I am the Revolution
di Giuseppe Acconcia
Abbiamo assistito al Cinema Rex di Padova alla proiezione di “I am the Revolution”, documentario di Benedetta Argentieri, realizzato da Possibile Film. La regista che aveva realizzato “Our War”, insieme a Bruno Chiaravalloti e Claudio Jampaglia, raccontando le storie degli internazionalisti che si sono uniti ai combattenti del Rojava, Joshua Bell, Karim Franceschi e Rafael Kardari, torna sul tema dei movimenti curdi. “Ho voluto scardinare il racconto mainstream sulla lotta delle donne curde rappresentando la loro vera quotidianità”, ha spiegato Benedetta.
Questo documentario racconta la storia di tre donne rivoluzionarie in Siria, Iraq e Afghanistan: Yanar Mohamed che organizza, attraverso rifugi per donne in fuga dalla tratta, da violenze familiari e dalla prostituzione, un piccolo esercito pronto a combattere per i diritti delle donne; Rojda Felat, comandante delle Forze siriane democratiche (Fds), che raggruppa combattenti curdi e gruppi arabi, sostenuti dagli Stati Uniti, nella lotta contro lo Stato islamico (Isis) in Siria, arrivato alle sue fasi finali con la liberazione di Bhaguz; e Selay Ghaffar, portavoce del partito della Solidarietà (Hambastagi) in Afghanistan, unico partito laico e progressista del Paese e l’unico con una leader donna.
Le tre protagoniste del film hanno dedicato la loro vita a rendere consapevoli le donne dei loro diritti, delle loro possibilità, a combattere le regole patriarcali dei tre Paesi in cui vivono. Per esempio Selay ha passato la sua vita a educare le donne e lottare per la loro indipendenza e ora cerca di trasferire questa esperienza ovunque, di villaggio in villaggio. Da parte sua, Rojda guida 60mila uomini e donne dell’Sdf nel nome della parità di ruoli tra uomini e donne delle Unità di protezione maschili e femminili (Ypg-Ypj).
Il racconto è arricchito dalla testimonianza di una giovane combattente araba che si unisce ai curdi nella lotta di liberazione del Rojava. L’esclusivismo rispetto ad altre minoranze è una delle accuse principali che viene mossa ai combattenti curdi nel Nord della Siria, impegnati a mettere in pratica gli ideali di Abdullah Ocalan di uguaglianza tra uomini e donne, ecologia e autonomia democratica. Questi temi sono trattati con grande spessore nei film “A flag without a country” di Bahman Ghobadi e “Filles du feu” di Stéphan Breton.
Eppure il tentativo delle curde del Rojava è davvero rivoluzionario, come ci aveva spiegato la comandante Ypj Rojin in un’intervista realizzata a Kobane nel 2015. “L’amore è essenziale, parte dell’istinto di ognuno. La filosofia della morte è un modo di vivere. Nel passato tutti sapevano che a breve sarebbero morti ora non è così e questo ci disconnette dalla natura e non ci fa accettare l’idea di morte. La religione sfrutta la morte: se sei martire vai in paradiso. Per noi amore e morte sono in contraddizione: quando ne discutiamo è per cercare una nuova vita militare, comunitaria, quotidiana. La donna non è fatta solo per avere figli. Vogliamo riformare, rinnovare la comunità”, ci aveva spiegato Rojin.
Il documentario riporta la vita di tutti i giorni di queste attiviste e combattenti, nei loro dialoghi con gli uomini, nelle ore passate a discutere con le donne avvolte nei loro burqa, nelle ore trascorse a pranzare sedute in terra, nelle difficoltà quotidiane che si vivono in un contesto di guerra. Eppure la guerra è suggerita e richiamata ma non appare con il suo volto più scontato della prima linea e delle macerie ma nel piangere le martiri dei combattimenti in un cimitero o nelle dichiarazioni ufficiali di Rojda dopo la battaglia. Questo rende l’opera matura e interessante, confermando l’impegno di “giornalista di guerra” dell’autrice che non vuole indulgere in facili autocelebrazioni.
Il documentario suggerisce che le riprese sono terminate nei mesi in cui la roccaforte di Isis, Raqqa, è stata liberata da Isis, nell’ottobre del 2017. Da allora i combattenti curdi hanno subito l’occupazione del cantone di Afrin da parte dell’esercito turco nell’ambito della sciagurata operazione “Ramoscello di Ulivo”, l’annuncio del possibile ritiro unilaterale delle forze Usa presenti nella regione e la liberazione di Baghuz. La liberazione di Kobane per la prima volta nella storia curda ha reso le diaspore curde non più vittime di un oppressore, come è stato per esempio al tempo di Hussein in Iraq, ma in prima linea per difendere la libertà e i diritti delle donne. Cosa succederà ora a questo esperimento così innovativo in una regione così pervasa da spinte conservatrice e islamiste radicali?