libri di prose per La Camera Verde (Prati / Pelouses, 2007 e Quando Kubrick inventò la fantascienza, 2011) e sette libri di poesia, l’ultimo dei quali, Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, è apparso in edizione italiana (Italic Pequod, 2013), francese (NOUS, 2013) e inglese (Patrician Press, 2017). Nel 2016, ha pubblicato per Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, Parigi è un desiderio (Premio Bridge 2017). Nella collana “Autoriale”, curata da Biagio Cepollaro, è uscita Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016 (Dot.Com Press, 2017). Ha curato l’antologia del poeta francese Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008 (Metauro, 2009). È uno dei membri fondatori del blog letterario Nazione Indiana. È nel comitato di redazione di alfabeta2. È il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.