La convalescenza
Anna Giuba
Un libro non è un libro. È un attentato al dolore, magia oscura, frammento di universo. È pulsazione di stella morta che ancora ha luce. È un pezzo di vita spezzato come uno spaghetto.
Un libro salva la vita, a volte. Per me fu Steinbeck, L’inverno del nostro scontento. Stava nella mia libreria dall’anno in cui ero nata, apparteneva a mio padre. Fu mia madre a portarmelo, afferrato a caso tra i tanti, nel reparto di psichiatria dov’ero chiusa. I libri ti cercano, certi libri t’incontrano.
Aspettano sotto la polvere per anni, e poi ti scovano, nel momento in cui tu hai più bisogno di loro.
Quel quarto giorno di degenza Sabrina la rom, piedi scalzi per il reparto e occhi mandorle dolci, era scappata. Addormentandomi nel mio letto di ferro , avevo detto a Roberta, che era accanto a me – Chissà Sabrina, se è tornata nel suo campo… magari là accendono i fuochi. – e avevo posato il libro sul petto, scostato gli occhiali dal naso nella luce scabra della lucciola di neon.
– Probabile. – aveva risposto Roberta.
– Mangeranno carne alla griglia. Lo sai, i rom sono un popolo di pace. Li odiano perché sono sporchi e rubano, ma sono il solo popolo della terra a non aver mai fatto una guerra. –
Roberta aveva assentito nell’aria assorta della terapia della notte. Forse era troppo giovane per capire davvero. La giovinezza a volte è una gran fregatura.
– Tornerà? – aveva aggiunto.
– Forse, chi lo può sapere. Ha i piedi liberi, e qui la porta è chiusa. – e avevo riaggiustato gli occhiali sul naso e ripreso la mia lettura nella lucciola di neon sospesa sul letto di ferro.
Ero con Ethan. Niente poteva staccarmi da lui e Mary in quei primi giorni di degenza. L’urto era stato frontale. Bevevo e giocavo, e ci andavo anche a fondo, con quell’autodistruzione. Quando uno si autodistrugge, non sa mai perché, lo fa e basta. Va come un treno. Un amico alcolico una sera mi aveva detto, al bar degli spostati – Se non vedi la fine del tunnel, arredalo. – E mi ci ero sistemata anche bene, nel mio tunnel personale, ora avevo anche un letto in psichiatria. Nessuno aveva leggi per impedirmi di bere e di giocare, se non loro, i medici dell’anima. Ma come si fa a curare l’anima. Se non parla, l’anima, è solo per paura.
Come poco parlava Roberta. Oh, Roby, con i suoi tentativi di suicidio a ripetizione, con quel voler cercare la morte come un porto sicuro, l’unico dove si è realmente liberi. Ma per che sogni possano venire in quel sonno. Roberta non doveva morire. Se è vero che tutti hanno un compito, e non svaniscono nella polvere fino a che quel compito non l’hanno compiuto, Roberta doveva vivere.
La osservavo dormire, a volte, il sonno inspessito dei farmaci, trent’anni di zigomi alti e paffuti. La rivedevo bambina, come lei mi aveva raccontato, vittima di chi era meno fragile di lei, o forse lo era di più, soltanto sapeva nasconderlo meglio. E i bulli non avevano scherzato, con le sue sopracciglia spesse e i baffetti sulla sua faccia di bambina. Le era rimasto dentro quell’annullarsi, quello sciogliersi dentro il nulla, come le sue gocce in un bicchier d’acqua. Anche se ora i baffetti e le sopracciglia spesse erano spariti, Roberta si cullava nel ventre la morte. La cullava come avrebbe fatto con un sogno abnorme. Ma Dio le teneva una mano sulla testa, su quei suoi capelli lisci, e scuri, e lunghi, e le diceva – Figlia mia, bambina. Puoi ingoiare quante pillole vuoi, ma il tuo sangue resterà limpido, perché così deve essere. –
M’imbattevo nei suoi movimenti limpidi e tondeggianti. Le prendevo una mano, a volte. Così, come fosse la bambina che non avevo mai avuto. Roberta amava tutti, indistintamente. E quando l’io annega nel troppo amore è un po’ come pungersi con lo stelo di una rosa. Mi sembrava di vederla costantemente sola, esposta all’infinito infuriare delle tempeste dell’anima, dei venti dell’esistere.
Ma non erano fatti miei, così ritornavo a bere con Danny Taylor e la sua bottiglia, a chiedere un dollaro per ubriacarmi, a chiedere ad Ethan e Mary di salvarmi, ancora per una pagina.